martedì 30 dicembre 2014

Un salto rapido

Come prepararsi per fare tutta la vasca in apnea.
È come il bungee jumping, come cominciare una pagina di Bernhard, o bere ouzo e tequila.
Serve un respiro lungo, prima.

domenica 28 dicembre 2014

Convergenza di opinioni

E adesso che hai finito di dirmi il niente che mi dovevi dire,

E adesso che hai terminato forse la riserva di nulla con cui mi intrattieni,

comincerai a raccontarmi le vite di altri

comincerai a parlarmi dei libri che hai letto

o quelle che tu credi essere tali

o dei sogni che hai fatto,

o le trame che inventi,

e non c'è una parola, tra quelle che dici,

che credi.

a cui tu creda.

Ma quando smetterai di parlarmi degli altri,

Ma se smetterai di parlarmi di te,

comincerai a chiedermi di noi.
comincerai a chiedermi di noi.

sabato 27 dicembre 2014

Chi s'è preso il cuore di George?

Il George di cui parlo non è il mio notorio amico, ma quel George Michael che nel periodo natalizio... Ma andiamo con ordine. Potrei farmi convinta che quelli natalizi non siano brutti giorni, e per certi versi credo che sia così, non lo sono, a patto di evitare tutte quelle cose che non è possibile evitare. Se riuscissi a estraniarmi da certe vetrine addobbate in modo improbabile, dai babbi natale appesi ai terrazzi, dagli oroscopi per l'anno nuovo, dalle domande di chi vuole sapere cosa faccia il prossimo per l'ultimo dell'anno... Se riuscissi a ignorare tutto questo, allora... Allora no, non sarebbe ancora abbastanza, perché resterebbero altri elementi invisibili ma penetranti: le canzoni.
Canzoni il cui scopo credo sia quello di volerci fare sentire come se fossimo dentro un film. Il George di cui sopra, come anticipavo, non è il mio amico, ma il povero George Michael, che mentre prendo i mandarini al supermercato, lamenta dagli altoparlanti l'errore di avermi dato, l'anno scorso, il proprio cuore, ma a quanto pare quest'anno sarà più avveduto e mi preferirà qualcuna migliore di me. Assieme a lui, Bobby Helms e il suo Jingle Bell rock, ne sono certa, vuole convincerci di essere tutti in una sorta di New York innevata e invasa da una calata di ciccioni in pigiama rosso.
Ma io sto solo prendendo i mandarini, e non sono Meg Ryan, e men che meno lo è la signora in pelliccia e permanente esausta (la permanente, non la signora. O forse anche lei, chissà...), intenta a valutare assieme alla figlia annoiata che liquore prendere per lo zio. Sto solo prendendo i mandarini, caro George, solo i mandarini, capisci Bobby?, non sono Meg Ryan, e dubito che spunterà Tom Hanks da dietro lo scaffale dei calzini a salvarci.

sabato 20 dicembre 2014

Il non calcio lungamente atteso

Quell'inizio accattivante di canzone, quel Non ho visto nessuno andare incontro a un calcio in faccia con la tua calma indifferenza, sembra quasi che ti piaccia, mi fa pensare a chi, di contro, mi sembrava deluso, amareggiato, per il rendersi conto che ancora una volta stava riuscendo a evitarlo, il calcio in faccia.

mercoledì 10 dicembre 2014

Lo scopo della gallina

Thelma e io, purtroppo, non riusciamo a vederci molto spesso. Il suo vero nome è, al solito, un altro rispetto a quello che adopero qui, e l'origine della scelta del soprannome si perde in un viaggetto che facemmo assieme in auto alcuni anni fa.
L'ultima volta che ci incontrammo (ultima nel senso di latest, non certo di last) fu quest'estate, in una mattina di sole in cui decidemmo di andare a passeggiare sui colli. Ricordo che le raccontai che la sera precedente avevo commesso un errore di mancata empatia con mia madre, che mi aveva confessato di sentirsi profondamente incupita perché "...a cosa servo io, adesso? Che senso ho? Prima avevo te e tua sorella da far crescere, ma adesso siete grandi..."
Era Beckett che faceva dire a uno dei suoi personaggi: tu mi hai salvato la vita, ora me la devi alleviare, ma la frase non si adattava al mio caso. E invece di cercare risposte semplici, com'era implicitamente richiesto dalla domanda, mi sono impelagata in una domanda ancora peggiore: "Ma scusa, a che ti serve, uno scopo?"
Errore. Errore da principiante. Errore che ho poi ulteriormente aggravato, perché di fronte alle proteste di mia madre secondo cui sì, certo che uno scopo serve e ci deve essere, ecco, di fronte a queste proteste, invece di cercare di mettermi nei panni di lei, mi sono infilata ancora di più nei miei chiedendole quale fosse, secondo lei, al di là del mantenimento della specie, lo scopo di una gallina che ogni mattina si svegli, razzoli e becchetti qua e là, quando cala la sera riponga la propria testolina sotto l'ala e se ne parta per un viaggio potenzialmente senza sogni, chissà, per poi riprendere il giorno successivo con la stessa solfa.
Era facile immaginare che l'effetto che avrei ottenuto su mia madre con una risposta di questo tipo sarebbe stato quello di un involontario disastro, ma io in quella sera non fui in grado di prevederlo.
Con una semplicità disarmante, Thelma mi fece notare che sarebbe stato estremamente più utile proporre come nuovo scopo il far crescere non tanto le due figlie ormai grandi, quanto quel frugoletto di nipote di cui mia madre si trova ad essere la nonna.
"Era così semplice? Sì, in effetti sarebbe stato molto semplice se... Ma perché non ci ho pensato?"
"Perché... Perché tu neghi lo scopo, dal momento che sei stufa di cercarlo"

Spero di rivederla presto, Thelma.

venerdì 5 dicembre 2014

Pt, 78

Per una semplice combinazione mi è capitato, oggi, di leggere che il simbolo alchemico del platino è dato dall'unione dei simboli dell'oro, a propria volta associato al Sole, e dell'argento, associato invece alla Luna.
Per qualcuno appassionato di astrologia potrebbe essere l'inizio di un discorso davvero lungo. Invece io mi limito a pensare, in modo, devo ammetterlo, ingenuo e forse anche infantile, a sole e luna e luce e ombra e alti e bassi e ...
E questi miei giorni sono come il platino: luci e ombre.
Come il platino: preziosi, e pesanti.

mercoledì 3 dicembre 2014

Hai freddo?

La storia è breve: fu per colpa di una buca del marciapiede che un giorno il giovane Giacomo inciampò malamente mentre scendeva dal motorino per recarsi in libreria. I libri che andava cercando, guide turistiche di Budapest, erano il presupposto per il viaggio che stava progettando per le sue prossime ferie con Teresa. Si erano entrambi scoperti amanti delle città segnate dalla storia e dal Danubio. Inciampò malamente, si è detto, finendo in mezzo alla strada mentre sopraggiungeva, a velocità parecchio sostenuta, un berlina scura. I medici arrivati con l'ambulanza commentarono che pochi fortunati sopravvivono a incidenti dalla dinamica confrontabile con quanto era capitato a Giacomo. Pareva quasi che tutta la sua buona sorte si fosse data appuntamento nel casco che non aveva ancora sfilato e che, assieme allo zaino che portava in spalla, gli aveva evitato di sbattere malamente la testa sull'asfalto e chissà dove altro ancora.
Fu quella buca, quindi, a rubargli, da inconsapevole ladra, il viaggio che secondo i piani di Teresa avrebbe dovuto prevedere il soggiorno in un hotel a svariate stelle (Almeno per una volta..., così Teresa), quel viaggio che magari non sarebbe stato favoloso, ma che si stagliava come un prossimo diversivo, un intervallo, una boccata d'aria. E invece avrebbe dovuto rimandarlo.

sabato 29 novembre 2014

Le piccole oscillazioni del pendolare

Le studiarono, tra gli altri, Huygens e Galileo, tanto per inquadrare l'importanza delle piccole oscillazioni di un pendolo, e di tutti i fenomeni che le accompagnano. E io me li vedo, questi parrucconi secenteschi (sia detto con rispetto, ammirazione e bordate di invidia), che osservano il povero pendolo che non solo non ha requie e non può decidere a che tratto dell'escursione appartenere di più, ma non può nemmeno avere la soddisfazione di farsi un bel giro adrenalinico.
Solo. Piccole. Sfibranti. Oscillazioni.
Come un, per l'appunto, pendolare che si muova tra due regioni distanti, sì, ma non troppo, non oltre quel limite che gli farebbe decidere di spostarsi in una delle due zone tra le quali continuerà invece a fare la spola. Come qualcuno che stia a volte un po' bene, altre volte un po' male, ma non troppo, non oltre quel limite che gli farebbe decidere di assestarsi in modo definitivo in una delle due condizioni tra le quali continuerà invece a fare la spola.

mercoledì 26 novembre 2014

E allora?

Mi fanno sorridere le persone che, quando il tempo fa schifo, se la prendono con, per l'appunto, il tempo, come se fosse colpa sua. Sua di chi, poi? Del tempo... Un po' come la montagna maledetta che si porta via una manciata di scalatori, o gli sciagurati flutti che si ingoiano un paio di surfisti, o... Vogliamo farci tutti animisti?, potrebbe essere un simpatico diversivo. Perché altrimenti, in linea generale, quando il tempo fa schifo o una montagna è impervia o il mare è agitato, beh, in linea generale non è colpa di nessuno. È come se nelle situazioni macro ci servisse il responsabile, quando poi nel micro è una gara a nascondere la testa sotto la sabbia, a le cose sono andate così perché dovevano andare così, non serve cercare un motivo. Personalmente credo di essere abbastanza in gamba, a volte mi alleno anche contro me stessa, e ormai penso che il proverbiale struzzo avrebbe solo da imparare.
Ma come mi disse un giorno un mio amico, non è il massimo poi guardarsi indietro e pensare E allora?della propria vita.

Sul palco del concerto che sono andata a sentire sabato scorso era stato montato uno schermo su cui si susseguivano immagini e video che facessero da accompagnamento alle canzoni in scaletta. Verso la fine è stata proiettata la superficie del Sole, un brulichio di radiazioni elettromagnetiche, neutrini e abbondanti scoppiettii adatti a una palla di plasma degna di questo nome. E ho pensato che, di fronte a tutta quell'infinità di energia, è inevitabile guardarsi indietro e pensare E allora?

domenica 23 novembre 2014

Il mio amico George (10)

"Ti sembrerà che stia usando toni immotivatamente onirici", mi disse George alcuni giorni fa, rilassato sul divano, lo sguardo perso fuori dalla finestra, nonostante fosse già buio. "Potresti avere ragione, forse sono un tantino visionari e drammatici, ma ti assicuro che la sensazione era che nonostante credessi di stare seguendo un cammino che avrebbe dovuto farmi allontanare, beh, la sensazione era che non avrei potuto sceglierne uno che più di quello finisse per portarmi ancora più vicino al punto di partenza. E a bloccarmi, impedendomi di allontanarmi, era proprio l'idea di partire lasciando il resto alle spalle. Come se solo chi fosse già felice potesse allontanarsi, ma di rimando solo coloro che fossero già lontani potessero essere felici. Hai presente quando devi far alzare una mongolfiera...". Qui avrei voluto interromperlo per fargli notare che no, non avevo mai avuto esperienza diretta e quindi non potevo vantarmi di avere presente. Ad ogni modo, lo lasciai proseguire.
"Una sorta di tacita follia di sottofondo, che affiorava solo in brevi istanti di amabilmente sgradevole discontrollo, mi appesantiva. Ora è come se avessi slegato dalla mongolfiera i sacchi di sabbia, di dolore, di ricordi".
Si riscosse, riportando lo sguardo dentro la stanza.
Di lì a non molto se ne sarebbe andato.

lunedì 17 novembre 2014

La natura dello scorpione

Non ci sono grandi margini, almeno a voler credere alla storiella della rana e dello scorpione: quest'ultimo non poteva, magari avrebbe anche voluto, ma non poteva fare a meno, non poteva fare a meno di pungere il povero anfibio che lo stava traghettando di là dal lago. D'altronde era nella sua natura. Risultato? Entrambi che tirano le cuoia, uno scenario il cui equivalente non si sarebbe ipotizzato neanche a studiare il worst case di un algoritmo informatico.
Non ci sono grandi margini, continuerò a voler discutere per poter avere ragione, anche se poi, in fondo, che me ne faccio, di quella ragione?, paradossalmente il dubbio sa indossare gli abiti di un confortevole tepore, molto più di quanto non sappia farlo l'evidenza. Dovrei quindi imparare a evitarla, la ragione, e i rischi che la accompagnano.
Non ci sono margini, continuerò a pensare che il parlare riesca a dare tinte alle emozioni, riesca a rivestirle di drappi dai colori a volte pastello, a volte psichedelici. Credo sia nella mia natura.
Ci vuole impegno per essere la rana e lo scorpione di se stessi.

mercoledì 12 novembre 2014

Un bozzetto mal riuscito

Molto abile nel riuscire a evitarsi il rischio della scelta, più fantasioso che intelligente, particolarmente talentuoso nell'inventare situazioni e racconti ricchi di quelle sottili arguzie che facevano della sua presenza un piacevole riempitivo temporaneo. Non era certo un vaso di terracotta che viaggiasse in mezzo a soli vasi di ferro: era piuttosto un vaso come tutti gli altri. Benché, all'apparenza, lui si ritenesse migliore.

martedì 11 novembre 2014

Articoli da regalo

Gli articoli a cui faccio riferimento sono quelli determinativi, in particolare il femminile singolare che in linea teorica dovrebbe precedere l'aggettivo prossima riferito al sostantivo settimana. So che si tratta di una battaglia persa in partenza, ma ogni lotta degna di questo nome necessita di una spolverata di idealismo.
A conoscere uno psichiatra gli chiederei perché tutto questo fastidio (intendo fastidio fisico, intendo implosione di cattiveria, intendo mani che si irrigidiscono) quando sento frasi del tipo questa cosa la vedremo settimana prossima, dio!, mi precipiterei a scagliare vasi dal balcone senza neanche prima chiedere alcunché alle piante in questione, nemmeno se avrebbero preferito più o meno acqua. E questa volta non mi si può neanche obiettare che sono la solita retrograda ancorata a una lingua fatta di congiuntivi e concordanze e che se fosse per me si tornerebbe a parlare in latino.
In latino gli articoli non c'erano, e io a quel "la" ci terrei parecchio.

domenica 9 novembre 2014

Do not go beyond the line, please

Salgo in treno un po' di corsa, sono in ritardo, ormai i posti sono quasi tutti occupati. Ne vedo uno libero in fondo e mi ci siedo senza troppi complimenti, e senza far caso alle facce di chi è seduto lì attorno. Mentre mi tolgo gli occhiali da sole e prendo il libro dalla borsa, la ragazza di fronte a me alza lo sguardo dal proprio, di libro. Mi accorgo che è Lisa. Non siamo amiche, solo ci conosciamo di sfuggita, quattro chiacchiere al volo quando ci si trova per caso. Anche tu qui, da quanto tempo, come stai?, e tu?, una corsa, appena in tempo, cosa leggi?, non conosco, un po' impegnativo, tu invece?, ah interessante, bello, me lo segno, ne ho tanti in lista, a chi lo dici.
Fine.
Lei riprende a leggere. Io la imito. A pochi minuti dalla nostra fermata (scendiamo alla stessa stazione) ciascuna chiude il proprio libro e riprende coscienza della realtà. E il lavoro nuovo?, bene, più tempo libero, un'altra vita, vuoi un passaggio a casa?, grazie, ho la macchina qui dietro, stammi bene, anche tu.
Amo la rassicurante presenza delle persone che non ci tengono a voler a tutti i costi oltrepassare la soglia della conoscenza superficiale.

giovedì 6 novembre 2014

Un bilancio color Lindor

Dato che le settimane a venire mi scivoleranno via sfinendomi come solo le domande senza risposta sfiniscono, so già che mi troverò a Natale senza rendermene conto. Probabilmente non ha molto senso pensare al Natale adesso, ma sto adottando la tattica dell'accoppiata "lasciar girare il cervello a vuoto" e "scrivere cosa è stato prodotto dall'aver lasciato girare il cervello a vuoto", perché è una delle poche attività che mi rilassano quando sento che l'ansia sale tipo conato di vomito. E quindi riflettevo, anche se in modo tutto sommato vago, sul Natale, e sulle cose che gli si accompagnano e che non sopporto. In primis i Lindor. Sono bellissimi, certo, mi riempirei casa di tutte queste perfette e luccicanti palline colorate; quanto però a scartarne e mangiarne uno, ahimè, questo è un ostacolo che non mi sento di affrontare. In conclusione, non mi piacciono i Lindor. Non mi piacciono neanche i buoni propositi per l'anno a venire, e men che meno i bilanci da farsi sull'anno che si chiude. Bilanci... La settimana scorsa Pibi mi ha chiesto se ho preparato un foglio excel a due colonne, una per i pro e una per i contro del mio cambiare lavoro / casa / città. Ovviamente un'idea del genere non mi era passata nemmeno lontanamente per la testa, e dopo che lui me l'ha formulata l'ho vista allontanarsi, se possibile, ancora di più. Bilanci? Mio dio!, passo gli anni nel tentativo (per il momento riuscito) di coltivare la mia capacità di invecchiare senza diventare adulta, e mi si chiedono bilanci... Non cerco alcuna forma di sovradeterminazione per il mio comportamento, non mi interessa sapere se e perché mi comporti così, semplicemente i bilanci non li faccio, piuttosto ostinatamente li ignoro, evitandomi il rischio di accorgermi che a volte faccio scelte suscettibili di miglioramento.

mercoledì 5 novembre 2014

Radical cheap

Se vogliamo parlare di cervelli ben organizzati, che mantengono traccia solo delle informazioni utili per affrontare con disinvoltura il vivere quotidiano, cestinando tutto il superfluo, io purtroppo devo fare un passo indietro e lasciare la parola a qualcun altro. Sì perché i ricordi che popolano i miei neuroni, anche al netto dei testi completi delle sigle dei cartoni animati e de La Solitudine della Pausini, contemplano davvero episodi e fatti di indubbia inutilità. Oggi, per esempio, mi è tornata in mente una puntata di una trasmissione della De Gregorio che avevo visto dai miei genitori durante le scorse vacanze di Natale. Fortunatamente non credo di avere spazio cerebrale, per lo meno conscio, occupato da dettagli tipo chi fosse l'ospite invitato, il titolo del libro che stava presentando, il nome della trasmissione e altre simili amenità. Ciò che mi è rimasto impresso è un pezzo di dialogo. Ricordo che si parlava delle meraviglie della mente umana (brivido...), e che il tizio in studio mi dava l'idea di uno che avesse preso la laurea in qualcosa al CEPU studiando su Focus. Giusto per non essere classista. Insomma, vengo al dialogo: lo "scienziato" se ne uscì con un Il cervello è un litro e mezzo, ed è dieci alla undici neuroni... E la voce si abbassò a un inintelligibile bofonchio.
Già che uno mi venga a dire che il cervello è dieci alla undici neuroni... Vabbe', transeat. La cosa ancor più raccapricciante però fu la reazione della De Gregorio: con gli occhioni sgranati di uno che avesse appena avuto una rivelazione epocale o poco meno, pose una (per me) infelicissima domanda:
- Un litro e mezzo è dieci alla undici?
- No, un cervello occupa circa un litro e mezzo, e ha dieci alla undici neuroni. Che è anche il numero delle stelle...
- ...c'è da chiedersi se sia un caso...
Questo passaggio, che causò violente reazioni da parte del mio apparato gastro intestinale, ecco, io vorrei poterlo dimenticare. Ma siccome noto che non ci riesco, allora minimizzo i danni, e lo associo a qualcosa di divertente. Tipo a quella volta che, durante la lezione di elettronica, il professore cancellò malamente la lavagna e ciò che ne rimase fu un misterioso 2 V = 3 A, alla vista del quale alcuni tra quelli di noi studenti che avevano perso qualche passaggio si chiesero quale strano postulato fosse quello che stabiliva l'uguaglianza tra due Volt e tre Ampere.
Due volt sono uguali a tre ampere... C'è da chiedersi se sia un caso.

domenica 2 novembre 2014

Una qualità durevole

Per non rischiare di fare brutte figure a causa di un uso poco preciso delle parole, si può scegliere tra almeno due alternative: o studiarsi bene l'etimologia dei termini che si intendono adoperare, oppure non usarli. Oggi ho scelto la seconda strada, e mi sono evitata un imbarazzante scivolone.
Il treno su cui viaggiavo stava lentamente entrando nella stazione di Mestre. Il binario su cui saremmo arrivati sarebbe stato il numero cinque, il che può apparire come un particolare irrilevante e trascurabile ma, al contrario, si rivelerà essere fondamentale. Vicino a me, pronta a scendere per poi prendere, dopo quindici minuti di attesa, la coincidenza per Trieste, una signora. Benché costei, durante i precedenti minuti di viaggio, avesse dato modo di apparire come una persona tutto sommato tranquilla, mano a mano che Mestre si avvicinava riusciva sempre meno a nascondere l'aria concitata con cui manifestava al marito tutta la propria speranza che in treno arrivasse al binario sei, così siamo sicuri di prendere l'altro con calma, senza fare le corse, il controllore ha detto che lo dovremo prendere al cinque.
Per carità, non dubito che il concetto di calma sia soggettivo, ma quindici minuti per scendere da un treno e prenderne un altro, in stazione a Mestre (che, a beneficio di coloro che non ne fossero informati, non è esattamente come il Charles de Gaulle a Parigi, giusto per rimanere sul Continente), a meno di ritardi (che non avevamo) lasciano in genere il tempo per farsi pure un mezzo sudoku sul binario.
Sia come sia, la signora era agitata. Puntava tutto sullo scendere al binario sei, per poi salire dopo poco su un treno sul cinque. Scendere al sei, salire al cinque. Sei, cinque. Sei, cinque, facile, sei, cinque, il treno rallenta sei i freni fischiano cinque, sei le porte si aprono cinque e si sente la voce degli altoparlanti sei confermare che il nostro treno arriverà cinque al binario cinque, bene!, ma noi, dico, noi, su che binario saremo?
Suspence.
Siamo sul cinque.
Sgomento.
"Ma... Ma com'è possibile che questo arrivi al cinque e che poi il prossimo passi sul cinque?"
Ed è stato in quel preciso momento che avrei voluto chiederle se gentilmente non volesse usarmi la cortesia di piantarla di essere stupida. Ma poi stasera vengo a scoprire che il suffisso -idus era usato in latino per quegli aggettivi che indicassero una qualità durevole. Pertanto la signora di cui sopra avrebbe potuto a buon diritto rispondermi che per motivi etimologici non avrebbe mai potuto "piantarla di essere stupida". E mi sarebbe toccato pure darle ragione.

lunedì 27 ottobre 2014

If the waters can redeem me

Post in super depressive mood, di quelli che cerco di sputar fuori solo perché dare un nome alle cose mi aiuta a riconoscerle, a circoscriverle e possibilmente a demolirle. Se poi oltre a un nome riuscissi a dare loro anche un verbo, un articolo e un aggettivo, tanto meglio, prenderei la mira più facilmente.
Se solo mi urlassero addosso, le cose di me che vorrei demolire, come un sergente maggiore Hartman che me le faccia odiare, allora quanto facile sarebbe raderle tutte al suolo; e invece si muovono feline e silenziose ben mimetizzate dietro i cespugli, e a me sembra di camminare dentro un bozzolo, un alone fluorescente, mi sembra di camminare dentro un bozzolo di errore.

Oggi ho visto il mare, quello calmo che fa le onde piccole piccole, quello abbandonato e serico di fine ottobre, silenzioso e malinconico a metà autunno, che nulla ha da promettere, ormai, essendo la sua stagione al termine.

Mi chiedi se credo o meno, e ti improvviso la mia risposta migliore, riconoscendo che non sono atea, che vorrei essere qualcosa, ma che credo di non essere nulla.
And so, what?
Nulla.

mercoledì 22 ottobre 2014

Kit di sopravvivenza

Non mi sto riferendo alla sopravvivenza su un'isola deserta, quante probabilità ci sono di finire su un'isola deserta?, non saprei nemmeno immaginare se possano essere di più le probabilità o le isole deserte ancora a disposizione.
Mi riferisco invece alla sopravvivenza del misantropo che mi abita, che spesso è lì che urla non sopporto non sopporto non sopporto ti prego scappa, che vorrebbe rispondere ai vari Allora, com'è andata? vomitando i suoi perfidi come diavolo vuoi che sia andata?, e che forse aspetta solo il momento opportuno, quando io mi distraggo.
Ad ogni modo, il kit prevede un'ipofisi bella gonfia di endorfine, e una preghiera di ringraziamento alla chimica.

mercoledì 15 ottobre 2014

Neanche un ricordo

Ieri sera è passato George a trovarmi e, per farmi una sorpresa, si è presentato con uno splendido mazzo di tulipani. Con la disinvoltura che lo accompagna quasi costantemente, girava senza titubanze tra il soggiorno e la cucina di casa mia cercando e trovando il vaso adatto, riempiendolo d'acqua e sistemandovi in bell'ordine i fiori. In tutto questo, mentre si muoveva senza esitazione alcuna, quasi che fossero gli oggetti a chiamarlo, più che lui a cercare loro, si è messo a raccontarmi un piccolo episodio accadutogli quel giorno stesso, durante la sua pausa...
"...pranzo, mi era venuta voglia di un pezzo di pizza da mangiare in piedi, sai come all'università? Ecco, così, quindi sono andato nella pizzeria, sai quella vicina alla biblioteca?, e insomma ero lì che aspettavo che mi scaldassero il mio trancio quando mi ritrovo ad ascoltare un tizio che, in attesa come me, stava parlando al telefono con qualcuno. O meglio, qualcuna. Le stava imbastendo, e ti riporto testualmente quel che mi ricordo, un discorso che suonava come Sai, mi piacerebbe che la tua vita, intendo il tuo quotidiano, mi piacerebbe che non fosse così piena, così stipata e organizzata, in modo da poter sperare che ti rimarrebbe qualche momento vuoto per accorgerti, per sentirla, la mia mancanza. Perché, sai, temo che non te ne renderai nemmeno conto. E allora? Voglio dire, e se anche questa lei non dovesse sentirla, la mancanza di lui? Dimmi, credi che stesse davvero augurandole un briciolo di sofferenza causata da lui? Credi possibile che ci fosse una parte di lui così meschina?"
Per un attimo ho pensato di provare a contraddirlo spiegandogli che secondo me non si trattava di altro che di una sfumatura del bisogno comune di non venire dimenticati.
Ma conoscendolo mi avrebbe tirato fuori Foscolo e tutto il resto, quindi me ne sono stata ad ascoltarlo, guardando i miei tulipani freschi.

martedì 7 ottobre 2014

Il topos di campagna e il topos di città

Svegliarsi come una sorta di tenente colonnello Kilgore, e dire che buono senti com'è buono il napalm lo senti non c'è niente al mondo che abbia quest'odore lo senti lo senti lo senti com'è buono quell'odore come di benzina lo senti?, ma non sarebbe napalm, sarebbe un immenso canader che si alzasse e annegasse città e universi interi nell'umiltà, e non so se abbia quell'odore come di benzina, non lo so che odore abbia, l'umiltà, o qualsiasi cosa sia quella che ci renda consapevoli del nostro essere nulla di che.

giovedì 2 ottobre 2014

The things that freak me out

- Nel dirmi questo mi offendi e mi ferisci.
- Addirittura? C'è altro, ragazzina? Non so, magari ti deludo anche?
- Deludermi? Deludermi... No, sai, non credo proprio. Offese e ferite vanno in un unico verso, tu decidi di imporle, e tu le infliggi. Deludere è più complicato, sarebbe stato necessario che entrambi ci fossimo applicati: io mi sarei dovuta creare delle aspettative su di te, e tu avresti dovuto non mantenerle.
- Ah, bene, ottimo, quindi non sono riuscito a deluderti perché non ero nemmeno degno delle tue aspettative...
- Oh, no, al contrario, è che hai sempre saputo mantenerle.

mercoledì 24 settembre 2014

Il mio amico George (9)

"Cosa c'è di più fastidioso delle definizioni come queste, mi domando. Nove verticale: Cocciuto, testardo. Potremmo star qui fino a domani, maledizione, sai quanti sinonimi mi sono già venuti in mente..."
A lamentarsi in questo modo era George, al solito, mentre tentava di risolvere non so quale cruciverba senza schema a gruppi di lettere variabili, con le definizioni mescolate e il cielo sa quale altra diavoleria per rendere complicato un modo per ammazzare il tempo.
Ammazzare il tempo, una locuzione che è meglio non usare se si sta parlando con lui, a meno di non volerlo infastidire più della definizione al nove verticale. Specie in questi giorni. Cos'abbia, ultimamente, io stessa fatico a comprenderlo, forse è solo particolarmente infastidito dalle proprie manie di grandezza, che a intervalli irregolari tornano a fargli visita, fatto sta, l'ho visto saltare come una molla l'altro ieri, al bar dell'ospedale, nel sentire un tizio che parlava al telefono con l'interlocutore di turno, spiegandogli che stava, per l'appunto, ammazzando un po' il tempo nell'attesa che chiamassero sua moglie per non ricordo più quale visita medica.
"L'hai sentito? Questo qui cerca di ammazzare il tempo! Mio dio... Ma guardalo, quanti anni avrà? Quali che siano, ha evidentemente un piede nella fossa, e invece di viverselo, il tempo, lo vuole ammazzare. Ah, lo so benissimo che è un modo di dire e basta, ma non è vero, usiamo le parole, e non guardarmi così, so che te l'ho già detto mille volte, usiamo le parole a caso. E magari è lo stesso tizio che ti ritrovi alla cassa veloce del supermercato, e che ti si muove attorno come un avvoltoio che compia cerchi concentrici sempre più stretti, per cercare di passarti avanti e recuperare una manciata di decine di secondi".
Povero George, mi dispiace, e molto, vederlo tormentarsi tanto per lo scorrere del tempo e del reale. Ma d'altronde è stato lui stesso, una volta, a confidarmi che la sua vita era un continuo compromesso tra la mediocrità del quotidiano e l'intensità dei suoi sogni.

lunedì 22 settembre 2014

A fari spenti nella notte

Come se fossi un personaggio del film di Mary Poppins, ho spesso l'impressione di cascare dentro agli stati d'animo così come lei saltava dentro ai disegni che Bert tracciava per terra con i gessetti colorati. Un salto ed è tutto un acquerello emotivo a sfumature leggere, tinte pastello che faccio appena in tempo a percepire perché prima che me ne renda conto mi ritrovo a essere caduta dentro a un quadro fauve, selvaggio e insopportabile per la forza dei colori.
Mary Poppins ne usciva al primo acquazzone che lavasse via forme e disegni, solo che lei era perfetta, sotto ogni punto di vista.

mercoledì 17 settembre 2014

Irrimediabilmente

La verità è che mi manchi.
Maledizione, tra un paio di mesi sarebbe il tuo compleanno, e invece niente, non posso neanche telefonarti. Ma ora il mio problema non è che non dovrò chiamarti tra due mesi, ora il punto è che non posso chiamarti adesso, anche se saresti la persona giusta a cui raccontare l'ennesimo colpo irrimediabilmente mancato. So anche che saresti forse addirittura capace di convincermi che non avrei motivo di sentirmi in imbarazzo per la mia incapacità di centrare qualsiasi bersaglio, anche il più apparentemente banale e vicino (o forse era una questione di prospettiva?).

domenica 14 settembre 2014

Dulce mel Musarum

Col dolce e biondo liquore del miele i medici cospargono, tutt'intorno, gli orli del bicchiere prima di dare il ripugnante assenzio ai fanciulli.
Ricordo la professoressa di latino che ci spiegava Lucrezio e il suo mettere in versi, per renderle meno difficili da accettare, le verità della dottrina di Epicuro. La poesia, il dolce miele delle Muse, fa presa sull'animo, e sull'animo come miele si appiccica.
Ma per l'animo che si stia perdendo e non sia all'altezza delle proprie ambizioni, per quell'animo tutta la dolcezza della poesia, per un equivoco di consonanti, diventa l'amarezza del fiele.

mercoledì 10 settembre 2014

A caso

Aveva finito la nifedipina, così quel sabato mattina Sergio uscì di casa per andare alla solita farmacia del quartiere. Pioveva, decisamente troppo per andare a piedi. Forse per i molti recenti pensieri sull'opportunità di organizzare il trasloco, forse perché l'autoradio stava passando una canzone di dieci anni prima che lo aveva fatto scivolare a ricordi che credeva irrimediabilmente sepolti, forse perché così doveva andare, alla rotonda di corso Mazzini non girò a destra come avrebbe dovuto, ma proseguì dritto, seguendo automaticamente la strada che tutti i giorni percorreva per dirigersi al lavoro. Se ne rese conto quando ormai avrebbe avuto poco senso invertire il verso di marcia, specie in quel dedalo di cantieri e sensi unici provvisori. Decise quindi di proseguire fino alla farmacia successiva, in fondo ricordava bene che ogni mattina, pur non prestando loro attenzione, vedeva più di un'insegna con la croce verde luminosa lungo la strada che lo portava all'ufficio. Come previsto, di lì a nemmeno un chilometro ne scorse una su un edificio sulla destra. Trovare un posto per l'auto non fu difficile, a quell'ora del mattino. E con quel tempaccio, poi, a chi poteva venire l'idea di uscire di casa?
Mentre ancora stava salendo i gradini che portavano all'ingresso della farmacia, le porte scorrevoli si aprirono per lasciar uscire un cliente, un uomo più o meno della sua età, che egli ebbe giusto il tempo di guardare in faccia e accorgersi che assomigliava davvero molto a...
- Sergio?
- Davide!
- Ma non ci... Ma pensa te! Come stai?
- Che storie... Anche tu ti sei trasferito qui a...
- Ah, no, no, figurati, vivo sempre a Livorno, sono solo venuto a passare il finesettimana da mia sorella, che stava per finire il latte in polvere, sai com'è, ha avuto...
- Ma dai! Sei diventato zio!
- Eh sì, sai com'è...
- Già.
- Già.
- ...
- E tu...?
- ...quindi passi per di qua spesso?
- Ah, no, in realtà è un caso che sia qui...
- In realtà è un caso che sia qui anche io, sarei dovuto andare a... Beh, lasciamo perdere. Senti ma hai tua sorella che aspetta che le porti il latte?
- Eh? Ah, il latte! Sì, beh, in effetti mi ha fatto uscire a quest'ora infame solo perché...
- Ehi, c'hai un nipote a casa che ha fame, meglio se ti dai una mossa! Che caso trovarti qua, però!
- Già, che caso...
- E tutto perché l'autoradio...
- L'autoradio? No, no, sono venuto per mia sorella!
- Sì, no, scusa, pensavo a cose mie. Vabbè, Davide, a presto.
- A presto?
- A caso.

lunedì 8 settembre 2014

Magnifiche assenze

A volte il destino cinico e baro (o la sorte, o il caso, oppure in mancanza d'altro anche un aneurisma aortico può andar bene) ci costringe ad allontanarci più o meno definitivamente da persone con cui avremmo preferito condividere ancora tanta parte del nostro tempo.
Altre volte, invece, il destino di cui sopra (senza dimenticarne le eventuali alternative) ci toglie graziosamente di torno dei piombi che mai avremmo voluto ci accompagnassero nemmeno nelle circostanze più brevi e insignificanti.
Solo che mentre la prima situazione è tale per cui ci si accorge di stare perdendo qualcuno di importante, e giù lacrime e malinconia e buffi progetti e promesse di ci rivediamo presto, nel secondo caso per lo più non ci si accorge nemmeno dell'immenso regalo di cui ci viene fatto dono.
Qualche anno fa mi capitò di trovare una ragazza che avevo conosciuto per meri motivi di condivisione dello stesso tetto durante uno dei miei periodi scolastici (tutto questo ridicolo giro di parole solo per non dire se abbiamo fatto assieme l'asilo, le elementari, le medie, il liceo o l'università, e se le abbiamo fatte effettivamente nella stessa classe o solo nella stessa scuola). Il destino (o, insomma, quel che è) si era premurato di far divergere la linea della vita di lei rispetto alla mia, peraltro senza che io me ne fossi mai resa conto. Insomma, durante quel nostro casuale unico incontro mi chiese cosa stessi facendo. Di fronte a domande di questo tipo tendo a essere sincera, ma una voce dentro di me mi stava scongiurando come da in fondo a un pozzo di non farlo, di fingere afasia, amnesia o qualsiasi cosa facesse rima con tecnica per scappar via, purché la rima non prevedesse la risposta corretta, dottorato in bioingegneria.
Mi rendo conto che il mio atteggiamento può sembrare estremamente arrogante e snob. Va detto però che mi trovavo di fronte a una di quelle persone che, durante un dialogo, hanno il maledetto vizio di terminare l'ultima parola di ogni frase del loro interlocutore. Tipo quando a scuola, durante un'interrogazione, non si sapeva la risposta, il prof di turno, scocciato, la diceva al posto del meschino impreparato, e quest'ultimo si aggrappava alla speranza di dimostrare che il Sapere ce l'aveva sulla punta della lingua.
- Ma insomma!, almeno sapere che Il cinque maggio è dedicato alla morte di Napol...
- ...oleone!
Imbarazzo. Si tratta di un vizio che sopporto meno ancora dell'essere toccata sull'avambraccio da qualcuno che mi stia spiegando qualcosa. Ecco, chi volesse farmi impazzire (o infangare la mia fedina penale) sommi le due cose: il tocco sull'avambraccio e l'eco sull'ultima parola.
Errore su errore, non fui così pronta da dire undottoratoinbioingegneriaetu?, ma le lasciai il tempo di incalzarmi chiedendomi cosa facessi, durante il mio dottoratoinbioingegneriachebello. Ricordo ancora la sensazione, mentre le farfugliavo una risposta poco convinta: sapevo che avrei anche potuto dirle una frase priva di qualsiasi valore semantico, che ne so?, qualcosa del tipo Ma niente, studio quale debba essere il diametro ottimale di una lancetta di un tramezzino in modo che il bucato venga fuori particolarmente croccante quando fuori la temperatura scende sotto i dodici metri verdi, e lei avrebbe detto -etri verdi continuando ad annuire in modo esagerato per tutto il tempo.
Perché mi è venuto in mente questo episodio? Mah, forse perché il destino mi sta velatamente ricordando che ogni tanto dovrei ringraziarlo.
Sempre che si limiti a essere destino e non un aneurisma aortico.

sabato 30 agosto 2014

Mi dispiace in agro(dolce)

Continuo a pensare, perdendo in questo modo le mie belle ore di sonno, che sia stato errore di presunzione credere che ci fosse dell'agrodolce nel sentirsi rispondere Mi dispiace, alla frase Parto. Qualcuno deve aver finito lo zucchero, e ad essermi rimasto è solo l'agro.
Anche il letto e il cuscino, di solito così accondiscendenti, mi negano la loro indulgenza. Così mi alzo, vengo in cucina, e in attesa che il pc si accenda guardo fuori: tra i palazzi di fronte c'è una, una sola, finestra illuminata. Nel buio totale, come a dirmi che non sono l'unica a non dormire, stanotte; un mio piccolo faro personale. O magari dietro quella finestra c'è una persona che pensa, specularmente, le stesse cose di me.
Saremmo due fari di niente.

sabato 23 agosto 2014

Lettera dal mio amico George

Sai, c'è dell'edonismo nel partire, o anche solo nel progettarlo.
Non parlo del partire per un viaggio o una vacanza, piuttosto del lasciare definitivamente una situazione di vita per ricominciarne un'altra, altrove.
Ho resettato il mio anziano e glorioso portatile, con cui ti sto scrivendo, in due occasioni, quando mi ero accorto che il peggioramento delle prestazioni andava di pari passo con l'ingarbugliamento di cartelle, file, programmi inutilmente installati e disinstallati. Raggiunta la soglia dell'incontrollabilità, sono ricorso al reset, al defibrillatore, all'elettroshock. Questo per il portatile, ma per me, dico, per me, come faccio a spegnermi e riaccendermi?
Ricordi, quando eravamo piccoli? Tu, allora, a differenza di adesso, avevi un paio d'anni meno di me. Ricordi quando mi arrabbiavo con qualcuno? Sono sempre stato permaloso, non vendicativo, ma permaloso sì, e se mi arrabbiavo con te, o con i miei o con i tuoi genitori, allora cominciavo a progettare fughe rocambolesche, e voglio vedere se allora non vi accorgerete che vi manco, e se non verrete a cercare il caro George, ma sarà troppo tardi! No, non ero patetico, ero un bambino.
E poi, al liceo? Allora avevi ormai la mia età, tu macinavi vasche in piscina, sembravi una stampante ad aghi, avanti, indietro, avanti, indietro, ... Io mi crogiolavo in fughe più melodrammatiche, più definitive, più penosamente adolescenziali, vorrei vedere se allora non vi accorgerete che vi manco, e se non direte che era un ragazzo così in gamba, ma non avrete neanche un luogo dove provare a cercarmi. Non ero patetico, nemmeno allora, avevo sedici anni.
Ora che tu hai un paio d'anni più di me, ora sarei patetico, ma ho da tempo sostituito l'abisso con la partenza.
Conosci la mia vanità, la mia malcelata supponenza, non ti stupirà quindi il paragone che ti sto per fare. Io mi sento un enzima: catalizzo processi, per poi allontanarmi da ciò che ne deriva.
Riesci a mettermi un suffisso in -asi?

lunedì 11 agosto 2014

Seems embarassed to be there

Senza sapere come, mi ero ritrovata ad essere arrabbiata. Con tutti, me compresa. Con chi mi trattava con gentilezza, perché in fondo mi infastidiva, con chi mi trattava con maleducazione, perché che modi sono questi?, con chi non mi trattava, perché sarebbe ora di smetterla di tirarsela in questo modo. Questione di un paio d'ore o poco più, poi è passata, ma in quelle due ore la mia ira non c'entrava nulla con il contesto. E allora ho pensato che, nonostante tutto, aveva ragione Ipse, a dire che arrabbiarsi è una cosa facile, alla portata di chiunque; il difficile sta nell'essere in grado di arrabbiarsi con la persona giusta, nel giusto grado e momento, per lo scopo e nel modo giusto.
Nell'attesa di giungere a tutta questa giustezza, mi sono ritrovata a desiderare di essere una nuvola, così da disintegrare in acqua tutta l'ira. Così da disintegrarmi in acqua.

mercoledì 30 luglio 2014

Il tizio che parla

A volte temo che farò la fine di uno dei personaggi di Moretti (il regista, non quello della birra, anche perché non avrei idea di quali potrebbero essere i personaggi del tipo della birra. Luppoli? Bicchieri? Baffi?), uno di quei personaggi che stanno calmi ed emotivamente inerti per tre quarti di film e poi di colpo sbroccano. Il timore si è presentato in modo particolarmente nitido qualche giorno fa: mi trovavo in compagnia di R: ad assistere, stipati come i calzini nel mio cassetto dei, per l'appunto, calzini, a uno spettacolo di Dario Fo. Eravamo davvero tanti, per lo meno per lo spazio messo a disposizione per la manifestazione. Quel che è peggio è che nello stesso palco si sarebbe esibito, di lì a un'oretta e mezza, Caparezza. Quindi la piazza stava cercando di contenere non solo tutti coloro che erano arrivati per Fo, ma anche quelli che alla spicciolata cercavano di insinuarsi per il successivo concerto. Però è come con le distanze di sicurezza tra le auto, c'è chi le interpreta come tali e chi le interpreta come Bene, ho spazio per sorpassare e portarmi più avanti di dieci metri. Similmente se tra me e il tizio che ho davanti lascio quella spanna di cortesia (e di sopravvivenza), tu, garzoncello scherzoso, che ti infili assieme al tuo compagno di mille avventure adolescenziali, rischi di causare una progressiva inibizione delle mie funzioni prefrontali. Transeat, so' ragazzi, continuo ad ascoltare un attore che a quasi novant'anni dimostra più energia di me nei miei giorni migliori. Se non che... Se non che il garzoncello scherzoso di cui sopra estrae il cellulare per chiamare a raccolta gli altri suoi sodali: Sì... Sì, noi siamo qui nella piazza più grande... Sì, quella dove c'è il tizio che parla...
Ecco. Il tizio che parla. Più di qualcuno si è girato verso il telefonante, con una faccia che rappresentava il bignami di diverse espressioni (divertita, schifata, sdegnosa, doveandremoafinire...). Tra questi, manco a dirlo, pure io. Solo che a me è pure partito l'arco riflesso, e la fibra motoria che mi ha fatto muovere la bocca non ha visto mediazioni o coinvolgimenti di alcun centro motorio superiore. "Il tizio che parla"... Minchia, è Dario Fo. E perché non "il vecchio che parla"?
Ecco. Potrebbe essere divertente. Ma io temo che un giorno mi ritroverò a gettare le piante fiorite del mio balcone urlando all'unica pianta secca se vuole più o meno acqua.

lunedì 28 luglio 2014

Forza, centrifuga.

Non era stata tanto lei a volersene andare, piuttosto il mondo attorno si era via via ristretto, come se qualcuno lo avesse ripetutamente lavato a sessanta gradi. Luoghi, volti, destinazioni e discorsi, un cerchio che si era fatto progressivamente più piccolo, lasciandola fuori dalla propria circonferenza. Ma l'abitudine si insinuerà in qualsiasi cosa tu decida di fare, non è evidente? Esageratamente evidente. Avrebbe potuto aggiustarne la soglia, mi controlla la pressione delle gomme e il livello dell'olio e dell'abitudine?
Ammettendo che fosse un problema di abitudine e non, piuttosto, quel non poter vantare alcun talento che contribuiva a sballottarla come una monetina dimenticata nella tasca dei pantaloni finiti in lavatrice.

domenica 27 luglio 2014

Tecnicamente

La correttezza lessicale gli veniva incontro nel trovare una risposta adatta per coloro che gli facevano notare che era davvero un peccato che l'avesse perduta. Tecnicamente non l'aveva perduta, dal momento che non l'aveva mai trovata.

venerdì 25 luglio 2014

Anche il caffè

Rimanere bloccati in un ascensore non è una bella esperienza. I protocolli spiegano che in una situazione del genere bisogna mantenere la calma, cercando di convincersi che non esiste un vero pericolo.
L'unica cosa sensata da fare consisterebbe nel premere il pulsante di allarme. Che però potrebbe non funzionare. In questo caso è non solo lecito ma anche consigliabile gridare e battere con i pugni contro la porta, per cercare di attirare l'attenzione di chiunque passi per di lì.
E se nel frattempo l'ascensore, impazzito, cominciasse a salire e a scendere senza nemmeno un preavviso, una regolarità, una periodicità alla quale fare l'abitudine? Che senso avrebbe tirare calci e pugni a una stupida porta che ormai avrebbe perso la propria unica funzione?
Molto meglio trasformare in un olimpico distacco tutta la rabbia, la tristezza e la frustrazione che potrebbero nascere dall'essere confinati in un ridicolo metro quadrato.
Ma questo i protocolli non lo dicono.

martedì 22 luglio 2014

Rotte di Collisioni

Se volessi parlare per frasi fatte (ma fatte da chi, poi?), direi che sabato mattina la realtà ha superato la fantasia. Oppure che in certe circostanze succedono cose che non esistono. O ancora che ho fatto un sogno lungo due giorni.
Prima di iniziare, è il caso che contestualizzi un po' la vicenda: sabato e domenica scorsi mi trovavo in compagnia di R: in terra piemontese per partecipare, da brava radical chic, come qualcuno mi ha definito (ma io preferirei progressive glam, o al più reactionary trash, o anche scusa, mi passi una birra?) a un festival di musica e letteratura. Bello eh. Davvero, non sono ironica. Solo che l'aspetto organizzativo era un po', come dire?, confuso. Sì, insomma, fumoso. Fatto sta, noi arriviamo sabato mattina, baldanzose e sicure, con le nostre mail attestanti l'acquisto on line dei biglietti il cui ritiro si sarebbe potuto effettuare solo nel luogo dell'evento. Chiaro, non sarebbe stato male averli potuti stampare prima, ma bene così, che sarà mai, noi si arriva lì, all'ingresso, le vedi le transenne e la coda di gente?, bene, quello è l'ingresso, noi si arriva lì, si va alla biglietteria e... Parbleu, la biglietteria è chiusa! Non resta che chiedere informazioni su "come fare come andare a chi rivolgersi" all'omino che lascia passare tutti coloro che già sono muniti di regolare biglietto. Questi sono i momenti in cui vorrei davvero essere brava, ma brava brava, a descrivere le persone. Cercherò di mettercela tutta, perché il soggetto meritava. Questo minosse piemontese era un tipo tracagnotto, rasato cattivo e tatuato cattivissimo, nero vestito dalla maglietta alle scarpe, lucido di sudore come un raccoglitore di cotone in un campo sudista. A coronare il tutto, la postura, sulla quale non sarebbe possibile soprassedere: trattavasi di postura da palestrato cattivo, col pettorale gonfio che non dà modo alle braccia di cadere dritte lungo i fianchi, ma che le costringe invece a un'innaturale accenno di abduzione. Incuranti della posa gorillesca e dello sguardo truce, ci avviciniamo per spiegare il nostro piccolo grattacapo, questo trascurabile inconveniente che tuttavia non ci permette di avere dei biglietti tangibili.
- Eh no, dovete andare alla biglietteria nell'altro ingresso, così ve li danno. A piedi da qua saranno un paio di chilometri perché dovete fare il giro per fuori.
- Ok, e raggiungendo invece la biglietteria da dentro?
- No, da dentro state un attimo, ma non vi posso far passare.
- Ma la vede la mail? I biglietti ce li abbiamo. Entriamo, andiamo alla biglietteria, ci facciamo dare...
- Impossibile.
Ora. R: e io siamo due persone abbastanza pervicaci, specie di fronte alle situazioni kafkiane. Tuttavia, per quanto mi infastidisca ammetterlo, di fronte alla gommosità di quel muro di carne umana ci siamo dovute arrendere, accettando così di metterci in marcia verso l'altro ingresso, ok, un po' distante da raggiungere, ma meno male che ci sono le indicazioni. Che spariscono al primo bivio. Esattamente. Quindi, da che parte andare? Pensando che non in tutti i casi il divide et impera si dimostra la tattica vincente, decidiamo di non separarci e di prendere una delle due strade. Che ovviamente si rivela sbagliata, dato che dopo cinque minuti di passo svelto sotto il sole ci rendiamo conto che ci stiamo dirigendo verso il nulla. Con un misto di rassegnazione, rabbia crescente e immancabile caldo, facciamo un dietro-front pronte a tornare al bivio e...
- Scusate! Vi serve un passaggio?
Io non so se gli angeli esistano e, nel caso, che voce abbiano. Ma voglio pensare che non si discosti troppo da quella della signora che si stava affacciando dal finestrino di una Mercedes, per offrirci aiuto. Era il caso di farselo ripetere due volte? Evidentemente no. Saliamo in auto. E vediamo lei, questa creatura sottile e raffinata, questa beatrice delle Langhe, elegante e sobria nel suo completo bianco, nei suoi capelli dignitosamente grigi raccolti in un semplice chignon, nel suo saluto garbato ai vigili che alla rotonda bloccavano tutte le auto tranne la sua ("Di solito io mi occupo di persone importanti...", ci dice, quasi a giustificare tanta facilità di movimenti), nel suo dirigersi sicuro verso le transenne il cui passaggio era ancora custodito dall'energumeno nero. Il quale, orrore!, fa cenno alla macchina di fermarsi. R: e io cominciamo a chiederci cosa ci dirà, dato che senza ombra di dubbio ci riconoscerà come le due cocciute che prima non demordevano.
- Non può passare, con l'auto.
- Ma io sono con i conti di Barolo.
E senza dare altre spiegazioni, quell'angelo al volante ingrana la marcia e va. Facendoci godere un ingresso trionfale, benché non propriamente autorizzato.
Insomma, alla fine le bianche forze del bene hanno avuto la meglio sulle potenze oscure.

Ah, poi il biglietto siamo andate a prendercelo. Giustificando in qualche modo il fatto che fossimo già all'interno della zona del festival.

martedì 15 luglio 2014

Malintesi

Il modo con cui gli chiese a cosa stesse pensando lo fece sentire immediatamente catapultato in uno stereotipo, lo stereotipo dello studiolo in penombra, con un ficus benjamin vicino alla finestra, la scrivania, una lampada in ottone e vetro verde, la poltrona, scaffali di libri, alcuni quadri, certo, alcune foto, forse sì, forse anche quelle. E poi l'attaccapanni, le tende in velluto pesante, l'orologio a muro, il tappeto, e infine lui, il lettino.
Sarebbe riuscito a cavarsela? Cavarsela... In che modo, poi, in quale dei sette miliardi di modi diversi, forse otto, tra qualche anno venti, dio!, e ancora si chiedeva se ne avrebbe trovato uno, tra così tanti. Certo che se la sarebbe cavata, anche in quello stereotipo dove era stato trascinato da una domanda apparentemente casuale.
Che, a onor del vero, gli era stata posta solo per sapere se gli andasse un'altra birra o se fosse dell'idea di tornarsene a casa.

lunedì 14 luglio 2014

Al canto della civetta

Anni fa, parecchi a volerli quantificare, ma perché ricorrere sempre a numeri?, anni fa ascoltai una canzone nel cui titolo compariva la parola mummers. Nella mia pigra ignoranza non mi balenò neanche da lontano l'idea che la parola in questione potesse essere tradotta con qualcos'altro rispetto al significato che inconsciamente le avevo associato. Mummia. Chissà perché, per me mummer significava mummia. In seguito Lamarta ebbe modo di prendermi in giro con soddisfazione, per l'errore. In effetti La danza delle mummie avrebbe potuto farmi venire qualche dubbio: si sarebbe dovuto trattare di una ben macabra danza. Ovviamente, e come poteva essere altrimenti?, l'errore era mio, e a danzare era una sorta di maschere. Non pagliacci, sia chiaro, ma nemmeno mummie, va da sé. Delle maschere, piuttosto, ma maschere buone, che portano fiori da appendere alle porte all'arrivo della primavera. Non mummie, certo.



venerdì 11 luglio 2014

Una rossa media

A volte ho pensieri che schiumano come birra alla spina, anche se sto ascoltando qualcuno che mi parla, soprattutto se sto ascoltando qualcuno che mi parla. Una risposta che mi sembra intelligente che si lascia spintonare in un angolo da una seconda risposta che mi sembra un pochino più intelligente della prima, e poi via via con la terza e la quarta, una battuta divertente, un ricordo di un'esperienza simile, una sensazione condivisa... Tutte bollicine che salgono in superficie e scoppiano in modo confuso e fastidioso. Ogni idea col proprio rovescio.

giovedì 10 luglio 2014

Il mio amico George (8)

Mi capita ogni tanto, per le ragioni più disparate, di fare dei viaggi in treno con George. In genere siamo talmente reciprocamente rilassati e noncuranti, che ci sentiamo perfettamente a nostro agio se la prima cosa che facciamo, una volta seduti in carrozza, è tirar fuori ognuno il proprio libro e isolarci a leggere.
L'ultima volta, tuttavia, mentre ancora eravamo in stazione, in attesa sul binario, George mi mise in guardia dicendomi: "Se durante il viaggio ti accorgi che sono passati almeno venti minuti dall'ultima volta che ho girato la pagina del libro che tengo in mano e che a rigore dovrei stare leggendo, beh, non lambiccarti a cercare il motivo di questa stasi: sto solo ascoltando una qualche conversazione che mi arriva da poco lontano. Cose come quella che mi è capitata mentre venivo qui: "...non che abbia viaggiato tanto, ma per quel poco che ho viaggiato... Sì beh, sono stata anche in Austria. Però bella come l'Italia... Una cartolina, ecco cos'è. Non a caso l'Italia la chiamano Il giardino d'Europa. Eh sì, in Italia c'è tutto... il mare, le montagne, i laghi...". E i miopi!, avrei voluto intromettermi. E la gente!
La gente, dico io, la gente. Sessanta milioni e rotti di bocche che parlano, e buona parte di queste non si lascerebbe toccare nel proprio sentire neanche da lampi e tuoni..."
Gli feci notare, mentre salivamo sul treno che nel frattempo era arrivato, che il suo mi sembrava il lamento del narciso.
Non so se si offese. Ciascuno dei due si nascose dietro a delle comode pagine scritte da altri.

giovedì 3 luglio 2014

Dove ondeggiano gigli e narcisi

In un trafiletto di psicologia spiccia, poteva essere un Focus o una rivista a caso letta qualche anno fa, avevo trovato un'interpretazione del perché sia così ricorrente il sogno che ci ripropone l'esame di maturità: sarebbe il nostro modo non conscio né richiesto di ricordarci, magari durante un periodo particolarmente ansioso, di come già una volta ci sia capitato di superare una prova impegnativa. Una sorta di ce l'hai fatta anche allora, ti ricordi? Non te ne ricordi? Ok, ne prendo atto, stanotte te lo faccio ricordare io. Tutte decisioni prese unilateralmente dal nostro io "altro", che a noi piaccia o meno. Sempre a voler credere al trafiletto in questione.
Anche accettando di ipotizzare che sia davvero questa la ragione che giustificherebbe un sogno così antipatico, resta da spiegare quale sia il motivo per farmi sognare così di frequente treni o aerei che dovrei prendere ma che puntualmente non raggiungo; o ancora che scopo ci sia nel farmi sognare persone che non esistono.
La mia amica Saggia, stasera, mi ha fatto involontariamente notare che da settimane, peggio, ormai da mesi, vado sempre in giro con il labbro sporco di dentifricio. Sempre. Oppure, oltre al dentifricio, con la maglia rovescia. Che poi sono tutte la stessa cosa. E che si vede anche se ci parliamo al telefono, o se ci scambiamo due messaggi al volo in chat.
Credo che sia per i sogni che faccio. Ma lei ha provato a svegliarmi.

mercoledì 25 giugno 2014

The best slow dancer in the universe

Venni sorpresa mentre stavo apparentemente contando i pesci rossi in una fontana dall'acqua insolitamente limpida. Dubitando che il mio interesse fosse rivolto agli innocui pescetti, mi chiesero cosa stessi facendo.
"Che tempismo impeccabile, desideravo tanto che me lo chiedeste! Cosa sto facendo... Era da molto che qualcuno non mi rivolgeva questa domanda, probabilmente da quando mia madre entrava nella mia camera da letto preoccupata per il troppo silenzio evidentemente minaccioso. Ma avevo dieci anni. Cosa sto facendo adesso... Sto cercando di conoscerlo, il mio volto. Lo sto squadrando con attenzione. Se vi dicessi che penso che quel volto riflesso nell'acqua sia il mio mi ridereste in faccia, vero? Chiunque mi guarderebbe con il fastidio con cui si accolgono le osservazioni troppo ovvie. Ma aspettate, io intendo dire un'altra cosa. Non voglio dire che il mio volto sia quello che sento quando mi tocco una guancia con la mano, e che quello che vedo nell'acqua sia il mio riflesso. Quello che intendo davvero è che io sono quel riflesso.
Voi...Vi ho visti guardarvi nella vasca della fontana... Voi mi capite, vero?"

mercoledì 11 giugno 2014

Un congegno che si spegne da sé

Decise, quindi, nonostante le resistenze opposte, di buttare l'euforbia. Non che fosse già morta, a dire il vero, ma da giorni era così giallognola e rachitica da non lasciar presagire alcunché di buono. Era dunque il caso di farla sparire, e alla svelta, altrimenti che figura avrebbe fatto? Probabilmente, chissà, la cosa sarebbe stata talmente paradossale che nessuno avrebbe potuto concludere che la responsabilità fosse sua; magari chiunque avesse visto nella sua casa una pianta così asfittica avrebbe pensato che fosse stata portata lì il giorno prima da qualche conoscente il cui pollice era privo della benché minima sfumatura di verde. Invece no, era proprio sua. L'aveva comprata un paio di mesi prima per darsi un'altra possibilità. D'altronde era così in gamba nel dare consigli peraltro sempre estremamente appropriati a chiunque avesse problemi con una pianta: bulbose, alberi da frutto, rizomatose, piante d'appartamento, grasse, perenni, stagionali... E poi batteri, funghi, insetti infestanti, virus... Per qualsiasi dubbio aveva la risposta, come se per scienza infusa (o forse nascondeva anni di botanica studiata segretamente?) il suo cervello fosse stato equipaggiato di quelle conoscenze che gli avevano permesso, col tempo, di diventare quella sorta di oracolo della floricoltura che si ritrovava ad essere.
Però l'euforbia, due mesi fa così rigogliosa, ora era talmente patita, talmente striminzita... L'avrebbe buttata, senza troppe remore. Alla peggio, l'unica a rimanerci un po' male sarebbe stata proprio lei: la pianta.

mercoledì 4 giugno 2014

Arrivo e scomparsa

Sentiva che era una serata in cui tutto sarebbe potuto succedere. Per lo meno fuori dal proprio appartamento sarebbero potute accadere le cose più straordinarie e impensabili, sì, straordinarie e impensabili. Dentro, invece, la probabilità che più di tutte rasentava l'unità era che lui rimanesse lì ad attendere l'arrivo, peraltro puntualissimo, quasi a voler togliere ulteriormente l'imprevedibilità all'intera situazione, l'arrivo dei soliti volti sfocati, ai quali avrebbe come sempre detto vi ho cercati ovunque, o ti ho cercato ovunque, ma dai quali si sarebbe come sempre sentito rispondere siamo venuti per scomparire, o sono venuto per scomparire.
Perché, per quanto si sforzasse di chiudere gli occhi e di rievocare i profili, i tratti, le espressioni che potevano aiutarlo a ricrearli in modo quasi tangibile, inevitabilmente col tempo quei volti diventavano via via sempre meno definiti, sempre più sfumati, e quello che gli rimaneva era il ricordo delle situazioni, dei dialoghi, dei gesti, ma lui li desiderava così tanto!, vederli, averli con sé, e non solo per l'istante che ne precedeva la scomparsa.

martedì 3 giugno 2014

Il mio amico George (7)

L'argomento musica non è il più gettonato, tra George e me. Non c'è un motivo particolare, credo che la ragione per cui ne parliamo con frequenza insolitamente bassa sia solo legata al caso. Ad ogni modo, ieri George ha tirato in ballo un album che gli avevo consigliato qualche tempo fa. Non avrebbe senso che ora mi mettessi a riportare i pareri e le emozioni che mi ha descritto, e non sarebbe nemmeno questo il senso del post.
Si è soffermato, tuttavia, su un pensiero che gli gironzolava in testa in modo più fastidioso di altri: "L'ho ascoltato parecchie volte, eppure mi fanno sempre, sempre, amaramente sorridere quei pochi versi, hai presente?, quelli che dicono Mi dici che ti emoziona il tramonto ed io ti chiedo se ce l'hai per caso in tasca un chewingum. E non serve che sia io a ricordarti il tono spensierato e leggero con cui sono cantati. Mi fanno sorridere ma, mio dio!, che amarezza. Sarà che rendono in modo terribilmente cinico ciò che succede così spesso con tutti coloro con cui... Sai no?, quelli che quando ti scrivono ti fanno scattare immediatamente la modalità no dai, non adesso, ma poi a pensarci ti rendi conto che quell'adesso è ipocrisia pura, perché in realtà non ti andrebbe bene neanche se fosse prima o dopo o domani o...".
Non riusciva a stare seduto serenamente, mentre cercava di spiegarsi. E io la conosco bene una delle paure più viscerali di George, e la conosco così bene perché è anche mia, e lui lo sa, di sé, di me, ma nessuno dei due saprebbe sbilanciarsi a dire se anche altri la condividano: George ed io abbiamo paura di essere noi l'oggetto del No, dai, non adesso.

mercoledì 28 maggio 2014

Doppia negazione

Così come capitava a molte persone che conosceva, quando si trovava obbligato a provare un sentimento particolarmente vivo, fingeva con tutti di provarlo con intensità grottescamente esagerata, in modo che nessuno sospettasse che in realtà, sotto la simulazione della dissimulazione, c'era del vero.
Ma non era altro, quel dissimulare, che un velo composto di tenebre oneste, dalle quali non si formava mai il falso, ma si dava piuttosto un qualche temporaneo riposo al vero.

venerdì 23 maggio 2014

Guanti verdi

Oggi sono incappata in una canzone che non conoscevo, in realtà avevo scelto di mettere come sottofondo tutto un album che non conoscevo, e stavo lasciando che mi facesse una compagnia non impegnativa. Però tra i brani che si susseguivano senza colpo ferire ne è arrivato uno più ostinato degli altri nel volersi distinguere, e così mi sono dovuta fermare per riascoltarlo, e per riascoltarlo, e ancora riascoltarlo. Avrei voluto condividerlo, perché mi stava instillando una tristezza pacata, sopportabile, calma, quasi bella. Ma non avrei potuto. C'era questa voce baritonale, così calda e morbida, che faceva venir voglia di piangere, e non mi arrischiavo a condividerla con qualcuno che in quel momento non fosse nello stato d'animo giusto.
Lì vicino avevo IMAF e LaPeggiore. Loro hanno apprezzato.
Giusto per non dimenticarmene, il brano è Green Gloves, e la voce è di Matt Berninger.

martedì 20 maggio 2014

Senza cattiveria

Pare che sbagliare sia umano, il che potrebbe rappresentare un'ottima scusa a priori. Non c'è quindi da stupirsi se ogni tanto affermo cose che non condivido, o per essere più crudi, non c'è da stupirsi se ogni tanto commetto errori. Per esempio, di recente avrei sostenuto che confrontare una persona con un'altra implicherebbe in qualche modo fare un torto come minimo a una delle due, a entrambe nella peggiore delle ipotesi. Che ridicola cantonata, è così ovvio che grande parte della conoscenza deriva dal confronto tra il noto e l'ignoto; qui potrei obiettarmi che andando indietro indietro indietro, il primo noto non avrà potuto essere confrontato con nulla, ma liquiderei subito l'obiezione facendomi osservare che forse il primo noto non era poi così noto, ma lo è diventato dopo il paragone con i successivi ignoti.
Quindi non creerò chimeriche creature di Frankenstein cercando di immaginare una persona con caratteristiche di un'altra per fantasticare sul "come sarebbe meglio se...", ciascuno resterà entità a sé stante, e io rimarrò l'inguaribile manichea che sono, andando incontro ad occasioni al vento con la mia calma indifferenza.

venerdì 16 maggio 2014

Soggettivismo ittico

Devo farti un discorso serio, è così che si dà inizio ai temporali.
Stasera LaPeggiore ne ha fatto cominciare uno, con un'osservazione su di me che alla fine non condivido, ma ciò non toglie che possa essere vera. Mi sento un po' un acquario e un pesce rosso, allo stesso tempo: l'acquario sono io, il pesce rosso è (sono?) l'io che cerca di spiegare me, ossia l'acquario, ma da una prospettiva soggettivissima e unicissima e distorta in modo del tutto particolare.
Un acquario in mezzo a un temporale.

lunedì 12 maggio 2014

venerdì 9 maggio 2014

Un colpo d'aria

Da quando si era trasferito in paese, tutti avevano inquadrato il signor Bronn come un uomo distinto, molto alto, estremamente asciutto, dal portamento quasi ascetico, dotato di una raffinatezza rara. Si diceva che un tempo si fosse occupato di commercio di opere d'arte, ma si trattava di semplici dicerie, perché in realtà quale fosse il suo passato nessuno avrebbe potuto dirlo con certezza. I più ipotizzavano che fosse vedovo, forse per quella sua predilezione per i vestiti scuri unita a una naturalissima riservatezza. Non si pensi però che tra i suoi desideri ci fosse quello di tenere lontana la gente dalla sua vita, tutt'altro: era infatti pieno di delicatezza e di calore umano e, per dirla con l'interpretazione che ne volle dare un giorno il farmacista, "lui sì che ha scoperto come vuole vivere la propria vita. E la vive proprio così, come la vuole".
La casa in cui viveva, da solo, non era particolarmente ricca però, a sentire coloro che vi erano entrati, era decorata con insolito buon gusto, particolare che forse aveva fatto nascere le ipotesi su un passato da commerciante d'arte. Anche Vivien, la signora che una volta la settimana si occupava di pulire quella casa peraltro sempre ordinata, non faceva che confermare come in ogni stanza si percepisse una particolare sensibilità nella scelta dei quadri, dei soprammobili, e di qualunque oggetto fosse stato adottato per rendere accogliente l'atmosfera in ogni ambiente, in particolare nello studiolo dove il signor Bronn scriveva. Sì, egli amava scrivere, trascorreva svariate ore a riempire fogli con pensieri e ricordi, senza seguire alcun filo logico o cronologico. Negli anni i fogli si erano accumulati, ordinati benché sciolti, sulla scrivania.
Capitò un giorno di maggio che Vivien, nel recarsi a casa del signor Bronn per le consuete pulizie settimanali, portasse con sé la propria figlia Judith, troppo piccola per rimanere a casa da sola. Non si trattava poi di una situazione così rara, e a Judith non dispiaceva girovagare per quelle stanze silenziose in cui aleggiava sempre un vago profumo di agrumi. Sua madre aveva già pulito lo studio, e dato che la stagione volgeva al caldo, aveva deciso di lasciare la finestra socchiusa. Era quella la camera preferita di Judith, che si divertiva a contemplare il bel pavone impagliato che sembrava fissarla da sopra la cassettiera, o a fantasticare di viaggi meravigliosi facendo ruotare il grande mappamondo in legno. Stava giusto immaginando tra quanti anni avrebbe avuto l'occasione di visitare tutti quei paesi misteriosi, quando sentì che il signor Bronn la chiamava dal soggiorno. Uscì di corsa dallo studio, lasciando la porta aperta, e fu proprio quando raggiunse il signor Bronn che si sentì un rumore secco, come di mille anni di tempo che siano andati in frantumi: troppe finestre aperte avevano creato una corrente d'aria che evidentemente aveva fatto cadere il pavone dalla sua posizione, mandandolo malamente a terra. Non solo: quel colpo d'aria fece volare ovunque, nel giardino e da lì per la strada e chissà dove altro ancora, gli innumerevoli fogli che negli anni il signor Bronn era andato accumulando. Tutti. Al vento. Per un colpo d'aria.
Alla vista di cosa aveva involontariamente combinato, Judith si sentì assalire dal bisogno di piangere. Disperata, con le guance segnate dalle lacrime e gli occhi da una solitudine incolmabile, cominciò a promettere al signor Bronn che avrebbe recuperato tutto, sarebbe corsa subito fuori a rincorrere fino all'ultimo foglio, era tutta colpa di quello stupido colpo d'aria...
"Siediti, non sentirti in colpa", le sorrise il signor Bronn, con una tenerezza antica. Sapeva bene, infatti, che prima o poi tutto sarebbe andato perduto, l'aveva previsto, fin dal giorno in cui era entrato in quello studio o, per chiamarlo come usava lui, in quel laboratorio.
"Povera Judith, era solo l'inevitabile momento atteso da anni".

martedì 29 aprile 2014

Sai di vento del nord

Nei paesi piccoli, o anche nei quartieri di quelli grandi, capita di vedere, nel loro giardino, o sulla soglia di casa, o sul muretto che divide il marciapiedi da un eventuale praticello o spiazzo o quel che sia, degli anziani seduti, che guardano. A volte da soli, a volte in compagnia, a volte vecchie coppie sposate quando io non ero ancora nata. Per lo più in silenzio, stanno, e guardano. Arriva la bella stagione, le prime giornate tiepide e luminose, loro prendono la loro seggiola, o raggiungono il solito muretto, si siedono, sembra che stiano aspettando qualcuno, in realtà hanno solo finito uno degli impegni quotidiani, magari il pranzo, e si sistemano lì in attesa del prossimo impegno quotidiano, magari la cena. Tanti telamoni e cariatidi in carne e ossa, che non sopportano il peso alcun timpano o struttura fisica, piuttosto il peso di due tempi, passato e a venire.

sabato 26 aprile 2014

Il mio amico George (6)

Ero in compagnia di George. Fortunatamente negli ultimi tempi riusciamo a vederci spesso di persona, cosa che ci permette di intavolare quelle conversazioni che al telefono non sarebbero immaginabili. Come prima cosa, George mi chiese di cambiare il nome (George, per l'appunto) che uso per lui nel blog, dal momento che a suo avviso lo farebbe sembrare una vergognosa via di mezzo tra un infante rampollo reale e il fratello di "quell'orribile maiale in 2D con cui si stanno facendo crescere pletore di marmocchi". Per fargli cambiare opinione provai a toccare diversi tasti, fino a raggiungere quello giusto: la vanità. Gli spiegai che non mi interessava chi e come usasse questo nome, a me faceva venire in mente una persona (e qui mi profusi in un ragguardevole elenco di aggettivi elogianti), quindi non potevo che associarlo a lui.
Accusò il colpo, e dietro un imbarazzo forse neanche tanto finto, finì con l'accettare il nome. E mi propose di berci su qualcosa. Voleva raccontarmi di un nuovo ("...ma neanche tanto nuovo, ormai saranno tre-quattro mesi che gira") acquisto nell'azienda in cui lavora, una tizia "carina eh, credo tra le gambe più belle che mi sia mai capitato di vedere, ma intelligenza sociale non pervenuta, noiosa come le tasse, sai di quelli che quando pare che stiano per cominciare un ragionamento, finisce che poi lasciano le frasi a metà, come se fosse chiaro ciò che avrebbero voluto dire? E non dicono mai nulla. Dio, se odio questo genere di cose...". Insomma, ce l'aveva su perché pochi giorni prima lei gli aveva detto qualcosa del tipo "se ti capita di prendere un caffè, dimmi, che ti faccio compagnia". Ora, è chiaro che voglio molto bene a George, ma sono la prima a riconoscere che a volte con lui bisogna andarci coi piedi di piombo, soprattutto nell'uso delle parole. "Lei pensa di far compagnia a me? Ma ti pare? Fa la stessa compagnia di una radio rotta, di quelle che a sprazzi riescono a sintonizzarsi su qualcosa a caso, per poi riperderlo immediatamente. E non lo sa, non se ne rende conto. Come la invidio, riesci a immaginare come e quanto io la invidi? Sì, lo so che lo immagini benissimo. No, senta, ripensandoci (stava passando la cameriera, che aveva preso le ordinazioni ma non aveva ancora portato nulla), vorrei qualcosa di forte, mi porti un Manhattan, credo sia meglio. Mi dispiace (la cameriera era intanto andata via), sto facendo un discorso da abietto e insensibile, lo so, ma lei non può farmi compagnia". Gli feci notare che la cosa poteva avere dei risvolti inaspettatamente positivi, ma prima che potessi elencarglieli aveva già ripreso il proprio fiume: "Ma sì, hai ragione, ci ho pensato pure io, non è male sapere che si tratta di qualcuno di cui non sentirò mai la mancanza. Infatti pensavo a quanto potrebbe mancarmi la tua, di compagnia. Anche se non ho ancora capito cosa mi mancherebbe".
In quella, grazie al cielo, arrivò il Manhattan, io mi presi la ciliegia e me la mangiai, assieme alle mie ipotesi.

martedì 15 aprile 2014

I cieli non sono umani

Uno dei torti più grande che si possa fare a una persona è il paragonarla a un'altra.
Però lo faccio, inevitabilmente e continuamente, con gli altrettanto inevitabili strascichi di senso di colpa che mi porto dietro come un mantello bagnato. Non devo, non dovrei, sarebbe il caso che imparassi a giudicare in modo assoluto, e non a voler creare impossibili chimere, creature di frankenstein costruite prendendo il senso dell'umorismo di A, il cinismo di B, la capacità di astrarre di C, l'intensità di D, lo svagato surrealismo di E, e quante altre cose ancora da quante altre lettere ancora. È quel riconoscere in qualcuno doti che non sono mutuabili a qualcun altro, che viene immediatamente svalutato, ma in modo ingiusto, colpevole, e il cane si morde la coda, e il cane sono io, che so che non dovrei fare paragoni iniqui, ma non posso farne a meno, è come il cancro del vetro, che corrode da dentro e d'improvviso spacca tutto.
E i cocci sono miei.

giovedì 10 aprile 2014

Deformabile illimitatamente

Liquida. Se dovessi definire come mi sentivo stasera, mentre rincasavo dall'ufficio, sì, mi sentivo liquida. O forse fluida sarebbe fisicamente più corretto, ma mi piace di più il suono liquida.
Un po' come se le gambe non fossero mie, come se il confine tra il me e il non me si fosse fatto labile, sfumato, un acquerello. E anche il mio stato d'animo, così come il mio corpo, pareva evanescente, indeciso sulla modalità su cui fermarsi, disponibile a passare dalla massima tristezza all'estremo opposto.
Potrebbe sembrare anche un compromesso accettabile, una tutto sommato uguale probabilità di stare bene o meno, però non è proprio così. Per fare un paragone, mi vengono in mente la luce e il colore del cielo che ci sono la mattina prestissimo, prima che sorga il sole e prima che l'orizzonte si tinga di rosa. In linea teorica non dovrebbero essere molto dissimili da quelli che si vedono la sera, poco dopo il tramonto. Eppure quelle presunte uguali probabilità di stare passando dalla luce al buio o viceversa, tutto sono, fuorché uguali.

lunedì 7 aprile 2014

Una geniale mediocrità

Quanto è vero il paradosso secondo cui meno una persona sa su un determinato argomento, più lunghe saranno le sue spiegazioni in merito. Però, pensavo, è tutto così semplice? È possibile riportare qualsiasi situazione al meno ne so, più ci metto? Direi di no, e sarei propensa a introdurre un altro paio di variabili: quanto il mio interlocutore crede che io conosca riguardo all'argomento in esame, e quanto io ci tenga a convincerlo o meno del contrario. In generale, tenderei a semplificare la questione in quattro macrocasi, a seconda che io sappia o non sappia una cosa, e a seconda che il mio interlocutore sia persuaso che io la conosca o meno. Procediamo quindi per livelli di difficoltà e di tempo speso.
Caso più facile, so una cosa, il mio interlocutore crede che non la sappia, e a me basteranno due parole chiave, due concetti in croce per fargli capire che so benissimo di cosa stiamo parlando. Tsk.
Caso un po' più difficile, so una cosa e il mio interlocutore lo sa e me la chiede. In questi casi può entrare in gioco una piccola (?) componente di narcisismo: ci tengo proprio a far sapere la mia erudizione in materia? In genere, sciocca e vanesia, sì, ci tengo. Ad ogni modo, risulterà relativamente facile e relativamente veloce convincere il mio interlocutore che conosco davvero la certa cosa di cui si stia parlando o su cui io sia stata interrogata: gliela spiego, magari inciampando in un paio di particolari, magari usando un po' di parole più del necessario, magari incartandomi in esempi che invece di chiarire, complicano, però in qualche modo ne esco, e dimostro che quella cosa la sapevo e la so. Tsk.
Caso ancora un po' più difficile, non so una cosa e il mio interlocutore sa che non la so, ma io vorrei tanto tanto tantissimo farlo convinto del contrario. E allora via a tergiversare, ad arrampicarsi su specchi che non sono specchi, ma specchi che specchiano altri specchi, a cercare di dire e non dire, a fare discorsi vaghi e poco compromettenti. Situazione che abbiamo sperimentato tutti, una quantità di volte che va dal tantissime all'innumerevole.
Caso più difficile in assoluto, non so una cosa, ma il mio interlocutore è convinto del contrario, e io pagherei per fargli capire che no, mi sta sopravvalutando, mi sta attribuendo meriti che non ho. Come fare, da dove partire? Come si può persuadere una persona che una certa qual cosa non la si sa e non la si è mai saputa? In altre parole, se per l'inutile Come va? si risponde da copione con l'inutile Bene grazie e tu?, allora sarà necessario trovare qualcosa di meno sciocco dell' Eppure è così... per ribattere al terribile Come potevi non sapere?

giovedì 3 aprile 2014

Il pozzo di Fernando

Anni fa, parecchi, forse una decina o forse qualcuno in più, Lux mi mandò una frase di un libro che stava leggendo. Condividiamo questa abitudine: quando leggiamo qualcosa che ci emoziona, con qualcuno dobbiamo condividerla. Purtroppo mi rendo conto che la cosa, specie con l'avvento della moda degli aforismi a caso, può assumere sfumature da adolescente che scrive presunte frasi di Jim Morrison sul diario, o da sempliciotto che di Wilde sa solo che ascoltava i Doors e che sapeva resistere a tutto tranne che alle tentazioni. È pur vero che nella vita qualche rischio bisogna correrlo. Tornando alla citazione di Lux, si trattava di una frase che allora mi trapassò come un fulmine: Noi non ci realizziamo mai. Siamo due abissi – un pozzo che fissa il cielo. E talmente forte fu quella secchiata di acqua gelida, e talmente meravigliosa, che pensai che non avrei mai avuto il coraggio di affrontare il libro da cui era stata tratta. Ma il caso volle che si arrivasse a prendere Maometto e la montagna, per sostituirli, rispettivamente, con me e con il suddetto libro. A volte commetto errori madornali e, quel che è peggio, per tempi molto lunghi: ho passavo due terzi della mia vita a non mangiare melograni, perché mi ricordavo che da piccola non mi piacessero, per poi scoprire che ne vado ghiotta. Ho passato un terzo della mia vita a non leggere un libro, perché temevo mi facesse stare male, per poi scoprire che trovare qualcuno che decenni prima di me ha dato una forma elegante e struggente ai pensieri che anche io condivido, ma spettinati come non mai, è una cosa estremamente rassicurante. Perché la difficoltà non sta tanto nell'avere un'idea in testa, chiunque può pensare le cose più straordinarie; la difficoltà sta piuttosto nel fare uscire queste cose straordinarie dalla testa e trasferirle sulla carta, senza trasformarle in totali banalità assurde e pietose.

mercoledì 2 aprile 2014

Il materasso è la felicità?

Anonimo, quello che ogni tanto scrive sui biglietti dei Baci Perugina, un giorno si pensò di dire che il matrimonio sarebbe la tomba dell'amore. Anonimo ne sapeva parecchie, per carità, non sarò certo io a togliere autorevolezza alle sue affermazioni. E quando si parte così, mettendo in qualche modo le mani avanti, ci si deve aspettare che stia per arrivare il Sì, però secondo me. Infatti, secondo me l'affermazione andrebbe riveduta e corretta, dal momento che a me suona come una fuorviante doppia sineddoche. Mi spiego meglio: il termine matrimonio è troppo generico. Cos'è, del matrimonio, che non va? Chiaramente il letto matrimoniale, soprattutto se con materasso pure matrimoniale. Inoltre il complemento dell'amore andrebbe sostituito con di tutto. Ne risulterebbe quindi che il letto matrimoniale è la tomba di tutto. Inutile girarci tanto attorno, su un letto doppio due persone possono fare comodamente mille cose, ma tra queste mille chiaramente non si può includere il dormire. Per lo meno non il dormire simultaneo e pacifico di entrambe. Ci sarà sempre o quella che russa, o quella che scalcia, o quella che tira la coperta, o quella che parla nel sonno, o quella che urla, o quella che riesce a fare tutte queste cose contemporaneamente. Ci sarà poi sempre anche quella che si addormenta di un sonno serafico appena poggia la testa sul cuscino, dando inizio a una placida alternanza di inspirazioni ed espirazioni appena udibili, una serena danza respiratoria che risulta insopportabile a chiunque non riesca a prender sonno prima di aver fatto il censimento di parecchi greggi e armenti.
Fin qui mi sono comunque limitata al terreno delle consapevolezza: uno dei due è sveglio e cosciente del fatto che l'altro sta minando il suo meritato riposo. Esiste tuttavia un terreno ancora più insidioso: quello, va da sé, dell'inconsapevolezza. Poniamo che, dei due soggetti in questione, uno passi la notte a russare, muoversi, occupare frazioni di letto superiori allo 0.5 e via dicendo. Poniamo inoltre che l'altro dei due non venga mai completamente svegliato da questi comportamenti riprovevoli, ma che rimanga in uno stato di sonno disturbato, senza però saperne il perché. La mattina dopo si sveglierà non riposato, magari un po' irritato dalla cosa, ma la questione verrà archiviata con un'alzata di spalle. La prima mattina. Già, perché alla seconda, l'irritazione sarà aumentata, di un infinitesimo, certo, però il trend sarà in crescita, lineare o meno, non ha importanza. Irritabilità, malumore, facile eccitabilità, e in men che non si dica non ci sarà amore o amicizia che tenga. Il letto matrimoniale avrà mietuto un'altra coppia di vittime.
Questo post è stato pensato durante una notte insonne.
Questo post è stato scritto dopo un paio di settimane di convivenza con una persona con sufficienti senso dell'umorismo e conoscenza della mia tendenza a ingigantire.
Quasi nessuna persona è stata maltrattata, per l'ideazione di questo post.

mercoledì 12 marzo 2014

In bocca al loop

Alcuni anni fa mi trovai, in compagnia di Cinque, a partecipare a un congresso sulle tecniche di elaborazione di immagini mediche. Non sarebbe stato il primo ma, in compagnia di Cinque, sarebbe stato l'ultimo. Ad ogni modo, pochi tra i tizi che intervenivano presentavano effettivamente cose nuove. I più applicavano metodi già noti su malattie già note, ma magari mescolando un po' le carte. La maggior parte, quindi, seguiva grosso modo lo stesso copione: descrizione della malattia studiata, descrizione del tipo di immagini acquisite, descrizione dell'approccio matematico usato, risultati, statistiche, grazie per l'attenzione, applausi. Il particolare che ci colpì entrambi fu, lo ricordo bene, l'incipit comune a tutti, che era qualcosa del tipo: "La malattia è la numero ordinale causa di morte in continente". Per esempio, l'aneurisma aortico è la decima causa di morte in America, e ci tengo a precisare che ho scritto una cosa completamente a caso.
Bene, questo dunque era il trampolino di lancio comune, la giustificazione di qualsiasi lavoro venisse presentato. Quindi, pensammo, stiamo giocando alla top ten, chi sale e chi scende, con possibilmente qualche new entry ogni tanto. Perché appena si trova il modo per diagnosticare prima il gomito del tennista, e questo mi passa dal 24° al 32° posto, chissà che altra piaga ha scalato posizioni andando a occupare il 24° posto vacante. Un tetris un po' macabro, invece di caselle si spostino cause di morte, per quel fine che, e qui è l'incaglio, quale fine? Domanda senza risposta, lasciata ammuffire in qualche anfratto della mia memoria. Fino a che, pochi giorni fa, un libro di Pirsig mi ha fatto intendere che è tutto estremamente semplice: lo scopo è il vivere più a lungo, ma se chiedessi lo scopo del vivere più a lungo, beh, lo scopo è solo questo: vivere più a lungo per poter vivere più a lungo.
Grazie per l'attenzione, applausi, sipario.

giovedì 6 marzo 2014

Il mio amico George (5)

Mi trovavo, giorni fa, a fare un viaggio in compagnia di George. Essere in due, se uno dei due è uno come George, non è male: qualcosa di cui parlare o, in alternativa, qualcosa di cui stare in silenzio lo si trova. Solo che quando è stanco, bontà sua, George si addormenta, e lo fa su qualsiasi supporto esterno si trovi a essere appoggiato, sia esso un comodo letto ergonomico o un sedile troppo stretto per le sue gambe lunghe.
Lui stava, per l'appunto, sonnecchiando, (s)comodamente appollaiato sul sedile a fianco al mio. Durante certi viaggi in treno, il tempo non passa mai. Passa, un poco, lo spazio. Questa discrepanza mi indusse a pensare che all'Albert fosse sfuggita qualche briciola del suo ragionamento. Appena George si svegliò, lo resi partecipe del mio dubbio. "Mah, e perché mai sei contrariata dal fatto che il tempo non passi mai? Hai fretta di farlo finire prima? Su, su, lo sai a cosa mi fai pensare? A una tizia che un giorno andò da mia madre per farsi confezionare un abito di lana. (La madre di George faceva la sarta, n.d.a.) Niente di strano, dirai. Già. Se non fosse che quell'abito le serviva per l'estate, o meglio, per usare le parole che adoperò lei, per i giorni più caldi. Un bell'abito bianco a maniche lunghe di pura lana. Ma no, non era mica suonata, no, no. Solo che aveva letto da qualche parte che la lana è un ottimo isolante. Quindi lei aveva deciso che con quell'abito non avrebbe mai potuto sentire e soffrire il caldo estivo, esatto, brava, un po' come Totò e Peppino a Milano. Ma sì, ovvio che mia madre provò a farla ragionare, all'inizio con il tatto del caso, poi sempre con maggior trasporto, la conosci mia madre. Pensa che è una storia che ci racconta ancora adesso, anzi, che a intervalli regolari salta fuori. Sì, a questo punto è la domanda che si fanno tutti: certo che glielo confezionò, l'abito folle. In fondo, così pensava, posso fingere a me stessa che mi sia stato richiesto per il prossimo inverno. Quel che ne farà poi lei non mi riguarda, può anche, così pensava, spolverarci i mobili. Ma figurati se la pensava veramente, 'sta storia dei mobili! Era solo un ridicolo paravento di pretesa e superiore indifferenza, non voleva immaginarsi quella donna che sudava come un cavallo dentro il suo bell'abito. Ma già solo il fatto che di questa storia ne parli ancora ti fa capire se e quanto ci fosse rimasta male".
D'altronde la madre di George era solo il braccio, non la mente. Stavo riflettendoci con un filo di amarezza, quando mi resi conto che tutto questo non c'entrava nulla con il mio problema del tempo. "Ah, dici perché mi è venuto in mente questo aneddoto quando mi hai parlato del passare delle ore? Perché mentre parlavi pensavo che ti sta bene, il maglione che hai oggi".

martedì 25 febbraio 2014

But it's bad, and it's sad, and it's making me mad - Private (7)

Faccio collezione di undici, ne tengo una scatola zeppa sotto il letto. Così stipata che ogni tanto qualcuno di notte scappa fuori e, la mattina dopo, me lo ritrovo sul pavimento, a fianco del comodino. Oppure arrampicato sulle coperte, o appollaiato sul mio sterno.
Fortunatamente è solo un numero, e come tale non mi fissa.
Non sopporto che qualcuno mi guardi mentre dormo. Nemmeno mentre tengo gli occhi chiusi, da sveglia.

lunedì 24 febbraio 2014

Quadratura not found

Stasera, uscendo dall'ufficio, Pibi mi ha detto che quel progetto di lavoro che avevo scritto, sì, sarebbe il caso di scriverlo meglio (labor limae?), di dargli un'altra forma (labor lapidis), e che per farlo dovrei provare a mettere da parte il mio lato ingegnere (labor difficilis), tirando fuori piuttosto il mio lato letterario (labor difficilior).
Ero di fretta, e forse lui lo era più di me, sennò credo che avrei trovato il modo di spiegargli che sono un cerchio.
Così poi, per strada, ho cominciato ad augurarmi questo e quello. Pensavo a tutto il possibile, e a niente.

giovedì 20 febbraio 2014

Non comprare una vocale, per favore.

C'era una volta un cane, un bel labrador dall'aria vispa e intelligente. A questo punto ci starebbe, a completamento, un "...di nome *nome-del-cane*", ma se lo dicessi ora rovinerei tutto. In compenso posso soffermarmi sul padrone e sul di lui nome: Carlo. Carlo era un trentenne dall'aria vispa e intelligente, ed era entrato in possesso di quel cane in uno dei modi più banali: anni prima aveva accompagnato il proprio fratello al canile, lì il cucciolo di labrador l'aveva guardato, a Carlo era sembrato che guardasse proprio lui e gli stesse chiedendo di essere portato a casa, e insomma, per farla breve, di lì a poco il suo stato civile passò da "single" a "single con cane". Nel decidere il nome da dargli, in barba al fatto che il quadrupede un nome già ce l'avesse, decise di rendere omaggio a un autore che così tanto lo appassionava: Calvino. Il cane avrebbe dovuto portare il nome del protagonista di uno dei suoi libri. Tuttavia qualcosa come Cosimo Piovasco di Rondò era francamente troppo impegnativo. Amerigo Ormea era triste, triste come la pioggia di novembre, senza contare che l'accoppiata nome e cognome gli sembrava fuori luogo. Marcovaldo, via, era un po' troppo puerile. Insomma, la scelta non poteva cadere altrove che sul suo personaggio preferito: Qfwfq. Pertanto
C'era una volta un cane, un bel labrador dall'aria vispa e intelligente, di nome Qfwfq. Un nome del genere, va da sé, qualche problema poi lo genera inevitabilmente. In particolare, nessuno riusciva a chiamare Qfwfq. Per questo motivo Qfwfq cresceva libero e indipendente, dato che nessuno lo chiamava mai. O meglio, quand'anche qualcuno avesse provato a chiamarlo per evitare che andasse a correre in mezzo alle pozzanghere, il risultato sarebbe stato comunque insufficiente. "Cùfc, fermati!", "Cufùc, a cuccia!", "Vieni qui, Fùc!", ognuno ci metteva del suo nel cercare di dare un suono a quella manciata di consonanti, ma ne uscivano sempre le accozzaglie più disparate.
In mezzo ai propri simili, invece, Qfwfq era molto stimato proprio per quel nome che per un cane era estremamente facile da dire (se si è un cane, basta fare un facile gioco di glottide e diaframma. Se non si è un cane, è meglio lasciar perdere. Sarebbe un po' come tentare di far dire un'affricata postalveolare sonora (ossia la G di giovane) a un tedesco). Molti di loro, invece, si vergognavano molto di quello che i rispettivi padroni avevano scelto a suo tempo, ma Qfwfq non faceva mai pesare la cosa a nessuno.
Quindi, la morale di tutta questa storia si può così riassumere: è importante avere un nome, contribuisce a farci sentire. Non "a farci sentire *aggettivo o sostantivo*", ma proprio a farci sentire, punto. Ancora più importante è che sia un nome che, al momento opportuno, ci permetta di scappare e/o di ignorare con eleganza chi ci sta chiamando.
Qfwfq e Carlo vissero a lungo insieme e felici.

mercoledì 19 febbraio 2014

Su commissione

Non ce la faccio. Eh, no, non ce la faccio mica. Negli ultimi giorni sono entrate nel mio spazio vitale troppe persone che hanno atteggiamenti che grattano sul mio equilibrio come unghie su una lavagna. La coppia di amici che in treno urla. La gente che scrive le frasi più inutili con l'aggravante di cominciarle con il terribile "E poi...". (Una volta era l'avverbio praticamente, c'è stato un periodo in cui era molto molto di moda, che mi innervosiva, e ogni volta che lo sentivo mi partiva l'arco riflesso che mi faceva chiedere: "Perché invece teoricamente com'è?". Per tacere dei fondamentalmente e dei piuttosto che). Quelli che, quando rallento perché il semaforo è rosso, sorpassano. Ma soprattutto, primi a pari merito, o con un lievissimo margine di vantaggio per una delle due categorie (ma non riesco a capire quale, il fotofinish è incerto), ci sono loro. Chi sono loro? Non quelli dell'Area 51, no. Degli altri loro.
I primi sono quelli che ce l'hanno con un numero molto ristretto di persone (al limite anche con una sola) per un motivo in particolare, ma lungi dall'andare a esporre le proprie rimostranze ai diretti interessati, fanno discorsi generali sul non è così che si fa. Evidentemente, per quello che sto scrivendo, devo includermi nell'odioso gruppo. Sì, lo ammetto. Ma ammetto anche che per punizione mi sto colpendo la tibia destra con un mestolo di legno.
Il casus belli in genere è davvero ridicolo (ma non ha neanche senso parlare di casus belli, dato che il bellum non avviene mai), potremmo pensare a un gruppo di N coinquilini in cui uno, sia x, chiuda sistematicamente male il rubinetto, lasciandolo gocciolare. Degli altri N-1, il soggetto y odia i rubinetti che gocciolano. Ai rimanenti N-2, che pure chiudono sempre l'acqua in modo coscienzioso e inappuntabile, non gliene cale granché. Cosa farà y? Sbroccherà, senz'altro, ma è il modo che ancor m'offende, perché lo farà urlando a gran voce cose del tipo che io vorrei proprio sapere chi è quel cretino che ogni volta... eccetera. E puntualmente lo farà in presenza di tutti o parte dei già menzionati N-2 ma in assenza di x, ottenendo in questo modo un triplice risultato negativo (x continuerà col proprio comportamento increscioso, gli N-2 si saranno sorbiti un inutile pippone e, infine, il fegato di y subirà un leggero contraccolpo) e nessun risultato positivo. Come gettare tre fave in un deserto senza piccioni.
I secondi sono quelli che mi fanno sapere che stanno guardando Sanremo (in genere lo fanno con la benevola condiscendenza di chi vuol far vedere che anche il nazional popolare ha un suo fascino chic). Sia chiaro, a loro aggiungo anche quelli che ci tengono a farmi sapere che non stanno guardando Sanremo. Per riassumere, i secondi sono quelli, esclusi i giornalisti accreditati, che parlano di Sanremo. Tipo me, adesso. Ma ho ancora il mestolo in mano. E non ho paura a usarlo.

venerdì 24 gennaio 2014

Parlavo con te dentro la mia testa

Fino a un paio di settimane fa, il meteo si era bloccato su uno stato di pioggia permanente, quella pioggia che cade dritta e inesorabile e che, nel guardar fuori dalla finestra a qualsiasi ora del giorno, mi faceva temere di essere finita dentro a Blade runner. In effetti, a onor di precisione, mancherebbero solo cinque anni al 2019, tant'è, l'idea di dover uscire sotto quell'incessante riversarsi di acqua mi faceva quasi desiderare di essere un replicante. E, dopo questo, o forse contemporaneamente, il secondo pensiero che mi partiva era una malinconia che in fondo è come l'umidità, ti entra nelle ossa, e ce ne vuole di sole per asciugarla via. Così, in questo stato saturnino di bile nera, pensavo che una delle cose che più mi annichilisce, nel confrontarmi con qualcuno, è il non poter condividere parole: frasi, libri, brani, racconti. Star lì con una successione di vocaboli di fronte, che il demiurgo di turno ha scelto e ordinato in modo tale da far stringere lo stomaco per la meraviglia. Condividerla con qualcuno. Incontrare in quel qualcuno l'indifferenza olimpica. E desiderare di urlare
That is not what I meant at all;
  That is not it, at all
possibilmente sotto la pioggia.

giovedì 9 gennaio 2014

Il mio amico George (4)

L'ordine è energia, mi disse un giorno Inchesenso. Era il periodo in cui vestiva solo di colori primari, per costringersi alle cose semplici, fondamentali, più facili da riconoscere, catalogare e, per l'appunto, ordinare. Fino a qualche giorno prima si concedeva una porzione di caos, convinta che la portasse ad essere creativa. Poi è sopraggiunto il problema energetico, dovrò intraprendere questa crociata contro l'entropia.
Ne parlavo con George, perché lui è un eccentrico che ama intavolare conversazioni grottesche. Ma è un eccentrico a modo proprio (come dev'essere un eccentrico), è uno che tra una poltrona comoda e una poltrona di design comprerebbe quella comoda. Non solo per sé, ma anche per i propri ospiti.
"Ah, l'ordine...", mi disse guardandomi fisso. A volte sembra voler squadrare le persone dall'alto al basso, cosa che, forte del suo metro e ottanta e qualcosa, potrebbe anche tentare di fare. In realtà non è così, lui le guarda attraverso, il che è ben differente. Il fatto che nel farlo rimanga in silenzio può mettere un po' a disagio, o può far credere di avere una macchia sulla camicia, ma basta abituarsi. "Ti serve? Guarda che poi non potrò fare nulla per consolare i tuoi momenti di felicità. Non potrò nemmeno dirti che sono solo passeggeri". E io non ho potuto ribattere.