giovedì 20 febbraio 2014

Non comprare una vocale, per favore.

C'era una volta un cane, un bel labrador dall'aria vispa e intelligente. A questo punto ci starebbe, a completamento, un "...di nome *nome-del-cane*", ma se lo dicessi ora rovinerei tutto. In compenso posso soffermarmi sul padrone e sul di lui nome: Carlo. Carlo era un trentenne dall'aria vispa e intelligente, ed era entrato in possesso di quel cane in uno dei modi più banali: anni prima aveva accompagnato il proprio fratello al canile, lì il cucciolo di labrador l'aveva guardato, a Carlo era sembrato che guardasse proprio lui e gli stesse chiedendo di essere portato a casa, e insomma, per farla breve, di lì a poco il suo stato civile passò da "single" a "single con cane". Nel decidere il nome da dargli, in barba al fatto che il quadrupede un nome già ce l'avesse, decise di rendere omaggio a un autore che così tanto lo appassionava: Calvino. Il cane avrebbe dovuto portare il nome del protagonista di uno dei suoi libri. Tuttavia qualcosa come Cosimo Piovasco di Rondò era francamente troppo impegnativo. Amerigo Ormea era triste, triste come la pioggia di novembre, senza contare che l'accoppiata nome e cognome gli sembrava fuori luogo. Marcovaldo, via, era un po' troppo puerile. Insomma, la scelta non poteva cadere altrove che sul suo personaggio preferito: Qfwfq. Pertanto
C'era una volta un cane, un bel labrador dall'aria vispa e intelligente, di nome Qfwfq. Un nome del genere, va da sé, qualche problema poi lo genera inevitabilmente. In particolare, nessuno riusciva a chiamare Qfwfq. Per questo motivo Qfwfq cresceva libero e indipendente, dato che nessuno lo chiamava mai. O meglio, quand'anche qualcuno avesse provato a chiamarlo per evitare che andasse a correre in mezzo alle pozzanghere, il risultato sarebbe stato comunque insufficiente. "Cùfc, fermati!", "Cufùc, a cuccia!", "Vieni qui, Fùc!", ognuno ci metteva del suo nel cercare di dare un suono a quella manciata di consonanti, ma ne uscivano sempre le accozzaglie più disparate.
In mezzo ai propri simili, invece, Qfwfq era molto stimato proprio per quel nome che per un cane era estremamente facile da dire (se si è un cane, basta fare un facile gioco di glottide e diaframma. Se non si è un cane, è meglio lasciar perdere. Sarebbe un po' come tentare di far dire un'affricata postalveolare sonora (ossia la G di giovane) a un tedesco). Molti di loro, invece, si vergognavano molto di quello che i rispettivi padroni avevano scelto a suo tempo, ma Qfwfq non faceva mai pesare la cosa a nessuno.
Quindi, la morale di tutta questa storia si può così riassumere: è importante avere un nome, contribuisce a farci sentire. Non "a farci sentire *aggettivo o sostantivo*", ma proprio a farci sentire, punto. Ancora più importante è che sia un nome che, al momento opportuno, ci permetta di scappare e/o di ignorare con eleganza chi ci sta chiamando.
Qfwfq e Carlo vissero a lungo insieme e felici.

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