venerdì 28 ottobre 2016

Che qualcuno dica qualcosa...

La prima cosa di cui ti accorgerai sarà che non ci sarà nulla di cui accorgersi: non i soliti rumori, di passi, di frasi. Non di un bicchiere appoggiato sul tavolo, né dell'acqua che scorre da un rubinetto aperto. Non la televisione già accesa, non le ruote di un'auto sul ghiaino.

Penserai che non serve riflettere solo sulle parole da dire, e delle quali potresti essere chiamato a render conto, perché capirai di dover rendere conto anche dei silenzi. Allora spererai che qualcuno dica qualcosa, qualcuno che parli, per cortesia!, come se ti trovassi in una biblioteca capovolta, qualcuno che dia voce a qualche pensiero...

Penserai che le hai già conosciute tutte, hai già conosciuto le sere, le mattine, i pomeriggi, quelli in cui qualcuno che dica qualcosa, vi prego!, quelle in cui i cocci non facevano rumore, a camminarci sopra: c'erano, i cocci, ma non facevano rumore, e non erano di qualcuno, e forse nessuno aveva rotto nulla, qualcuno aveva dimenticato, e ora, camminandoci, non facevano più rumore.



mercoledì 26 ottobre 2016

Errore evolutivo

Ricordo che George era rimasto colpito, quando andavamo a scuola, dal termine gasteropode, gli piaceva già allora giocarci, con le parole, smontarle, rimontarle, cercare cosa ci stesse dietro, immaginare a chi potesse essere venuto in mente di far camminare quei molluschi sulla propria pancia. I piedi nello stomaco.
"Eppure, mia cara", riconosce, dopo anni di distanza, "credo che preferirei i piedi, a una mano che si apre, tende per bene tutte le dita, e si serra di scatto, richiudendoselo dentro, lo stomaco, e tutto il resto".

domenica 23 ottobre 2016

Per una vera, mille sono finte

Strizziamo gli occhi per sforzarci di vedere ciò che non c'è, forse c'è, o forse era un'ombra, è così distante, non si capisce. Non si capisce.
Strizziamo gli occhi, e il pensiero, per convincerci che ci sia, oltre la realtà più semplice, ciò che vorremmo ci fosse, che magari c'è, o forse no.
E ci alleniamo a farlo, involontariamente, ma con costanza, fin da bambini, da quando ci accorgiamo che non ci basta più ciò che possiamo toccare, e allora alziamo lo sguardo un po' più in alto, ma non riusciamo a limitarci a osservarle, le nuvole, per ciò che sono, no, ci viene naturale vederci dell'altro dentro, una tigre, una barca a vela, e non ci riesce nemmeno di farlo da soli, dobbiamo anche mostrare agli altri ciò che crediamo di vedere, forse per convincerci che davvero quella non sia solo una nuvola, però è sempre così difficile trovare qualcun altro che la riconosca, la tigre, e che faccia in fretta, prima che il vento sbricioli tutto, la vedi?, quella è la zampa, lì il muso, e l'orecchio lo fai con quel pezzo più a destra, sbrigati, la vedi?, ecco, si sta sciogliendo, l'hai vista?

Strizziamo gli occhi, e il pensiero, e sopravviviamo, assieme alla tigre.



sabato 15 ottobre 2016

Manuale distruzione

Me ne sto in piedi, io, mentre la mia mente s'è seduta a guardare distrattamente una serie di pensieri svogliati, una bonaccia di idee che solo le ore di forzata attesa sanno evocare. Ho otto persone stravaccate alle mie spalle, e dal vetro su cui si specchiano vedo che ciascuna di loro sta digitando cose sulla propria scatola nera. La mia l'ho spenta per un po', e per ingannare il tempo osservo dal vetro, nonostante il buio e la pioggia, l'abitudine con cui sottomettiamo la forza di gravità, un tempo così democratica.
Inganno il tempo, ma cerco di non ammazzarlo, non mi è mai piaciuta l’espressione ammazzare il tempo, se c’è una cosa da non ammazzare è proprio lui. Ammazzare non è reversibile. Ingannarlo, il tempo, richiede prudente astuzia.
Gironzolo, e leggo preoccupazione nel volto delle persone in attesa dell’imbarco per Fiumicino, la leggo nel loro gettare un’occhiata furtiva e timorosa alla larghezza del ragazzo con la camicia blu che prenderà il loro stesso volo, leggo un allarmato no, dai, non vicino a me… negli occhi di tutti. Non in quelli di lui, apparentemente ignaro. Dribblo trolley, inanello gate e destinazioni, e un timore simile a quello appena visto lo leggo nei passeggeri diretti a Francoforte, o almeno in quelli di loro che si sono resi conto di quanta potenza vocale riesce a sviluppare quel bambinetto che non ne vuole sapere di starci, nel passeggino, o in braccio alla mamma, o in braccio al papà, o in aeroporto, o in aereo, o dovunque si cercherà di sistemarlo nelle prossime tre ore.


Ho un tale sonno che se cedo a una sedia mi addormento e perdo il mio, di volo. Esisterà un manuale distruzione per le attese, i rumori, gli altoparlanti metallici, la lontananza, ma da dove, poi?, se anche muovendoci la distanza non cambia.