venerdì 25 maggio 2012

Iperrealismo alla liquirizia.

Cos'hanno in comune Duane Hanson e il sabato mattina? In realtà nulla, a meno che, appunto di sabato, non ci si debba accollare l'infelice compito di andare a fare la spesa. Cosa che di per sé non dovrebbe essere necessariamente nefasta, ma potrebbe risvegliare quegli istinti primitivi e veraci di quando si andava a cacciare brontosauri a colpi di clava per sopravvivere e permettere alla specie di giungere fino all'ora e qui, dove i brontosauri non ci sono più, ma le clave a volte servirebbero.

Insomma, sabato scorso ero in coda alla cassa. E' uno dei momenti peggiori, un po' come l'ultima riga della versione di latino: quando dovevo tradurre qualcosa, a prescindere dalla lunghezza, arrivavo a finire la penultima riga, e lì basta, mi passava la voglia. Il grosso del lavoro era fatto, eppure la tentazione di mollare tutto, a un passo dalla fine, era puntualissima.
In modo simile, quando si arriva in cassa vuol dire che il grosso della fatica lo si è fatto: lo scontro in campo aperto nel reparto ortofrutta con conseguente accaparramento delle bilance elettroniche, la guerra di posizione al banco della gastronomia, la fuga oculata dall'esercito di promoter nascoste dietro ogni scaffale e armate di treperdue pacchi di merendine, quattropertre flaconi di shampoo, quindiciperpigreco scatole di pelati.
Tutto questo è alle spalle, si vede la luce alla fine del tunnel, reificata dal numero acceso della cassa aperta. E invece.
E invece si è lì, in fila, fermi, le uniche distrazioni essendo 1. guardare la spesa del vicino; 2. tenere d'occhio la fila adiacente, per accorgersi che il fatto che tenda ad andare più spedita è uno stupido luogo comune, lo diceva anche Calvino, ma lui lo diceva meglio; 3. farsi distrarre dal caleidoscopio di caramelle rasoi batterie lucidalabbra ovettikinder profilattici tictac gomme americane sapientemente esposti; 4. osservare la gente.
Ormai è un'abitudine, mi perdo a guardare gli altri, intesi come gli sconosciuti. Forse perché detesto ascoltarli o anche solo sentirli, probabilmente la vista cerca di equilibrare l'udito, chissà. E così, dicevo, sabato scorso ero alla cassa, quando improvvisamente li ho visti. Tre personaggi talmente reali da non aver nulla da invidiare agli iperreali personaggi di Hanson, che componeva opere che si occupassero di "persone che conducono un'esistenza di calma disperazione. Mostro il vuoto, la fatica, l'invecchiamento, la frustrazione". In questo caso si trattava di una famiglia che sembrava uscita o da uno di quei filmacci italiani degli anni Ottanta (o Novanta o Duemila, fa lo stesso) o da qualche genialata di Woody Allen. Il papà era riuscito a combinare un paio di pantaloni di un arancione che si intonava con la camicia a quadri più o meno come un calciatore della nazionale si intona a un altro nel cantare l'inno d'Italia. La mamma non era da meno, ma i toni erano il fucsia e un grigio brutto, con tutto il rispetto per il grigio, che in genere amo molto. Il florido figlio sedicenne o giù di lì era sovrastato da una pettinatura che chissà cosa voleva rappresentare (credo di non volerlo sapere), se è vero che come ci vestiamo e pettiniamo è il modo non-verbale con cui ci presentiamo al mondo. Accomunava tutti e tre l'espressione svagata e il portamento astenico, pancia in fuori, spalle curve e l'apparente attesa di un treno che non passa.

Eppure, nonostante tutto, il supermercato non mi mette tristezza. Me ne stupisco, perché credo che dovrebbe. Dovrebbe incupirmi la vista del moderno parcifal, il marito lasciato solo a cercare l'ammorbidente. Dovrebbe deprimermi la musica che passa per gli altoparlanti, e ancora di più dovrebbero amareggiarmi le signore che canticchiano e rimangono in contemplazione della colonna di carciofini in vasetto battendo il piede al ritmo di Antonacci. Dovrei ripensare alle parole di Hanson e uscirmene avvilita da un tale contenitore di svariata umanità.

E invece no. Sarà che in cassa mi aspettano le rotelle di liquirizia, e tutto si dimentica alla prima srotolata.

mercoledì 23 maggio 2012

Tetrachiro in tazza grande

O, se non piace tetrachiro, bicefalo. Perché quanto segue è frutto di un ragionamento fatto con Cinque, che a dispetto del nome vale per uno solo.
Un giorno stavo pensando a una persona che conosco, la quale è particolarmente poco portata a rompere gli schemi, e stavo dicendomi che probabilmente la cosa più controcorrente che ha fatto nella vita è stata mescolare il caffè in senso antiorario. In realtà non ho fatto in tempo a finire il ragionamento, che mi son messa a pensare al mio modo di mescolare il caffè, ammesso di averne uno codificato. E quindi, approfittando della felice circostanza (non c'era nessuno che potesse vedermi), mi son messa a fingere di mescolare un'ipotetica tazzina di caffè, per cercare di venire a capo del dubbio. Dunque, credo che il mio modo "inconscio" sia il giro in senso orario, anche se a volte indugio su banali movimenti rettilinei. Ma perché orario, poi? Che c'entri la forza di Coriolis? Dovrei andare nell'emisfero australe e controllare se cambio verso. Per poi scoprire che la storia dello scarico dei lavandini è una leggenda, e tornarmene in questo emisfero con l'amaro in bocca, forse dovuto a un mal mescolamento del caffè stesso, chissà.

Fatto sta, quando ho di questi dubbi in genere chiedo il parere di Cinque. E in men che non si dica ci siamo lasciati alle spalle anni di trita e ritrita frenologia, per giungere alla definizione della personalità di una persona a partire proprio, attenzione, dall'osservare come questa muove il cucchiaino al bar.

Però in questi casi è di fondamentale importanza partire da delle basi certe, per esempio sapere quale sia il modo canonico, quello ufficiale, standardizzato e riconosciuto come valido da monsignor della Casa (notoriamente vissuto prima della diffusione del caffè in Europa, ma vabbè) di comportarsi quando si fronteggia una tazzina. Si tratta per lo più di regole che non possono non venire disattese, soprattutto se si pensa che spesso un caffè lo si prende per svegliarsi da un momento più o meno protratto di torpore. Ora, se il soggetto si trova in tale stato semionirico, credo sia ben difficile che riesca a ricordarsi di reggere il piattino con la mano sinistra, mescolare il caffè con la mano destra (per esclusione, direi) muovendo il cucchiaino dall'alto al basso (così sta scritto, mi sono documentata. Come si faccia poi mi risulta oscuro), e prendere la tazzina dal manico con il pollice e l'indice della mano destra dopo aver riposto il cucchiaino sul lato destro del piattino. Per quel che mi riguarda dovrei mettermi un vistoso braccialetto colorato su uno dei dei polsi, e poi ricordarmi che quel polso è quello da associare o alla presa del piattino o a tutto il resto. Un po' come quando, all'asilo, le maestre ci mettevano un pon-pon rosso su uno dei due polsi per imparare a distinguere destra e sinistra. Va da sé che io non ricordavo se il polso fosse, appunto, il destro o il sinistro. Meno male che so fare l'occhiolino solo con l'occhio sinistro, e che sapevo che quello era l'occhio sinistro, altrimenti penso che oggi girerei ancora con un inutile pon-pon su un polso a caso.
Ma torniamo a noi.
Si parlava delle basi certe e codificate dalle quali partire. Bene, ciò che si deve fare l'ho appena scritto. Personalmente non credo di conoscere qualcuno che ottemperi a tali regole. Evidentemente frequento la gente sbagliata. Anche perché, quando ho letto ciò che non si deve assolutamente fare ho ritrovato tutto, ma proprio tutto, quello che vedo intorno a me ogni giorno, considerando anche il fatto che al bar c'è un grande specchio. Sia chiaro, non bisogna mai mescolare il caffè con movimento orario o antiorario. E quindi? E quindi si fa dall'alto al basso, come già detto. Mah.
Altra cosa da evitare come la rogna è rappresentata dal portare il cucchiaino alla bocca. Ma l'azione in assoluto più riprovevole consiste nell'alzare il mignolo della mano con cui si regge la tazzina, seguita a ruota dal far ondeggiare la tazzina stessa in maniera circolare prima dell'ultimo sorso. Insomma, a conti fatti bere un caffè è più difficile che montare un armadio dell'ikea senza far avanzare nulla.  

Ma nella realtà, nel bar sotto casa, il famoso uomo della strada che tutti noi ben conosciamo come si comporta se messo di fronte alla caffeina? Il discorso sarebbe molto lungo, temo di dover fare delle semplificazioni, per esempio escludendo dall'indagine i caffè macchiati: lì si aprirebbe un mondo di modi diversi di gestione della schiumetta di latte. Circoscriverò quindi l'analisi al mero caffè semplice.
C'è il distratto, che mescola al volo, non abbastanza, assaggia, il caffè è ancora amaro come bile, versa ancora zucchero e rimescola, ma nel fondo c'era ancora tutto lo zucchero di prima, quindi dopo un primo sorso di fiele si ritrova mezza tazzina vagamente stucchevole. Orario, antiorario, dall'alto al basso o viceversa, poco gli importa, è distratto, vive la vita come viene e se ne perde metà.
C'è la persona che alterna verso orario e antiorario, gli piace creare vortici e romperli, tanto è solo una tazzina, lì sfoga un po' di istinti e di desideri spericolati. Magari non ritira neanche lo scontrino, per sprezzo delle regole.
C'è chi il cucchiaino proprio non lo usa, ma si limita a ruotare la tazzina con abili mosse di polso che neanche un giocoliere con l'hula hoop. Può essere ossessionato dai germi, o un sociopatico, o un banale giocoliere senza hula hoop.
I più pericolosi però sono quelli che non muovono mai il cucchiaino, lo tengono fisso, verticale, e fanno ruotare la tazzina con il cucchiaino dentro, fermo. Inchiodati alle loro prospettive precopernicane, credono che sia il tutto che gira attorno al singolo, e spesso identificano il singolo con sé stessi. 
E spesso riescono pure a farselo offrire, il caffè.

domenica 20 maggio 2012

Baby, don't shiver now, why do you shiver now?

Non amo scrivere di cose successe di recente che riguardino una cerchia di persone più larga di quella che comprende la sottoscritta e basta. Il motivo è che sono già in tanti a scrivere male cose brutte sugli eventi più o meno grandi che non vedo perché ingrossare le fila di costoro.
Tuttavia la notte scorsa mi sono svegliata di colpo a causa della scossa di terremoto più violenta che io abbia mai sentito. Mia mamma è corsa in camera mia (?) terrorizzata, quindi che altro fare se non cercare di tranquillizzarla e dirle che va tutto bene? E in quel momento pensavo a cosa sarebbe successo vent'anni fa, con me che corro terrorizzata in camera sua e lei che probabilmente mi dice che va tutto bene e mi tranquillizza. Che simpatico gioco delle parti.

Sipario.

La mattina dopo mi alzo, scendo e la trovo in cucina. Sapevo che l'argomento non avrebbe potuto che essere quello, ero già pronta. Però un pregio indiscusso di mia mamma consiste nell'autogestirsi le conversazioni: se è lei a porre una domanda, non significa affatto che stia aspettandosi una risposta, sicché si può continuare ad annuire distrattamente, e lei dopo un risibile intervallo di silenzio riprenderà il proprio flusso di pensieri a voce alta.
Ecco, anche questa volta avrei potuto lasciare che le cose prendessero questa comoda piega, se non che mi sono dimenticata che lei è un interlocutore sui generis, che non necessita di interloquire propriamente, quindi in un primo momento ho provato a risponderle.

Lei: Certo che questo genere di cose fanno davvero pensare...
Io: ...al fatto che siamo polvere? Sì beh...
Lei: ...alle ante dell'armadio. Mi sono resa conto che
Io, pensando: Le ante dell'armadio? Dunque, La ginestra di Leopardi... L'impermanenza del tutto... Non ricordo cose riguardanti le ante degli armadi. A cosa starà riferendosi? 
Lei: ...ci cadrebbe tutto addosso. Bisogna pensare a...
Io, pensando: Ah ecco, sta parlando delle ante fisiche degli armadi fisici.
Lei: ...per bloccarle o fissarle.
Io: Mamma? Scusa, credi davvero che un po' di vestiti e...
Lei: Oppure eliminare gli armadi.
Io: Sì. Prima recupero il libro dei Canti di Giacomo.

giovedì 17 maggio 2012

Stima per difetto

Navigando in rete, mi è comparsa la pubblicità di un corso di autostima: "Aumenta la tua autostima e diventa una persona assertiva, decisa e determinata. CLICCA QUI.", recita l'intrigante annuncio. Come resistere? Beh, per esempio non essendo una persona assertiva, decisa o determinata. Se non lo si è non si cliccherà mai a cuor leggero e con sicumera su un clicca qui tutto maiuscolo, figuriamoci. Io avrei scritto qualcosa del tipo: "Ti piacerebbe aumentare la tua autostima ma non ti senti all'altezza? Forse ti potrebbe essere di aiuto provare a cliccare qui. Però vedi tu. Senza impegno. Amici come prima".
E poi mi sono messa a pensare non tanto a cosa si potrà mai insegnare e imparare in un corso di autostima, quanto piuttosto alla certificazione finale. Perché io mi aspetto che, come tutti i corsi che si rispettino, alla fine venga consegnato un attestato, un qualcosa che dichiari che si è partecipato a quel corso e che lo si è brillantemente superato.
Sì però non va bene. Se io che partecipo so già che la suddetta certificazione viene rilasciata a tutti, che motivo ho di partecipare?

- Ti vedo in forma, anzi, di più, ti vedo assertivo, deciso, direi quasi determinato! Ma cos'hai fatto? Hai partecipato al corso di autostima?
- Sì, ma tanto promuovevano tutti, anche i sassi. Forse è per questo che mi hanno promosso, sennò non mi spiego, sono sempre stato un fallimento.


Non va bene, proprio no.
E' anche vero del resto che non si può bocciare uno che venga lì a chiederti di aiutarlo ad aumentarsi l'autostima. L'unica è assumere dei figuranti che vengano a fare la parte degli iscritti che poi vengono bocciati, così tutti gli altri, che verrebbero quindi promossi di default ma senza saperlo, sarebbero contenti e soddisfatti, oltre che assertivi, decisi e determinati.
Anche i sassi.

martedì 15 maggio 2012

Quasi quinare Kundera

Ovvero, l'insostenibile leggerezza de L'insostenibile leggerezza dell'essere.
A volte ho l'impressione di vivere improvvisando. O forse "improvvisare" non è il verbo più corretto. Forse dovrei dire che ho l'impressione di stare temporeggiando a tempo indefinito. In effetti l'improvvisazione dovrebbe essere la condizione di default. Mi sta bene il faber suae quisque fortunae, ma ho paura che il più delle volte siamo immersi in un sistema caotico dove le farfalle newyorkesi sbattono le ali con frequenza e intensità completamente casuali, per cui tocca trovare soluzioni e direzioni estemporanee.
Del libro di Kundera, di cui tutto, o quasi, si può dire, tranne che sia leggero, un concetto mi è sembrato relativamente limpido, forse perché spiegato in modo particolarmente esplicito: quello dell'Einmal ist Keinmal, ciò che avviene soltanto una volta è come se non fosse mai avvenuto.
Ma non sono sicura di essere un attore che entra in scena senza aver mai provato, e che quindi improvvisa. Mi sembra di andare oltre, di non riuscire nemmeno a improvvisare, ma di trovarmi a temporeggiare. Sono coincidenze quelle che costellano il quotidiano, o sono avvenimenti completamente fortuiti ai quali sento il bisogno di dare un ruolo in modo che necessariamente entrino a formare un quadro?
Forse dovevo esercitarmi di più con le storie a bivi di Topolino, da piccola.

sabato 12 maggio 2012

Luna e Laltra

Non vorrei sembrare capricciosa ma, mi chiedo, perché a Giove sessantatré, a Saturno una sessantina (a spanne), a Urano ventisette e a noi uno solo? Un satellite solo, e anche butterato e che ci dà sempre le spalle. E al quale, peraltro, del mio dir poco gliene cale. Forse.
Quindi, per farla breve, vorrei qualche altro satellite che ci girasse attorno. I vantaggi sarebbero molteplici. I primi che mi vengono in mente? Beh, intanto il cielo sarebbe un po' più variegato. Poi gli sbalzi d'umore dei lunatici avrebbero probabilmente una frequenza maggiore, al limite così alta da risultare impercettibili. Le maree e le eclissi sarebbero più complesse e fantasiose. Mont Saint Michele potrebbe diventare raggiungibile come un treno regionale per Venezia, uno ogni venti minuti. Potremmo fare un sacco di piccoli passi per un uomo ma grandi passi per l'umanità. Il pastore errante dell'Asia avrebbe cantato molto di più.
Forse, per qualche effetto farfalla, tutto il nostro circondario non verrebbe più a essere all'interno di una zona di Goldilock, e quindi potremmo non esistere, ma qualche rischio bisogna pur essere disposti a correrlo. O forse potremmo aver sviluppato forme di vita alternative, e addio ossigeno, carbonio e compagnia.
Due cose però sono convinta non cambierebbero. La prima riguarda gli oroscopi: sarebbero ugualmente demenzialmente vacui ma coloriti. La seconda? Se anche avessimo sviluppato forme di vita alternative in cui i nostri io fossero invarianti, io sarei da qualche parte, davanti a un calcolatore basato su un'elettronica che usa dati tetradecimali e che gira su wafer di criptonite, a pensare che forse sarebbe più bello avere un satellite solo, almeno si saprebbe quando andare a funghi.

mercoledì 9 maggio 2012

Dormono, dormono, sulla collina.

Non si tratta di pregiudizi. O almeno, io non li considero tali.
Per come la vedo, un pregiudizio fa riferimento alla stretta cerchia di quelle caratteristiche che ognuno di noi elencherebbe qualora qualcuno gli chiedesse di descriversi con pochi aggettivi. Qualche anno fa mi procuravo abbondanti dosi di autostima guardando ogni tanto pochi minuti (erano più che sufficienti, il rischio di overdose era dietro l'angolo) di un, come definirlo?, programma televisivo dove a esemplari stravaganti, o forse assolutamente normali, presumibilmente appartenenti alla razza umana venivano concessi un paio di minuti per convincere altri esemplari a contattarli in modo da cominciare imperiture e profonde amicizie. A ciascuno di loro veniva chiesto, tra le altre cose, di descriversi con tre aggettivi. Il campionario di quelli utilizzati era estremamente ristretto: ho scoperto che la razza umana si è ridotta a essere solare, semplice e divertente. O al più simpatica, lunatica e sincera. Al massimo si può puntare a qualcosa tipo allegra, carina ed estroversa.
Ecco, il mio guardare la gente non è minimamente legato al farmi pregiudizi. Non mi interessa figurarmi che qualcuno sia arrogante, solare, estroverso o sociopatico. O, per meglio dire, non è questa la parte divertente e su cui mi perdo in modo consapevole.
Viceversa, ciò che mi piace fare è costruirmi l'ambientazione in cui ogni persona potrebbe essere calata. Per farlo, ovviamente, non bisogna fare conoscenza. Sarebbe come quando qualcuno ci nomina sempre cosa combina con il fratello maggiore, il cugino, il collega, ... Col passare del tempo e dei racconti ormai ce lo siamo immaginati, alto sul metro e ottanta, castano, capelli ricci, il setto nasale un po' deviato, gli occhiali dalla montatura di tartaruga e un curioso tic che lo porta a tormentarsi il lobo destro quando è concentrato. E poi questa persona ci capita di conoscerla, e di tutte le cose che avevamo pazientemente e inconsciamente incasellato possiamo salvare solo i capelli ricci.
Quindi, dicevo, non bisogna fare conoscenza, a meno di essere disposti a mettere a soqquadro il profilo che si è pazientemente costruito. D'altro canto non è una cosa che si riesca a fare agevolmente con persone viste una volta e via, salvo che si tratti di personaggi effettivamente degni di questo nome. La condizione migliore prevede che si venga in possesso di pochi, marginali dettagli informativi, magari in momenti diversi, in modo da metabolizzarli.
Va da sé, tutto questo discorso teorico ha visto innumerevoli applicazioni pratiche effettuate dalla sottoscritta. Due, in particolare.
La prima riguarda Pa.N.T., la Pantera Nera del Treno. Si tratta di una donna dall'età approssimativa di cinquant'anni, quotidianamente strizzata in improbabili vestiti \ pantaloni di pelle \ camicie pericolosamente scollate \ giacchine a occhio di una taglia in meno del consigliabile. Ai piedi, di rigore, lo stiletto: decolleté, stivale, sandalo o quel che sia. Tutto, ma proprio tutto, monocromaticamente nero, compresi i capelli lunghi. Detta così, la cosa potrebbe avere anche un certo qual fascino fetish, e si noti il condizionale. Se non che la PaNT, come prima cosa, appena sale in treno e si siede, si toglie il maledetto paio di attrezzi di tortura, rivelando uno sgraziato alluce valgo su entrambi i piedi. Ma dato che scende qualche stazione dopo la mia, non l'ho mai vista ricomporsi, tranne qualche giorno fa: in quell'occasione, complici i primi caldi, la nostra PaNT non solo ha liberato le infelici estremità, esponendole al pubblico, ma si è incaponita nella propria opera di smantellamento, togliendosi cappotto e, ahimè, maglia, rimanendo così impietosamente in canotta. Impietosamente, sì, perché le braccia mollemente flosce e i molteplici rotoli che coprivano una senz'altro perfetta tartaruga non facevano certo bella mostra. Fin qui la discesa agli inferi. Ma poi uscimmo a riveder le stelle, perché in prossimità della mia stazione, a sorpresa, PaNT recupera maglia, stivaletti, cappotto, e in men che non si dica si ristrizza dentro al proprio esoscheletro corvino.
In che ambientazione si colloca, la mia PaNT? A me piace immaginarla la sera, sul divano, vestita con una psichedelica felpona anni Ottanta, mentre mangia il gelato col cucchiaio grande direttamente dalla vaschetta. Si potrebbe aggiungere che sta guardando l'ennesima replica del Diario di Bridget Jones, ma mi sembra scontato. Preferisco una speciale in prima serata di Medicina 33, con Luciano Onder che spiega le nuove tecniche per curare l'alluce valgo, e lei che, rassicurata, pensa sorridente a quello che aveva visto il giorno prima: un bel tacco 12 in vernice. Nera.
L'altro esempio riguarda una persona che non conosco, se non di nome e di vista, ma della quale ho visto l'ufficio e la scrivania dove lavora. La chiamerò Ctrl. Attaccato al muro c'era un calendario la cui foto era il fotogramma di un vecchio film di Totò, attore del quale credo di aver visto, se non tutti, buona parte dei film. Lì per lì mi son chiesta se anche Ctrl avrà riso per certe scene memorabili per le quali ho riso anch'io, chissà. Dopodiché l'ambientazione ha inglobato i R.E.M., un inossidabile disinteresse per il calcio, la musica elettronica e un libro, ma non saprei di chi.
Perché? Chissà.

giovedì 3 maggio 2012

...l'abitar questi odorati colli.

Ci sono persone che si accompagnano a un colore.
Si muovono con disinvoltura, come se non se ne accorgessero, con l'andatura svagata di coloro che vivono la propria vita come un flusso di coscienza. Sembra quasi che stiano suonando, ma per sé stessi soltanto.
Hanno occhi che sorridono senza il bisogno di reclutare altri muscoli facciali. Forse perché tengono gli occhi fissi al pensiero, come se questo fosse una persona, sola, seduta al tavolo di un bar, che giocherella con le bustine dello zucchero.

Ci sono persone che hanno tutto questo.
Altre no.

martedì 1 maggio 2012

Private (3)

Ho scoperto una canzone di quelle che quando finiscono viene voglia di premere il tasto di replay. Ed è bello ascoltarla in auto, perché diventa diversa a seconda che la si ascolti andando veloci, o lenti, o fermi al semaforo. Dà il meglio di sé quando la strada è libera, guardo lo specchietto retrovisore e non c'è nessuno. Nessuno per così tanto spazio che posso immaginare che non ci sarà mai nessuno.
Ma per capirla meglio bisogna essere miopi. E non in senso figurato. Bisogna portare gli occhiali, quelli fisici, con stanghette, lenti e tutto, e sapere cosa vuol dire toglierseli. Sennò sarebbe come voler immaginare un camino senza aver mai visto un ciocco che sfrigola e scintilla. Sarebbe come voler leggere il drip drop drip drop drop drop drop di Eliot senza aver mai sentito cadere gocce.