lunedì 16 dicembre 2013

Contaminazioni

Per una volta un post che non sia farina del mio sacco. E un ringraziamento esplicito a LaSte per aver disegnato quanto sotto, pensando a un mio vecchio post (questo qui).



domenica 8 dicembre 2013

È mio padre.

Lamarta e io condividiamo molte cose. Qualcuno potrebbe sbrigativamente definirci sorelle e, in fede mia, avrebbe ragione, perché tra le varie evidenze che ci accomunano possiamo annoverare anche entrambi i genitori.
Tantissime altre cose ci differenziano, va da sé: per esempio, restando sul macro, mentre io ho la costante sensazione di stare temporeggiando, lei ha una famiglia e un lavoro che tutti comprendono appena lo nomina. Magari pure lei si sente temporeggiante, ma viste da fuori quella in corso d'opera sembro io. Ad ogni modo, il punto non è questo, piuttosto il fatto che abbia una famiglia comprendente una (ormai ex) new entry arrivata poco più di due anni fa, la quale è riuscita in un solo colpo a rendere zii due persone e nonni altre quattro.
Come la schiacciante maggioranza dei nonni in circolazione, anche mio padre è ormai presbite, e prima di leggere qualcosa lo si può vedere girar per casa chiedendosi dove potrà mai recuperare un paio di occhiali, uno dei tre che lascia di volta in volta sul frigo, sul tavolo, sul divano, ... Una volta mia mamma mi raccontò di averne trovato un paio dietro un vaso di fiori. Mah.
Insomma, qualche giorno fa mio padre andò a trovare mia sorella. Alla vista del nonno, il nipotino dagli occhi cerulei chiese che gli venisse letta una storia, ma si dovette scontrare con un mesto "Non posso, ho lasciato gli occhiali a casa". Il giorno successivo la scena si ripeté uguale in tutto, tranne che nel finale: mio padre infatti, memore della piccola delusione suo malgrado inflitta al pargolo, si presentò munito di occhiali e di tanta voglia di leggere libretti colorati. L'episodio, riportatomi da Lamarta, mi fece sorridere. Altra reazione provocò invece in lei: "Si è ricordato, si è portato gli occhiali. Ma ti pare? Ti ricordi quando eravamo piccole noi quanto dovevamo supplicare perché la domenica sera, a cena, ci lasciasse vedere i Puffi, facendogli perdere il telegiornale?! E adesso, da nonno...". Se me lo ricordo? Certo, come fosse ieri, mi ricordo il cosa e il come, quella sensazione di stare facendo qualcosa di intimamente sbagliato. E allora poi, da sola, ci ho ragionato su, e sono arrivata a una conclusione imbarazzante in quanto ovvia: è molto più facile ricordare l'episodio negativo (il famoso albero che cade versus la foresta che cresce eccetera eccetera) a fronte della quotidianità positiva, i giorni dopo giorni dopo giorni a crescere una marmocchia (io) che un tantino pedante e ostica lo è sempre stata, per lo meno a memoria mia. Quanti errori da parte dei miei genitori? Non saprei rispondere, forse tanti, forse pochi, forse il giusto, forse ricordo solo quelli dei quali mi rendo conto di portare le conseguenze, però mi chiedo se avrebbero potuto fare altrimenti, o se non fossero stati messi sul palco a fare la parte dei genitori senza aver letto lo straccio di un canovaccio né aver fatto una minima prova.
Quindi quegli occhiali coscienziosamente portati per la lettura della fiaba mi hanno fatto tenerezza e basta, perché in fondo con mio padre succede spesso così, soprattutto ultimamente, che quando guardo una foto di lui da piccolo piango. Di tutte le persone che mi circondano il mio subconscio è più o meno equanimemente consapevole della transitorietà. La questione l'ho delegata a lui. Nel caso di mio padre, invece, il mio subconscio non ne ha voluto mai sapere, e devo gestirmela io.
È mio padre. Nonostante la stagione che verrà.

martedì 3 dicembre 2013

I miei rami stupidi

Una delle cose che mi mancano di più, qui (di un'altra parlerò in uno dei prossimi post), è il paesaggio con i miei colli. E so bene che a dirlo corro il rischio di passare per la luciamondella della situazione.
Mi manca quella familiarità da vivere da sola, quando finalmente interrompo tutto il mio parlare e parlare e parlare.
L'ultima volta che sono andata a camminarci era mattina presto, e il vento freddo era di quelli che ti fanno venire il dubbio che il naso e le orecchie potrebbero staccarsi da un momento all'altro. Nei tratti in cui mi soffiava alle spalle, era così forte da provare il desiderio di lasciarmi cadere indietro, ci avrebbe pensato quell'aria tagliente a tenermi su, a mo' di poltrona.
Sul piccolo sagrato di una chiesetta c'era una fontanella: il rubinetto, a intervalli di qualche secondo, lasciava cadere una goccia, gelida. Una goccia, una goccia, poi un'altra, e un'altra... Adesso, oggi, e domani e domani e domani...
Mi mancano i miei colli, e il tempo che lì si scopre.

lunedì 11 novembre 2013

Il mio amico George (3)

Qualche giorno fa (credo che molti miei post comincino così: il motivo è che le cose succedono ma le lascio andare, e solo dopo un po' di tempo ritornano spontaneamente a far capolino tra ricordi vari e mezze dimenticanze) sentii squillare il cellulare mentre stavo camminando, da sola, per vie secondarie e tranquille. Era George. Mi sembrò una circostanza singolare, per lo più per l'orario. In realtà non è che da George ci si debba aspettare alcun tipo di regolarità o prevedibilità, non è proprio il tipo. Ciononostante la mia reazione, prima ancora di rispondere, fu di muto sconcerto.
"Senti, ti prego, dimmi che non ti disturbo", attaccò lui, "e se ti disturbo sappi che puoi anche appoggiare il telefono da qualche parte e continuare a fare quello che stavi facendo, metti pure il viva voce e fai un mmm, sì, certo ogni tanto. Andrà benissimo anche così. E guarda che non è un modo gentile per dirti che non mi interessa se mi ascolti o meno, è solo che sento che la deflagrazione è vicina".
Per chi non lo conoscesse, ci tengo a precisare che George è il ritratto dell'imperturbabilità, un misto di consapevole atarassia e di rassegnata presa di coscienza di quanto grottesca possa essere a volte la realtà. Però quando usa la frase la deflagrazione è vicina significa che la ragione si è presa una pausa, lasciando campo libero all'animale. In genere in queste circostanze comincia a parlare più lentamente del solito e con voce più grave. Non che sia propriamente arrabbiato, direi piuttosto che trabocca sdegno.
Questa volta la scintilla era scoccata poco più di un'ora prima, quando aveva dovuto portare dei clienti a vedere non so che tipo di prodotto. In questo tipo di attività lui è particolarmente disinvolto, riesce a non perdere tempo e a far arrivare gli interlocutori di turno a una decisione, positiva o negativa che sia, in tempi relativamente brevi. "Non so cosa mi sia preso stavolta, ma no, ma no, alla fine hanno preso tutto, ma non è questo il problema. Vedi, erano in due, una coppia. Lei si è messa a parlare di, sai quegli sciocchi argomenti di pessimo gusto?, sì, esatto, tipo la politica da bar, e lui le dava corda, sembravano un comico e la spalla, solo che non facevano ridere, ma non so per quale motivo idiota non li ho arginati subito e me ne sono stato come un ebete ad ascoltarli. A sentirli. No, no, ho detto bene, ad ascoltarli. Se ti dico quanto tempo è durata la cosa... No, non te lo dico, non per te, ma perché se ci ripenso mi viene un leggero conato di vomito. Sei pronta? Quasi un'ora. Quasi un'ora, capisci? Alla fine quando sono andati via mi sono sentito svuotato, come un burattino, al quale fosse stata portata via un'ora di tempo di vita, durante la quale avrei potuto, non so... Avrei potuto fare qualcosa di meglio che ascoltare quei due. Avrei potuto vivere meglio".
Mi faceva piacere che si sfogasse con me. Ma dove gliela andavo a recuperare, io, quell'ora perduta?

mercoledì 6 novembre 2013

Una per trovarti, l'altra per sparire

Ho difficoltà a rileggere libri o a rivedere film. Lo faccio, certo, ma di rado, e per un motivo da persona molto noiosa: mi inquieta così tanto l'evidenza che non avrò il tempo per vedere e leggere e conoscere tutto ciò che vorrei, che una parte di me mi chiede sempre con veemenza di ottimizzare il più possibile. Anche se poi mi ritrovo a perdere quantità di tempo sconsiderate su cose ridicole, il che mi porta a pensare che forse il processo di ottimizzazione sia ben lontano dall'aver raggiunto un risultato soddisfacente.
Ad ogni modo, anni fa, durante l'università, stavo preparando un esame abbastanza soporifero per i miei gusti (Biomateriali, per chi c'era). Era domenica, una bella giornata di maggio, e insomma era frustrante sentire dalle finestre le famigliole che andavano a passeggio godendosi il sole primaverile, mentre io avevo la sola e monotona compagnia del libro e dell'orologio. E fu proprio l'orologio, con quelle tre lancette ammonitrici, a regalarmi un'ombra di malessere: pensai alle lancette come alle mie personali Parche (Parche da polso, da muro...), intente a chiedersi dove avessero messo le forbici.

lunedì 28 ottobre 2013

Se solo lei mi prestasse ascolto

Antefatto
Mia mamma non volle essere presente né alla mia discussione di laurea né a quella di dottorato perché "...tanto non capisco".
Commento all'antefatto
Non ho citato i due non-episodi perché io serbi nei confronti di mia mamma rancori da riesumare sul letto di morte, mio o suo che sia, ma solo perché mi serviva un antefatto di questo tipo.

Sono, o meglio, mi reputo brava a spiegare, non tutto ovviamente, solo le cose che capisco, che poi sono quelle non troppo complicate, se si comincia ad astrarre troppo e a inoltrarsi là dove lo spaziotempo si curva, beh, quando il gioco si fa duro la sottoscritta se ne va, senza capire, e quindi senza poter spiegare ciò che non ha capito. Il che in verità non è da tutti.
Mi sono chiesta spesso perché sia così disposta a battere più di un sentiero pur di entrare in contatto con il mio interlocutore. Potrebbe essere semplice maestrinite cronica. O forse tutto parte fin da quand'ero piccola, con i miei genitori che preferivano mettere in secondo piano, nella classifica delle priorità educative, il fatto che la forchetta si usi con la mano sinistra, a vantaggio del prestare attenzione a come si parla: in questo modo potevo mangiare tenendo le posate un po' come mi pareva (purché sempre con le mani, sia chiaro), viceversa partiva immediatamente il "Non si dice così" quando al posto di un "No, non mi sono spiegata" me ne uscivo con un "No, non hai capito". La prima opzione può anche suonare un filino buonista e iperglicemica, ma 1- se si vuole essere acidi con chi ci sta ascoltando ci si riesce lo stesso, uno sbuffo calcolato o una premeditata alzata di sopracciglio e il gioco è fatto; 2- spesso è proprio vero che esiste almeno un percorso alternativo per partire dal livello di conoscenza condiviso e arrivare alla nozione finale.
Questo, tuttavia, non mi porterà mai a dire che tutto è alla portata di tutti, anzi, non l'ho mai pensato e sono ben convinta del contrario. A certi livelli, relativamente alti, di comprensione, di qualsiasi campo dello scibile si stia parlando, arriveranno solo pochi (e qui mi viene in mente quell'Invidio tutti. Non posso soffrire la gente che fa le cose meglio si me, anche se perfettamente assurde: camerieri che portano pile di piatti in bilico (...), letto anni fa e trovato così familiare...).
Ma ad altri livelli, relativamente più accessibili, è lecito voler arrivare. Quindi tu, medico, che non ci provi nemmeno a spiegarmi perché per potermi operare sia importante che io abbia certi valori fisio-anatomici, ecco, tu mi infastidisci. Io ti darei ascolto, e non perché si tratti di me.
Ad ogni modo, la citazione era della Woolf.

venerdì 25 ottobre 2013

Una serata che non esiste

Se Manzoni leggesse quanto sto per scrivere mi solleverebbe senz'altro un'obiezione: mia cara, tutto ciò non è verosimile. E io a mia volta sarei costretta a rispondergli che mio caro, lo so bene, il punto è che è tutto vero. Come la mettiamo? Non so come la metteremmo, fatto sta che giovedì sera, in compagnia de LaPeggiore, ho trascorso una serata che probabilmente non è mai esistita. Tutto ha avuto inizio con

LaPeggiore: Ci andiamo a bere un bicchiere di vino quando finisci in ufficio?
Io: Mai come stasera! Però prima devo passare in farmacia a prendermi il collirio
L: Oh... Ma sei proprio senza senza?
I: Beh... Al massimo io vado e ci troviamo dopo.
L: Ma no, figurati, c'è giusto una farmacia qui di fronte all'ospedale, stiamo un minuto.

Farmacia di fronte all'ospedale... A me non risultava che ci fosse, ma in presenza di tanta sicurezza mi sono affidata e lasciata guidare fino al presunto luogo dove, destino avverso!, la farmacia non c'era. Secondo tre presunti nativi che passavano di lì e ai quali abbiamo chiesto notizie, la farmacia occulta non ci sarebbe mai stata. Mah. LaPeggiore ricordava benissimo di esserci anche andata, in questa farmacia che era anche un tabaccaio. E io le credo. Ma le circostanze queste erano, pertanto non ci rimaneva che incamminarci verso una farmacia vera, reale, aperta e funzionante. Trovatala, siamo entrate e, stupore, quella non era una farmacia, ma una pasticceria in piena regola: destino benevolo!, eravamo capitate proprio nel giorno un cui un'associazione per la prevenzione di malattie varie, a scopo di autopromozione, distribuiva infusi caldi e pasticcini e rose alle gentili clienti quali noi eravamo. Solo che ormai sono le sette e mezza, stiamo chiudendo, sono avanzati un sacco di pasticcini, prendetene un po' da portarvi via, vi faccio un pacchetto! Ma voi vivete assieme o... Ah no? Allora vi faccio due pacchetti separati, ci mancherebbe, sennò chi li mangia tutti questi, non fate complimenti, questo con la cioccolata l'avete preso? Insomma, ci siamo ritrovate a uscire con una rosa a testa in mano e due relativamente voluminosi pacchetti di pasticcini vari. Le stelle stavano diventando propizie. La serata stava risollevandosi. Avevamo perso una farmacia/tabaccaio ma avevamo guadagnato una farmacia/pasticceria. Restava però un annoso problema ancora aperto, e nel camminare verso casa LaPeggiore non si è fatta remore a sollevarlo:

L: Senti, dobbiamo ancora berci il bicchiere di vino. 'Sto posto qua (il primo bar che incrociamo) è abbastanza brutto?

Entriamo. I peggiori bar di Caracas? Tsk, non scherziamo. Quattro uomini, che non esiterei a definire individui dall'aspetto nebulosamente losco, costituivano la svariata umanità che popolava il localino. Il primo, il barista, ci guarda con un misto di stupore, circospezione e una irresistibile tentazione di dirci no grazie, non ci serve nulla. Singolare, dato che stavamo entrando entrambe con una rosa in mano. Il secondo, un omone dalla pancia poderosa, era insaccato in un maglioncino di un lilla indescrivibile, non era il lilla dei capelli di certe vecchiette permanentate, era molto più carico, e contribuiva a fare di lui una macchia di colore impossibile da non notare. L'omone, seduto su un non invidiabile sgabello, non aveva nemmeno alzato la testa; i gomiti appoggiati al tavolino, continuava pervicace la propria attività, che consisteva nel girare le pagine di un giornale, senza leggerle, solo le girava, con regolarità degna di un metronomo. Doveva trattarsi di un giornale infinito, perché lui girava, girava, girava, con calma ma con serena ostinazione, o forse, come un moderno Sisifo, non appena lo finiva, il giornale ricominciava, e con esso ricominciava anche tutto quel girare, girare, girare... Gli ultimi due personaggi, entrambi intenti a investire di sé la miglior parte alle slot machine, completavano il quadretto: magri magri, con i giubbetti troppo corti e (uno solo, a onor di cronaca) i mocassini sfondati.
Sentendoci immediatamente a nostro agio e perfettamente integrate, ci sediamo, ordiniamo due bicchieri di rosso e cominciamo a osservare l'arredamento: due pareti erano tappezzate di orologi, di ogni forma, dimensione, materiale e, ahimè, ora. Ciascuno di quegli aggeggi segnava un orario diverso, probabilmente ce n'era anche uno giusto, ma rintracciarlo in mezzo a tutti avrebbe significato cadere in un'altra dimensione. In realtà si poteva anche facilmente immaginare che nessuno di quegli orologi fosse lì per svolgere il ruolo dell'orologio, ma che il vero segnatempo del locale fosse l'omone-metronomo che intanto aveva continuato a girare, girare, girare...
Passato un po' di tempo (ma quanto? Diciamo un tempo di dieci pagine), assieme ai due bicchieri di vino il barista ci porta un tortino di carne caratterizzato da un peso specifico a dir poco importante. Ora. Prima i pasticcini, gratis. Adesso questo (tra vino e piatto la spesa complessiva sarebbe ammontata a ben due euro, n.d.a.). Le ipotesi erano due: o la gente ci scambiava per due fanciulle denutrite, o ci prendeva per due squattrinate senza speranza. Oppure questa serata non esisteva (terza ipotesi, forse non esistente). Ci era anche balenata l'idea, dato che gli astri si stavano dimostrando benevoli, di provare a vendere le rose al barista, ma non volevamo spingere troppo sull'acceleratore della buona sorte.
Il maxischermo appeso alla parete trasmetteva le vivaci e frivole notiziole tipiche del tg3, seguite da quelle del tg della regione, seguite dalle previsioni del tempo, seguite da blob... Da quanto non guardavamo blob, sia LaPeggiore che io. Che ricordi. E così ci siamo ritrovate a seguire la trasmissione mentre il barista faceva rumorosamente calare la saracinesca, forse che ci stava comunicando qualcosa? E così siamo uscite. L'omone intanto aveva smesso di girare e girare, i due tizi segaligni avevano smesso di giocare e, a dirla tutta, secondo noi quel locale surreale aveva smesso di esistere.
La serata è poi continuata, ma quello che è successo dopo è stato molto più verosimile, quindi qui la chiudo.
Però tra qualche giorno sarò ancora a corto di colliri.

mercoledì 23 ottobre 2013

S c a p p a v i a

Provateci voi, pensava, scossa dai brividi di freddo per quel suo ostinato starsene fuori.
Si sentiva le gambe molli come se ne avesse bevuti parecchi, di bicchieri, come se avesse corso dio solo sa per quanti chilometri, come se... E invece sapeva bene che non beveva più ormai da molto, e che anche quel lumicino di volontà che le faceva infilare le scarpe da corsa per andare a non pensare era spento da lungo tempo.
Eppure se le sentiva molli, le gambe, come pure la testa rallentata nel cercare, spesso senza trovarle, le parole per sostenere le inutili conversazioni alle quali le veniva chiesto di partecipare. Riusciva a sopportare tutto questo, perché sapeva che
If there were rock
And also water

avrebbe trovato la sua attesa lettera ben scritta, con le sue nuove ben scritte promesse.
If there were the sound of water

Lo sapeva... Sii onesta, almeno nei pensieri, non lo sapeva, lo sperava, null'altro.

Not the cicada

E ora la tristezza, fin nei visceri, e le gambe molli

lunedì 21 ottobre 2013

Un sottile dispiacere

Mi preoccupa che tutto debba evocare emozioni. Un'automobile, un biscotto, un diffusore per ambienti, un caffè... Io non chiedo a queste cose di emozionarmi, chiedo loro semplicemente di trasportarmi, farmi fare colazione, profumarmi il soggiorno e convincermi che mi passerà un po' di sonno, rispettivamente. Ma non voglio che mi emozionino. Già mi ritrovo a desiderare di arginare il dilagare delle emozioni che scaturiscono da persone e situazioni, ci mancherebbe solo che ne uscissero anche dagli oggetti.
A volte ho la sensazione di non riuscire a spiegare stati semplici solo perché non ne ho la chiave di interpretazione, come se, per esempio, non conoscessi alcuni termini del vocabolario tipo interdetto o malinconico o annichilito, e io in quel momento fossi proprio interdetta, o malinconica, o annichilita, ma non sapessi come dirlo a meno di uno sforzo verbale relativamente enorme.
A volte ho, sì, la sensazione che sia il concetto stesso di emozione a sgretolarmisi tra le mani, e che io non possa decidere o intervenire o impedire che accada in alcun modo.
A volte, tipo adesso.
Meglio che vada a farmi una doccia, sperando che il bagnoschiuma non debba emozionarmi anche lui.

domenica 20 ottobre 2013

Una chiamata (senza risposta) dal Cielo

Tempo fa trovai sul cellulare una chiamata persa effettuata da un numero sconosciuto, italiano, con il prefisso di Milano. Richiamo?, non richiamo?, il mio essere sospettosa mi suggerì di provare a cercare in internet, nella speranza di trovare di chi potesse trattarsi. Così in men che non si dica mi ritrovai catapultata in uno degli N forum on line, in cui un tizio, tale Alberto, metteva tutti sul chi va là avvisando che quello non era che il numero di Sky. Insomma, pubblicità. Insomma, Dio ce ne scampi.
Il giorno successivo, altra chiamata. Una. Poi un'altra. Poi un'altra ancora. Con facile pervicacia e un lieve senso di soddisfazione mi ostinai a non rispondere, ma poi subentrò il dubbio, che da manuale è cosa sana e sintomo di intelligenza, però a volte è anche fonte di scocciature altrimenti evitabili. Insomma, cominciai a pensare che via, siamo sicuri che quel forum fosse davvero affidabile? Chi è poi questo Alberto? E se magari questi che mi cercano fossero i tizi dell'ENEL che vogliono solo sapere se sono ancora viva perché altrimenti, tanto vale, loro staccano tutto? E se fosse il notaio di uno sconosciuto parente meneghino che mi informa che il caro estinto mi ha lasciato in eredità la sua collezione di puzzle da fare? Per farla breve, alla chiamata successiva, come una moderna Gertrude, sciaguratamente risposi.
La vita a volte è imprevedibile. Altre volte no. Quella volta non lo fu: all'altro capo della linea c'era la signorina Monica di Sky, la quale venne da me liquidata con modi educati ma solerti e rapidi.
Fine della storia? Giammai! Benché avessi spiegato alla gentile Monica che non ho la televisione (No, vede, non è solo che non mi interessa Sky, è proprio che non ho la tv. Non posseggo.), le chiamate ripresero inesorabili a tutte le ore del giorno. Anche sette volte in un giorno. Sette. Come i nani, i re di Roma, le note e un sacco di altre cose. Sette. E quindi, all'ennesima, mi preparai con un paio di respiri diaframmatici durante i primi tre squilli, dopodiché andai.

Io: No, allora, senta, buongiorno, qui c'è un problema...
X: Signora, parla con me?
Io: Sì, salve, parlo con lei. Vede, io lavoro in ospedale (ok, mezza (tre quarti, via...) bugia, ma a fin di bene (il mio), quindi si può n.d.a.) e mi trovo a ricevere telefonate da voi anche in momenti sinceramente inopportuni. Ora, vi ho già detto che non ho e non voglio Sky, non ho la tv, insomma, io mi metto nei suoi panni e lo so che lei si sente insultare probabilmente tutto il giorno e le assicuro che ha tutta la mia solidarietà, però dato che la situazione è questa, le chiedo: è possibile che mi togliate dalle vostre liste?
X: Guardi, signora, io cerco di fare il possibile, ma sa perché? Perché io vorrei che ci fossero persone gentili come lei. Lei è scocciata, ma gentile.

Scocciata ma gentile? Maledizione, meno male che la telefonata è finita lì con un paio di saluti (ovviamente gentili). Dico Maledizione perché mi sa che avrei ceduto. Scocciata ma gentile... Mi sarei potuta commuovere, per questi due aggettivi, e mi sarei anche potuta trovare a firmare il contratto Premium + Calcio + Cinema + Prime Visioni + Serie televisive Deluxe ad un prezzo particolarmente svantaggioso.
Inguaribile narcisa.
Comunque non hanno più chiamato.

mercoledì 16 ottobre 2013

Aurea mediocritas

Si erano svegliati entrambi prima di quello che avevano previsto. In fondo la sera prima avevano fatto tardi ed erano tutti e due molto stanchi. Ma era estate, e le finestre aperte non offrivano alcun riparo dai rintocchi impietosamente vivaci delle campane della chiesetta del quartiere vicino. Era un giorno di festa. Un venticello timido riusciva a malapena a smuovere la tenda: osservò a voce alta, lui, che sarebbe stata una giornata afosa, ma non indosserò la gonna, né i pantaloni corti, pensò lei, quelli lunghi andranno benissimo.

Un racconto di Carver, si disse, preparando la colazione, ecco cosa sarà questa giornata. Se qualcuno volesse narrarla, sarà solo questo. Non c'erano eroi nelle loro vite, non erano eroi nemmeno essi stessi. Avrebbero vissuto la loro giornata di festa, assieme, ma ciascuno sentendola in un modo unico e distante. Era ciò che lei perseguiva: la consapevolezza della consuetudine.

martedì 15 ottobre 2013

Il mio amico George (2)

Mercoledì sera, prima di fermarmi a bere qualcosa con Zorro e il Capitano, decisi di approfittare del mio anticipo sull'orario di appuntamento per telefonare a George. Perché George il modo per rispondere lo trova, e una risposta da darmi ce l'ha sempre. Magari sbagliata, ma ce l'ha. Subito mi chiese che cosa avessi cambiato (...ma quanto corti hai tagliato i capelli? O li hai schiariti? Ti sento diversa!), ma gli spiegai che era solo che non portavo più gli occhiali.
- Ah già, fantastico!, che sciocco a non accorgermene! E allora qual è il problema?
Ovviamente non lo sapevo di preciso, ci mancherebbe.
- Senti, buttiamola sulla cartomanzia, tanto, imprecisione più, imprecisione meno... Ti pesco una carta, aspetta che piglio il mazzo (rumore di svariati cassetti e ante che si aprono e chiudono), scusa ma sono a casa dei miei e non mi... Eccolo! Trovato, ci siamo.
Sì però, nonostante stessimo battendo il comodo sentiero dell'approssimazione, mi sembrava doveroso fargli notare che avrei voluto sceglierla io la mia carta.
- Dici? Non saprei. Le cartomanti non fanno tutto da sole? Hai ragione, io non sono abilitato. Bah, senti, non polemizzare, dimmi un numero che ti piglio la carta. Ventitré? Ok, aspetta che conto... sette... dodici... diciannoveeeee... ventitré, eccola. Un cinque di picche. Ma chiaro che non ho la più pallida idea di cosa significhi, ti pare?, ma sei stata tu a dirmi in partenza che mah, non so, non è niente di preciso, quindi qui si improvvisa. Allora, aspetta che cerco... significato... carte... ma sì, mettiamo anche picche. Guarda che qui devi scordarti la diagnosi differenziale, eh. Il primo che esce esce. Ecco qua, che ne dici di questo cartomanziagratis? Ah beh, puoi dirne quello che vuoi, io ti leggo il responso dell'oracolo: Cinque di Picche: questa carta rappresenta una perdita. Potresti perdere qualcuno che ami, un amico, del dena... Senti, ma dov'è che sei? Ah. 
Ormai dovevo salutarlo, stava arrivando il Capitano e, di lì a poco, anche Zorro. Con loro due ci raccontammo le ultime novità, io sbagliai un congiuntivo, mi guardarono entrambi con soddisfatto stupore, il Capitano sentenziò che ora ci avrei pensato due volte prima di correggergli un'apostrofo sbagliato, io mi accorsi che aveva detto un apostrofo con l'apostrofo, ma ormai ero in difetto.

domenica 13 ottobre 2013

Libera mente tratta

Era una storiella, un aneddoto che ci aveva raccontato la professoressa di inglese al liceo, però non sono sicura che i personaggi che ricordo siano quelli giusti. Ci spiegava di Joyce e Svevo, i quali erano soliti sedersi, la sera, allo stesso tavolo dello stesso locale e trascorrere assieme ore senza dire una parola. E come tutti gli aneddoti bisognerebbe capire se magari in realtà non fosse successo che un giorno James e Italo si fossero dati uno sporadico appuntamento al bar, e nella conversazione nata tra i due ci fossero state rare pause di pochi secondi. Poi, va da sé, il tempo ci ricama sopra, e a informarsi bene, chissà, verrebbe fuori che quei due erano uno il cugino di Svevo e l'altro un tizio che era stato a Dublino.
La vita a volte è impietosa.
Ad ogni modo, a me l'aneddoto era stato detto come l'ho riportato, e dato che da qualcosa si deve partire, assumerò che sia corretto.
Ora il motivo di tutto questo preambolo. Qualche tempo fa Daff mi raccontò di avere un amico, che chiamerò Nocchiero, un po' strano. Ognuno si senta libero di associare al termine strano le stravaganze di carattere e temperamento che più preferisce. Mi diceva che più o meno una volta la settimana andava a trovarlo, magari ci scappava la partita a scacchi.
Ieri gli ho chiesto come fosse andata la visita settimanale.
- Bene, solo una passeggiata, oggi era malinconico. Ma mi rasserena.
Non mi passa per la testa di chiedergli se e cosa gli racconti. Però mi piaceva figurarmeli in qualche modo come i due, Joyce e Svevo, non al bar in questo caso, ma a camminare su un prato. Magari con Nocchiero che osserva che caldi, in autunno, non sono che i colori delle foglie.

mercoledì 25 settembre 2013

Attesa

Più il tempo passa e più mi accorgo che il 28 settembre ormai è dietro l'angolo. Che fare? L'unica cosa che mi viene in mente è di evitare l'angolo e andare a vivere in un igloo.
Che succederà il 28 settembre? Niente di brutto, anzi, tanto di bello, ma forse non riuscirò a fare avere mie notizie a più di qualcuno, per un breve futuro. Potrei mandarle adesso, che però in quel momento diventerà il passato, e a me non piace viaggiare nel passato, al massimo potrei pensare di andare nel futuro anteriore.
O in un igloo.

mercoledì 18 settembre 2013

Il mio amico George (1)

Ero uscita con George a prendere un caffè al bar. Per chi non sapesse chi è George, beh, basti sapere che quando si è con lui non si può mai dire come andrà a finire. Ovviamente sto parlando della vita. George è uno a cui piace osservare le persone, ma non solo gli piace, il punto è che gli riesce con una naturalezza e un'acutezza che viene da chiedersi quante vite precedenti abbia vissuto e di quante di queste abbia memoria, per dimostrare di saper tratteggiare così rapidamente eppure con così tanta accuratezza chi gli stia attorno.
Ciascuno di noi due era assorto nei propri pensieri, tanto che un osservatore esterno avrebbe potuto credere che fossimo due estranei casualmente seduti al medesimo tavolino, il che sarebbe stato un errore madornale, dato che solo con chi ci è davvero vicino ci si può permettere di tacere e distrarsi. Improvvisamente George mi ha riportato alla realtà contingente invitandomi a osservare una coppia seduta un paio di tavolini più in là. Ha fatto tutto improvvisamente, limitandosi a dire: "Vedi un po', ha proprio sbagliato tutto. Tutto. E continua a sbagliare. Robe da alzarsi, andar lì e leggergli il libretto delle istruzioni". Credo che stesse parlando del libretto di istruzioni della vita.
Qual era il problema? Cercherò di riassumerlo nel migliore dei modi a me possibili. Forse era il compleanno di lei, o magari si era laureata da poco, non ha molta importanza, il fatto è che lui le stava dando un regalo, un pacchetto tirato fuori peraltro con un certo imbarazzo da parte di entrambi, ma fin qui non c'era nulla che si potesse rimproverare ad alcuno. Il problema era il contenuto del pacchetto: se fosse stato un libro, di nuovo, non ci sarebbe stato nulla di male. Ma quelli erano due libri.
La teoria di George era molto semplice: i libri in numero di due si regalano solo in circostanze eccezionali, talmente fuori dal comune che non gli veniva nemmeno un esempio di quali potessero essere queste circostanze. "Pensaci un po', che senso hanno due libri? Forse hai paura che uno sia troppo poco? Ma santo cielo, ti rendi conto dell'idiozia? Troppo poco in che senso? 'Eh, sai, Bartleby lo scrivano dura solo un centinaio di pagine, mi pareva pochino, quindi ti ho messo anche l'autobiografia di Alberto Tomba', capisci? O forse quei due ancora non si conoscono bene, e per aumentare le probabilità di azzeccare i gusti di lei, lui ha deciso di... Ma se non si conoscono bene allora perché regalarsi una cosa così intima come un libro? Ti ricordi che anche tu avevi segnato quella frase... Si amavano, quei due. Si regalavano libri. Sì, mi avevi prestato quel libro e poi mi sono accorto che avevi piegato l'angolo di quella pagina, dove anche io ero rimasto bloccato e ...".
Insomma, la filippica sembrava destinata a continuare su questo argomento ancora per un po', se non che ci siamo accorti entrambi che la situazione stava degenerando ulteriormente: lui le stava spiegando i libri. Va detto che eravamo i soli, dentro al bar, a parte una signora in soprabito bordeaux e cagnolino a riccioli, e che il volume della musica che passava la radio era molto basso. Di modo che potevamo sentire tranquillamente quasi ogni parola della conversazione di quei due. Lui non le stava raccontando le trame, peggio, stava spiegandole perché le aveva regalato proprio quei libri. George era esasperato. "Mio dio, se si conoscono è ovvio che lei capirà da sola il perché della scelta, una volta che comincerà a leggerli. E se non si conoscono... Senti, ti secca se usciamo? Comincia a starmi stretta".
Credo che parlasse della vita.

martedì 10 settembre 2013

Tat Tvam Asi

Venerdì scorso ero in auto con mio papà, e il traffico per le strade era quello che ci si può aspettare in ogni tardo pomeriggio, niente di nuovo. Anzi, forse un po' peggio, essendo venerdì.

- Certo che diventa davvero insopportabile, tutto 'sto traffico, voglio dire. Macchine, macchine, macchine...
- Papà...
- Mh?
- Ne siamo parte.
- Sì.

lunedì 9 settembre 2013

Horror vacui

Mentre me ne sto seduta ad ascoltare la rassicurante ostinazione con cui la pioggia ha deciso di scrosciare da qualche ora a questa parte, mi viene in mente una cosa che mi è capitato di notare di recente, anche se magari, chissà, si verifica da un sacco di tempo. Mi sono accorta che ultimamente va molto l'utilizzo ingiustificato della parola niente a inizio di un discorso, in strutture del tipo E poi niente, *frase*, oppure E insomma niente, *frase*. In genere si ha che la *frase* assume pretese di verità rivelate. Il tutto si verifica per lo più in improbabili massime buttate là a casaccio su social network a casaccio, oppure su blog tenuti da perfetti nessuno (esatto, proprio come questo), che però pensano di sdottorare dall'alto (esatto, non come questo).
Mi produrrò in un paio di esempi di mia invenzione, che tuttavia credo non sfigurerebbero davanti ai vari e poi niente, [...] su cui mi è capitato di inciampare.
E poi niente, ti accorgi che le canzoni degli anni Novanta hanno già vent'anni. 
Oppure vedrei bene anche un E poi niente, ti vengono a dire che non ti puoi nutrire di soli marshmallow perché non hanno vitamina A.
Ma ci si può divertire sbizzarrendosi come si vuole. Il giochino è molto semplice, si pensa una frase e, per quanto idiota sia, la si fa seguire a quelle tre parole di attacco iniziale.
L'obiezione che mi sentirei di avanzare è che perché ci sia un e poi mi aspetterei che ci fosse un e prima, ma l'e prima non c'è mai, il che mi fa tremare all'idea che prima, durante, e dopo, per pensare e scrivere tante idiozie, molti abbiano davvero solo il niente.

venerdì 6 settembre 2013

Spettatrice

Quel mercoledì mattina la stazione era il solito via vai, ma tra spintoni distratti e valigie strattonate malamente riuscì a guadagnare l'ingresso del bar. Era uscita di casa velocemente o, per dirla tutta, aveva fatto male i conti col tempo, e quindi per la fretta non aveva fatto colazione e si era infilata il primo paio di scarpe che le si era parato davanti, e che a metà della vietta del quartiere si era rivelato essere un paio di scarpe che sapeva esserle troppo strette. Ora, realizzato che all'arrivo del treno mancava ancora una ventina di minuti (continuava a fare male i conti con il tempo), non vedeva l'ora di sedersi e ordinare qualcosa di caldo da bere.
Rasserenata dall'aver verificato di aver portato con sé il quartetto della sopravvivenza (composto da, in ordine sparso, chiavi di casa, portafogli, telefono e un libro), poteva concedersi un quarto d'ora di niente che non fosse l'osservare con scrupoloso interesse gli avventori del bar della stazione. Erano rappresentanti delle due solite categorie: da una parte tutti quelli che erano ben abituati a viaggiare e a muoversi di corsa, soldi pronti, scontrino, ordinazione, caffè e cellulare. Dall'altra parte, invece, i viaggiatori sporadici, quelli che trasaliscono a ogni avviso che venga fatto passare per gli altoparlanti e che fanno due volte la fila perché ordinano al banco prima di aver fatto lo scontrino alla cassa. Disinvoltura contro goffaggine. E poi, categoria a sé stante, i controllori e i macchinisti, fieri del fascino della propria divisa, come marinai su rotaie hanno una donna non più in ogni porto, ma in ogni stazione, e salutano le bariste con cenni carichi di promesse.
La tazza di the caldo e l'apparizione di tutti i personaggi che si aspettava di vedere le avevano fatto scivolare addosso quella manciata di minuti che la separava dall'arrivo del treno, del suo treno, quello che veniva a vedere arrivare e ripartire ogni secondo mercoledì del mese. In memoria della sua occasione mancata, in memoria di tutti i treni che non aveva preso, in memoria di, ora sì le venne in mente, quella malinconia viscerale ma al contempo eterea, quel dolce malessere che accompagnava ogni addio.

martedì 27 agosto 2013

Sulle stelle più lontane. E ci rimane.

Aveva delle singolari abitudini, che spesso lasciavano sconcertate le persone che avevano modo di conoscerla. Per esempio mangiava le ciliegie con la buccia e, quando andava in bici, metteva i piedi sui pedali.
Successe un giorno che uno sconosciuto, fermo come lei in attesa della metropolitana e incuriosito dal fatto che lei tenesse la busta della spesa per i manici, la avvicinasse per chiederle il motivo di questo comportamento stravagante. Gli rispose serafica, ma in realtà vergognandosene segretamente, che trovava che i manici fossero molto comodi per sollevare e spostare una borsa, soprattutto se piena, e che davvero lei aveva sempre fatto in questo modo. Lui sembrava indeciso se dimostrare più fastidio o incredulità di fronte a un atteggiamento così irragionevole, ciononostante riuscì a risponderle con un paterno sorriso di condiscendenza che probabilmente erano dei ricordi ingannevoli che trasfiguravano la realtà di lei in modo così evidente, e che lui dubitava che lei avesse sempre adottato una tecnica tanto demenziale. In quella arrivò la metropolitana, lui sembrò immediatamente sollevato da un grosso peso: "Finalmente, era da lunedì che l'aspettavo", non salì, si diresse verso l'uscita e la salutò, tra la folla, agitando una scarpa.

domenica 18 agosto 2013

La paura dell'Acqua

Se serve un pretesto per parlare delle proprie paure, ne ho avuto uno circa una decina di giorni fa, anche se non mi permetterà di parlare di tutte le mie paure. Io, per esempio, ho paura delle persone e di me stessa, e di me stessa con le persone e delle persone con me. Cosa, questa, che condiziona non poco le mie relazioni con gli altri. Ad ogni modo, il pretesto che ho avuto un paio di settimane fa non mi darà l'occasione per parlare di questa mia paura, che quindi mi limiterò a nominare e via. La paura di cui voglio parlare è quella del mare, o dell'acqua, o forse di entrambi. Da piccola, quando avevo tre / quattro anni, piangevo disperata a ogni lavaggio di capelli, non volevo sentire l'acqua sul viso, negli occhi, mi spaventava. Anni dopo, durante le vacanze estive, il timore che provavo nel sentire l'acqua del mare che, nel mio camminare incerto verso il largo, piano piano arrivava a bagnarmi prima le gambe, poi le cosce, la pancia e poi basta perché mi fermavo, era tale da riuscire a ricordarlo ancora adesso.
Poi decisi, da sola, di imparare a nuotare. Ci riuscii, certo, e velocemente; macinavo vasche su vasche, sempre però con la consapevolezza che non avevo imparato a non aver paura. Ancora adesso sogno spesso di essere in un luogo chiuso, dove un po' alla volta l'acqua, e sempre di acqua di mare si tratta, comincia a salire.
Due settimane fa, ed ecco il pretesto, stavo scendendo in Puglia in treno. Ero all'altezza di Pescara e guardando fuori dal finestrino mi sono accorta che vedevo l'acqua dell'Adriatico senza che ci fosse nulla tra di essa e il treno: ero seduta nel lato del corridoio, quindi non potevo sporgermi più di tanto, a meno di schiacciare il ciarliero sconosciuto che mi stava vicino. Fatto sta, mi trovavo in una posizione per la quale guardavo fuori e vedevo subito acqua. Mare. Ed è sempre puro sgomento ciò che quell'azzurro mi instilla, mentre io ci provo a contenerlo tutto in uno sguardo.
Il giorno dopo ero seduta su uno scoglio, ipnotizzata e quasi (ancora) spaventata dal rumore, questa volta, il rumore delle onde che, benché calme, sbattevano sugli altri scogli attorno. Era (ancora) sgomento al pensiero della noia apparente di sere eterne cadenzate da quel battito costante, al pensiero della solitudine soverchiante di tutto quel mare inafferrabile, al pensiero di quelle onde che sanno solo cancellare le orme, testimoni di un passato labile che verrà dimenticato.

Gabbiani.

domenica 4 agosto 2013

Private (6)

Padova - cinque minuti -

Lucida qual raso minutissimo
scese a noi la sera. Indi fu notte.

Quanti temporali regolari:
l'orologio, sulla piazza, guarda assente,
forse ignaro di quel dramma che ci lega.

lunedì 22 luglio 2013

Lo scaffale del pianto

Ci sono luoghi nei quali non si dovrebbe piangere, a meno di essere dei bambini ai quali il genitore di turno stia dicendo di no. Si tratta dei negozi di giocattoli. Grandi o piccoli che siano, generalmente riconducono le persone (adulte) che vi entrano a uno stadio preadolescenziale di meraviglia e svagato smarrimento, ed è quindi estremamente improbabile che una persona diciamo dell'età superiore al paio di lustri o poco più si lasci andare al pianto.
Una decina di giorni fa ho accompagnato Lamarta in un negozio, per l'appunto, di giocattoli. Forse il termine negozio è riduttivo, perché scaffali e corsie erano sufficientemente numerosi magari non per perdersi, ma sicuramente perché il tempo cominciasse a scorrere nei soliti verso e direzione, ma con un modulo improvvisamente aumentato. Per nostra fortuna potevamo muoverci con totale calma, di clienti c'eravamo quasi solo noi e quei pochi altri che c'erano non avevano certo la frenesia che potranno avere tra pochi mesi, in prossimità del Natale.
Stavo quindi gironzolando tra peluche e puzzle, tra bambolotti, secchielli e palette, e lo stavo aspettando, perché da molti anni mi accompagna, non saprei davvero dire con precisione da quanti, dal momento che non ricordo che età avessi quando mia nonna, la mamma di mio papà, mi raccontò quel ricordo: di lei e di mio papà, neonato o poco più, a cavallo della fine della seconda guerra mondiale (parole che a scriverle, oggi, a meno che non si stia facendo un tema di storia, suonano irreali, per lo meno a me), lui che piange perché non riesce a bere il latte, e lei che non ha lo zucchero per renderglielo più appetibile. Lo aspettavo, il ricordo, che silente ma puntuale è arrivato; e così, tra i libretti di filastrocche e i vestiti da principessa, altrettanto silente ho pianto.

lunedì 15 luglio 2013

Ma alla fine, cosa fa, l'abito del monaco?

Qualche giorno fa ho assistito a una scenetta che mi piacerebbe immensamente commentare, ma confesso che fatico a trovare le parole che credo di stare cercando, e penso che il motivo sia dovuto al fatto che la scenetta stessa si commenta da sé.

Personaggi principali:
- cliente A: un uomo sui quarantacinque anni, dalla fisionomia compatibile con quella di un personaggio preso da una puntata dell'ispettore Derrick. Forse ora dovrei specificare se mi sto riferendo a un personaggio positivo o negativo, se a un assassino o a una povera vittima, ma non lo farò, dal momento che tutti coloro che comparivano in quel telefilm, senza possibilità di eccezione, mi apparivano come profondamente disturbati. Ma si stava parlando del cliente A: pantaloni lunghi neri, camicia grigia un po' aperta davanti, capelli biondi lisci con la riga in parte, atteggiamento di chi sta controllando tutto quello che gli succede attorno. Un po' inquietante, ma io sono paranoica;
- cassiera: tra le varie categorie di cassiere che ho incontrato (indolente, materna, superefficiente, ciarliera, ...), questa appartiene alla classe delle non ostentatamente gentili.
Personaggi secondari:
- cliente B: ragazzo biondo tra i ventidue e i venticinque anni stimati, abbigliamento moderatamente finto trasandato, accompagna il cliente A. Non sembra esserne il figlio né un amico. Apparentemente un bel tipo. Non dice una parola. Contribuisce involontariamente a rendere il cliente A vagamente irritante;
- io, in coda, subito dietro ad A e B, nonché testimone involontaria di quanto segue.

Cliente A, seccato, mostrando alla cassiera uno di quei mega barattoli di gomme americane: "Non capisco il prezzo: c'è scritto XX euro, ma anche il prodotto vicino costa XX euro, ed è in offerta. Secondo me c'è un errore".
Cassiera, si alza, va verso l'espositore seguita dal cliente A: "Sì, è sbagliato, questo costa YY euro (con YY > XX, n.d.a.), hanno sbagliato a mettere il cartellino".
Cliente A, seccato: "Eh ma nomedelsupermercato lo fa spesso questo giochino, mi sembra".
Cassiera, accomodante: "Guardi, sì, è un errore, c'è il cartellino sbagliato..."
Cliente A, seccato: "Sì, ma non è solo qui, è in tutti gli espositori con questo prodotto".
Cassiera, conciliante: "Faccio subito presente la cosa al mio collega".
Va dal collega, gli parla, il collega annuisce. Intanto il cliente A, seccato, parlando un po' verso il nulla e un po' verso il ragazzo biondo - cliente B, che non gli risponde: "E' già la terza volta che succede. Guarda là, e lui (il collega, n.d.a.) fa orecchie da mercante, tsk".
Cassiera, di ritorno: "C'era stato un errore, sì".
Cliente A, seccato: "Sì, ma mi sembra che lo facciate spesso, eh! Uno non capisce, quanto costa questa cosa?, costa tanto o costa poco?".
Cassiera: "Vuole una borsetta?".
Cliente A, improvvisamente sorridente e paterno (e io sento un brivido): "Non sto mica dicendo a te, eh, per carità. E' che io sono un prete e non sono abituato a imbrogliare la gente".

Ecco, ora dovrei fare l'elenco di tutte le divinità celesti e ctonie che hanno contribuito a trattenermi. Quanti secoli ho a disposizione? Troppo pochi, rinuncio all'elenco.

domenica 7 luglio 2013

Postulati mentali e dimostrazioni cardiache

Ancora prima di procedere con la rigorosa e dovuta dimostrazione matematica, un giorno, in aula, il mio professore di Analisi se ne uscì con una frase che tradiva tutta la fiducia che riversava nelle nostre doti di lungimiranza (o forse tradiva solo il modo sottile con cui ci prendeva in giro, chissà), e che suonava pressappoco come: ...ma nel segreto del vostro cuore voi lo sapete già che questa funzione converge a un valore finito. Insomma, ci sono delle idee le quali, a prescindere che vengano dimostrate o meno, una persona dovrebbe sentire come vere, se poi si riesce pure a dimostrarle, beh, tanto meglio. E insomma, io lo so benissimo, senza neanche dover scendere giù giù giù fino ai meandri più segreti del mio cuore, che Lombroso in fondo si sbagliava, e che non si può giudicare un libro dalla copertina, e che il brutto anatroccolo vedi un po' cosa non è diventato alla fine, eppure...
Tutto questo per dire che stasera stavo ripensando a un episodio avvenuto pochi mesi fa: una sera, arrivando a casa, detti un'occhiata per vedere se c'era qualcosa nella cassetta della posta. Qualcosa, ahimè, c'era: trattavasi di un volantino elettorale bello patinato, con stampato il faccione di un candidato a quelle che sarebbero state le prossime elezioni amministrative. Un faccione davvero brutto, devo dire, tant'è che nonostante tirasse un vento gelido e cominciasse già a cadere qualche goccia di pioggia, rimasi incantata alcuni secondi a fissare la foto. Sì, quella del faccione.
Càpita che mi venga voglia di scorrere i volti delle persone per cercarne qualcuno di bello, non mi interessa se giovane o vecchio, se uomo o donna, semplicemente ho voglia di cogliere qualcuno di bello. Talvolta lo faccio volontariamente, per esempio in stazione, gente che scende e sale sul treno, e io seduta comodamente (mi si conceda l'avverbio) vicino al finestrino che posso osservare l'improvvisata sfilata. In altri casi la cosa è involontaria, mi sento in astinenza estetica e mi metto a guardare e a cercare. Se mai fosse capitato che nel raggio del visibile avessi trovato la faccia del candidato che si era lasciato ritrarre (perché io sono sicura, nel segreto del mio cuore, sì, sempre lì dove la funzione convergeva a un valore finito, che lui non avrebbe voluto farlo, ma la cosa gli era stata imposta, è evidente che doveva essere andata così) nei volantini che mi erano stati infilati nella cassetta della posta, devo riconoscere che avrei girato altrove il mio sguardo contrariato. E non solo per evidente deficienza estetica, ma anche perché quella faccia comunicava in modo inequivocabile tantissima stupidità latente e forse, va' a saperlo, anche effettiva. E allora mi sono un po' arrabbiata con me stessa, perché non significava questo che in fondo mi stavo facendo inghiottire anche io (e se invece fosse già successo?) da quei sottili meccanismi i quali ci inducono a scegliere le persone in base alla loro avvenenza, anche in situazioni in cui l'armonia e la grazia esteriori non dovrebbero essere prese in considerazione? Ma poi mi sono consolata pensando a una massima di mio padre, secondo cui quando un soggetto sembra un ebete, beh, nella stragrande maggioranza dei casi significa che lo è.

lunedì 24 giugno 2013

Destini poco ordinari

Quando capitava uno di quei giorni in cui si svegliava di buon umore, glielo si leggeva in faccia. Silvia quella mattina si era svegliata di buon umore. Quale ne fosse il motivo, questo in verità lo ignorava, ma non si impegnava di certo nel tentare di scoprirlo, si prendeva come veniva, cercando di non farsi influenzare troppo dal mondo, di fronte al quale aveva deciso di erigere una rassicurante barriera di fumo.
Quello stesso buon umore che l'aveva accompagnata già dal momento di scendere dal letto l'aveva poi seguita nel prepararsi la colazione, nello scegliere che abito infilarsi, cosa che in altri giorni riteneva del tutto irrilevante, visto che di lì a poco avrebbe indossato un'anonima divisa, e poi ancora aveva continuato a tenerle compagnia nel tragitto verso il lavoro e nel fermarsi dal tabaccaio per le sigarette.
Silvia è una commessa in un grande ipermercato. Come prima cosa quella mattina, come del resto in molte altre, si sarebbe diretta al banco frigo a fare una cernita tra le confezioni più o meno vicine alla data di scadenza. La grande catena presso cui lavorava si faceva vanto di eliminare i prodotti ben prima che potessero essere considerati scaduti. Personalmente la considerava una cosa sciocca, ma non voleva pensarci troppo. Il velo di fumo che aveva deciso di porre tra sé e il mondo la separava diligentemente anche da questo problema, ammesso che di problema si trattasse.

Così eccola lì, che toglie e sposta barattoli, brick, bottiglie e scatolette. Fino a che, mentre crede di stare pensando a quale libro passare a pendere in biblioteca di lì a qualche ora, si accorge che il barattolo di yogurt che sta eliminando scade il giorno del compleanno di sua madre. La prende un brevissimo stupore preoccupato, non si era resa conto che mancasse così poco, tant'è che non aveva ancora nemmeno lontanamente cominciato a pensare a cosa regalarle. Eppure... Eppure no, non diciamo sciocchezze, al compleanno di sua madre mancano ancora parecchi giorni! E allora perché sta buttando via questo barattolo, se la scadenza effettiva è così in là? Perché deve, tutto qui. Ordini dall'alto, regole comuni, decisioni da conoscere ed eseguire.
Il compleanno di sua madre. Lo yogurt. Scadrà. Sua madre.
Sua madre è la persona che le ha insegnato che fino a che il tappo non si gonfia, lo yogurt è ancora buono, non si butta. Quindi non si potrebbe, ma se lo infila in tasca. Uno solo, ovviamente, non ha spazio per tutti, ma in fondo non le interessa mica portarsi via tutto ciò che sta scioccamente buttando via, non vuole essere paladina di nulla, non lo è né è destinata a esserlo. Solo uno.
Se lo infila in tasca. Se lo porta a casa. E lì lo tiene. E ogni giorno lo guarda, vede il tappo gonfiarsi impercettibilmente di mattina in mattina, o almeno crede di riuscire ad accorgersi delle infinitesime differenze, ogni giorno pensando al compleanno di sua madre, ai consigli di lei, ai batteri che stanno morendo dentro a quel ridicolo vasetto che chissà quanti chilometri e quante mani avrà conosciuto prima di arrivare nel frigorifero di lei, dove non sta compiendo quello che avrebbe dovuto essere il suo destino, ciò per cui era predestinato. Forse.
Forse in realtà non avrebbe mai voluto venire aperto da mani distratte, leccato nel coperchio da lingue ruvide e appiccicose, ferito da cucchiaini freddi e indifferenti, impastato da frullatori impazziti, aggredito da succhi gastrici impietosi. Forse il suo destino era proprio quello di scadere così, senza scopo, nel frigorifero di lei.
Silvia lo tiene con sé, e pensa a tutte queste cose.

Poi un giorno lo butterà.
(Aveva cominciato a puzzare).

lunedì 10 giugno 2013

Tracce

A beneficio di coloro ai quali non risultino gradite le cose malinconiche: questo post credo prenderà una deriva di quel tipo. Ci penso da alcuni giorni, da venerdì sera, per la precisione, e il sottofondo emotivo del mio rimuginare è di una malinconia azzurra, quindi è questo il terreno in cui mi muoverò.
Si tratta di un post dedicato a Zorro, che ho visto venerdì, dopo tanto tempo, assieme al Capitano e al Senatore. Forse il tempo trascorso dall'ultima volta che ci eravamo trovati non era poi così tanto, eppure mentre era lì, nonostante le risate pressoché ininterrotte, pensavo che avevo nostalgia di quando a presto significava per lo più a domani. Tuttavia non ero consapevole di stare davvero pensandoci, a questa nostalgia. La presa di coscienza effettiva è arrivata dopo, nel salire in auto con Zorro il quale, al solito, si era offerto di accompagnarmi in stazione. Sì, al solito, come tutte le volte in cui ci si era attardati a bere un aperitivo e se qualcuno non mi avesse offerto un passaggio avrei poi perso il treno, o come tutte le volte in cui ci si trovava a cena dopo il lavoro e che senso ha andare tutti in centro in auto?, facciamo una macchina sola che siamo più comodi. Al solito, nel salire nella sua auto, avevo imparato a riconoscerne l'odore, quel misto di sedili e profumatore che in certe automobili mi fa venire la nausea ancor prima di chiudere la portiera, ma in certe altre no.
Era da parecchio che non lo sentivo ed è stato, per usare un'immagine talmente abusata che presto comincerò a trovarla fastidiosa, come inzuppare un biscotto proustiano nel tè, quel profumo m'aveva invaso, isolato (...), m'aveva reso indifferenti le vicissitudini della vita, o, più semplicemente, mi aveva bloccato in un istante, a metà strada tra i ricordi delle volte passate e la previsione che forse non sarebbe più successo, nel desiderio folle di cristallizzare, fermare, bloccare tutto nell'istante perfetto, quello dell'impressione, impressione della completezza, della consapevolezza.
Ogni Zorro che si rispetti lascia il proprio segno.

martedì 4 giugno 2013

Banquo è sepolto

LaPeggiore è una di quelle persone che hanno il Potere, o che comunque sono supposte averlo, o per lo meno io sono persuasa che quelli che appartengono a categorie professionali che cominciano per ps- abbiano il Potere, poi loro giureranno e spergiureranno che non è vero, o magari riconosceranno che in effetti hanno affinato una certa capacità di leggere nel non-scritto ma pensato, nel non-detto ma lasciato trapelare da un movimento che non si sarebbe dovuto fare e insomma tutte cose del genere, alle quali io di mio vorrei non credere, salvo poi accorgermi che è vero che quando sono in difficoltà tendo ad arruffarmi i capelli con maggior frequenza e quindi maledizione esiste un esperanto non verbale anche se non lo conosco. Ma ci sono altri individui, i detentori del Potere, per l'appunto, che lo conoscono, eccome se lo conoscono.
Mi diceva, LaPeggiore, protetta da un bicchiere di merlot, che è evidente che ci sono cose che non ho fatto o che tendo a non fare (ovviamente non mi ha semplificato la questione spiegandomi a quali cose stesse riferendosi), ma che sarebbe opportuno che invece cambiassi linea di comportamento. I termini adoperati non erano propriamente questi, è solo per riassumere. E io pensavo al what's done cannot be undone, chiedendomi se vale anche che ciò che non si è compiuto non può essere fatto, a come sarebbe finita Lady Macbeth e a tutto il resto.
Ma è solo per riassumere.

domenica 19 maggio 2013

Ermete, o delle ombre

Si chiamerebbe Ermete.
Non Ismaele, né Toby, e nemmeno Pietro.
Si chiamerebbe Ermete se esistesse, e se esistesse sarebbe un cane, di media grandezza, il garrese le arriverebbe poco più in alto del ginocchio. Si porterebbero fuori a passeggiare e lui le farebbe la guardia, ma non nel senso di fare in modo che nessuno si avvicini a lei o alla loro casa. Farebbe la guardia perché ringhierebbe ogniqualvolta vedesse lei avvicinarsi a qualcosa. Ermete di Shalott.
E portandosi fuori a camminare, il mattino presto o poco prima del tramonto, lei non avrebbe motivi di preoccupazione, circondata dalla sola compagnia del cane, dell'ombra di lui, e infine della propria, di ombra, quella che lei amava osservare, così alta, sinuosa e assurdamente magra, con quelle mani che, ad aprirle, mostravano dita affusolate e lunghe.
Sarebbe Ermete a riconoscere in lei l'odore della paura tutte le volte in cui il dolore, quello fisico, tornasse di notte a farle silente visita, e le si avvicinerebbe giusto qualche istante prima che lei si prenda la mano nella mano, fingendo a se stessa che una delle due sia del padre, o della madre, o di Morfeo.
Il problema, tuttavia, non sta nella non esistenza di Ermete, ma piuttosto in quella di lei.

mercoledì 15 maggio 2013

Porte scorrevoli

Si sentiva così imperdonabilmente responsabile per quello che gli era successo, e come se non bastasse era convinta che anche lui la ritenesse in qualche imponderabile modo colpevole dell'evento. Se non fosse stata lei a insistere per quel caffè al bar (Veloce, lo so che hai fretta e il viaggio è lungo, ma almeno ci salutiamo con calma, e il bar è di strada verso il parcheggio, due minuti, per favore), lui sarebbe senz'altro partito prima, un po' prima, un intervallo di tempo forse irrilevante dentro una vita intera, ma fondamentale per non fare in modo che poi lui si venisse a trovare in quel punto dell'autostrada in quel preciso momento in cui una station wagon grigia decideva di sbandare e andargli addosso, facendolo finire malamente contro il guard rail. Nell'impatto si era rotto tibia e perone sinistri, aveva sfasciato un'auto non ancora completamente pagata e non era riuscito a raggiungere l'aeroporto per quel viaggio che avrebbe dovuto intraprendere e che aveva prenotato dopo tante riflessioni fatte assieme.
Sapevano, entrambi, che senza quel caffè lui sarebbe partito certamente prima, e non avrebbe mai incontrato la station wagon grigia.
Ciò che purtroppo non sapevano era che lui, senza quel caffè, si sarebbe trovato a sorpassare un furgone insolitamente lento, ma che durante quel sorpasso si sarebbe accorto che una vespa (sfecsofobia, gli aveva detto il medico?) stava tranquillamente camminando sulla sua cravatta mezzo slacciata. Non sapevano, purtroppo, che avrebbe avuto la solita patologica reazione che aveva sempre avuto in presenza di quegli insetti, non sapevano che avrebbe convulsamente slacciato definitivamente la cravatta per gettarla il più lontano possibile, e che nel far questo avrebbe tolto entrambe le mani dal volante e gli occhi dalla strada. Non sapevano che nell'universo sghembo dove loro due non avevano preso il caffè assieme lui sarebbe morto per un incidente stradale ben più grave di quello avvenuto a causa della station wagon grigia.
Non lo sapevano e non l'avrebbero mai saputo. E lei si sarebbe tenuta i propri immotivati sensi di colpa.

venerdì 10 maggio 2013

L'iperKubrick

Ci si procuri un interlocutore a caso, si inizi una conversazione altrettanto casuale e con abili strategie la si diriga verso un argomento a scelta tra musica, cinema, letteratura, arti grafiche e così via.
Arrivati a questo punto si nomini un esponente dell'arte scelta, e non un esponente a caso, ma un esponente famoso e difficile. Famoso, altrimenti l'esperimento non può nemmeno cominciare. Difficile, perché sarà questo il cuore della prova che si sta effettuando, la quale consiste nella classificazione dei tipi di giudizio che potranno venire espressi dalla nostra cavia. Si vedrà infatti che una catalogazione di tali tipi di giudizio può essere portata a termine con sufficiente dovizia utilizzando un numero relativamente ridotto di classi. In particolare, abbozzerei un'iniziale schematizzazione in quattro categorie. Sull'asse x si metta il livello di gradimento (due classi: positivo, negativo), e sull'asse y l'autenticità e la consapevolezza con la quale si esprime quel livello di gradimento (due classi: vere, finte). Dalle possibili combinazioni è banale ottenere una classificazione bidimensionale in quattro gruppi.
Facciamo un esempio: si prenda Kubrick. Oppure Bernhard.
Classe 1: piace, falsamente. Classico caso di coloro che o non hanno mai visto un film del primo o letto un libro del secondo, ma ci tengono ad avere gusti ricercati. È anche il caso di coloro che, benché nel segreto del loro cuore nutrano una sincera avversione per quella lunga agonia di incomprensione rappresentata da ogni, per quanto breve, successione di fotogrammi o di pagine, si atteggiano a fini estimatori di un artista osannato da tutti gli intellettuali bene (perché esistono anche gli intellettuali non-bene). In questo caso gli elogi saranno sperticati e iperbolici. Geniale e divino, giusto per fare un paio di esempi.
Classe 2: non piace, senza consapevolezza. Si afferma che Kubrick non piace perché ci si dichiara orgogliosamente ignoranti e/o pop e non si capisce l'arte moderna. Similmente, Bernhard non piacerà perché come si possono leggere lunghi monologhi dove spesso i flussi di coscienza e le ripetizioni la fanno da padroni?, che noia. Un po' il soggetto se ne vanta, perché così ha la possibilità di darsi arie da persona che non si dà arie da intellettualoide. L'aver o il non aver visto (letto) qualche film (libro) del suddetto autore è condizione non necessaria, anzi, completamente ininfluente.
In genere gli appartenenti alle due classi citate passano con disinvoltura dall'una all'altra in base all'idea che si son fatti delle persone con le quali stanno parlando.
Classe 2 bis: non piace, falsamente. Tipico del regista (scrittore) invidioso. Caso molto raro nel complesso dell'umanità, relativamente frequente nell'ambiente degli addetti ai lavori.
Classe 3: piace, veramente e consapevolmente. Classico comportamento dell'esemplare Kubrick (e dell'esemplare Bernhard). Ma non solo.
Classe 4: non piace, veramente e consapevolmente.
Le ultime due classi, benché così diverse, godono della mia totale stima. Per appartenervi è necessario aver visto (letto) una percentuale significativa di film (libri) di K. (di B.). A quanto ammonti la percentuale significativa è un dato ancora da stabilire. Ad ogni modo, coloro che appartengono alle Classi 3 e 4 molto difficilmente cambieranno bandiera, anche qualora si trovassero a parlare con Kubrick (Bernhard) stesso. O con Muccino (Fabio Volo).
Potremmo finirla qui, con due semplici variabili su un piano. Volendo però si potrebbe introdurre una dimensione aggiuntiva, un asse lungo il quale considerare la volontà di argomentare il proprio giudizio. Si otterrebbero pertanto otto classi schematizzabili in un cubo nello spazio tridimensionale.
Per affinare ancora di più la categorizzazione si potrebbe aggiungere un'ulteriore variabile, questa volta sull'asse w, data dalla veemenza con la quale si difende la propria posizione. Ecco ottenuto un ipercubo di lato due, e una suddivisione in sedici classi.
E a colpi di potenze di 2 arrivare a coprire l'intera umanità.
Una classe a sé però va citata: quella degli accentratori. Trattasi di coloro i quali riportano qualsiasi interlocutore nel mezzo del quadrato, cubo, o ipercubo in cui ci si trovi. Sono quei soggetti con i quali qualsiasi discussione mi risulta così demotivante che torno all'origine 0, e non mi si estorcerà mai la minima opinione su alcunché.

domenica 5 maggio 2013

Una e una sola

C'è, nel paese in cui vivevo fino a qualche mese fa, un percorso che ero solita fare spesso: partivo da casa mia e in poco meno di venti minuti arrivavo ai piedi di uno di quei bei colli che tolgono la monotonia a un orizzonte altrimenti fatto di noiosa piattezza. Da lì basta scegliere il sentiero che si vuole prendere, e si può continuare a camminare per ore, a volte senza incrociare anima viva. Ultimamente però trovavo spesso un cane, un bel golden retriever dall'aria affabile, accompagnato da un uomo di età stimata sulla sessantina. Per quella misteriosa legge non scritta secondo la quale se si incontra qualcuno, per quanto sconosciuto, mentre si sta passeggiando per una strada inclinata, montagna o collina che sia, ci si saluta (cosa che invece sul piano non succede), ogni volta ci salutavamo, così ho avuto modo di sentire che la voce di lui era insolitamente grave, e che nel breve arco di un Buongiorno riusciva a trasmettere (a trasmettermi) un rassicurante senso di autorevolezza.
A tutto questo ho avuto modo di pensare perché le volte in cui mi è successo di incontrarlo ero da sola. Ed è sempre l'essere da sola che mi fa ricordare, ogni volta che passo davanti a una certa casa, un episodio successo ormai una decina di anni fa, forse di più: stavo percorrendo proprio quel percorso in compagnia di Lamarta, e nel costeggiare una casa nel cui giardino c'era una voliera, una di noi due fece una battuta che ora non ricordo più, ma della quale ricordo gli esiti. Entrambe cominciammo a ridere di quel riso viscerale che per alcuni minuti sembra togliere il fiato ed essere destinato a non terminare più. Dovrei essere dispiaciuta del fatto che non ricordo cosa fu, a scatenare tante risate, chissà se c'entrava la voliera, la casa, il proprietario... In realtà se anche mi ricordassi ogni singola parola detta, qui, adesso, non ne riderei più allo stesso modo.

lunedì 22 aprile 2013

Ghosts in translation

Un giorno, a spanne qualche milione di anni fa se la memoria non mi tradisce, stavo pensando a come era successo che avessi conosciuto una persona, e andando indietro indietro indietro fino a cercare l'impossibile primo evento che aveva innescato tutti i successivi, mi sono trovata a perdermi in un gioco divertente che poi ho ripetuto per altri avvenimenti, ossia il costruire una serie di grafi orientati di cause ed effetti. Nel caso in cui gli effetti fossero persone per me positivamente importanti, finiva sempre che mi consideravo straordinariamente fortunata, perché, a ben pensarci, quante erano le probabilità che succedesse che cadessi malamente durante quella lezione di educazione fisica in prima superiore? Tante, poche, in senso assoluto, relativo, e relativo a cosa...? Però quante persone ho conosciuto per via di quella caduta?
E allora, via!, si dica che il cadere fu provvidenziale, che altrimenti quanta parte del mio film personale mi sarei persa, quanti incontri?
Verosimilmente nessuno.
Forse mi sarei persa quella parte di film, ma ne avrei sperimentata un'altra, il che è un concetto talmente banale da rasentare l'imbarazzante.
Ma ci pensavo perché non aveva nessun senso che allora mi chiedessi se con me ti fermavi a parlare perché lo volevi e ti faceva piacere, o se non si trattasse solo di educazione. Non era né l'una né l'altra cosa, era mera circostanza, in senso etimologico, ci trovavamo a dover starci attorno per un periodo la cui lunghezza (e la cui esistenza) non era stata scelta da noi, e quindi c'era quel tempo da trascorrere assieme.  Era solo il momento

And indeed there will be time / for the yellow smoke that slides along the street

e allora ho provato a ricordare tutti i fantasmi, tutte le assenze, e non c'è una colpa, nell'assenza, come non c'era un merito nella presenza, era solo questione di momenti e circostanze

There will be time, there will be time / to prepare a face to meet the faces that you meet

e quindi ecco c. che sorride nello storpiarmi il nome in un modo che avrei odiato se l'avesse fatto chiunque altro, oppure m. che scende le scale in quel modo tutto suo, qualcuno avrebbe detto "come un cavallo", io preferivo la valanga; e. che cammina fischiettando per il corridoio, s. che si fa (o fa finta di farsi?) mille problemi per la pizza nel cartone, anche se sa che per me è il modo più bello di mangiarla, l. che parla così sottovoce che devo interpolare lettere sillabe parole espressioni per cercare di ricostruire la frase complessiva, e ancora m. e tutti i suoi pretesti per ridere dei miei capelli. E poi lo so che ci saranno

And indeed there will be time / to wonder, "Do I dare" and, "Do I dare?"

tutti quelli che le circostanze porteranno e stanno portando, nuovi depositari e fonti di ricordi futuri che forse resteranno non condivisi, perché come c., come m. ed e., e ancora come s., l., m. e tutti gli altri, forse sfumeranno.

In a minute there is time / for decisions and revisions which a minute will reverse.

giovedì 11 aprile 2013

La rabbia e il mielestrazio

Oggi Gescher ci ha fatto sapere che ha intenzione di diventare una persona migliore, o una persona buona, non ho capito, non so neanche bene se le due cose si intersechino, se una includa l'altra, se si possa partire dall'assunto che Gescher sta usando migliore come comparativo assoluto a partire da buono, non so nemmeno quale sia la metrica per misurare se una persona è buona o meno, figuriamoci se riesco a stimare b(t)/t, dove b(t) sarebbe la bontà in funzione del tempo, senza contare il fatto che ignoro pure se questi incrementi siano infinitesimi o finiti, e se finiti e tra loro uguali, se ci sia un quanto minimo di miglioramento, se questo sia percepibile e se infine l'incremento possa procedere all'infinito o no. Tant'è, illuminato sulla via per Mestre, moderna Damasco, ora non perde occasione per farci presente che questo è il suo proposito, nonostante tutti si speri che stia scherzando, anche perché in caso contrario la nemesi di chi gli sta attorno potrebbe arrivare veloce e implacabile. Infatti quello scusarsi troppo spesso e quell'essere innaturalmente gentili (e lo dice una persona che una volta si è sentita dire che se avesse continuato a essere così servizievole non avrebbe mai fatto strada, e stavo solo tenendo la porta aperta a una collega, dato che è chiaro che la persona in questione ero io) mi ha fatto venire in mente due cose, o meglio, una cosa e una persona. La cosa è un sostantivo, mielestrazio, che prendo in prestito da Burgess, anzi, dalla traduzione italiana del suo Clockwork Orange, e che non credo richieda commenti. La seconda è una persona che, non a caso, a suo tempo avevo soprannominato pollyanna: si trattava di una cara, carissima ragazza, senza dubbio, uno di quei soggetti ai quali non esiterei a lasciare in custodia le mie chiavi di casa, ma la cui gentilezza costante e perenne aveva su di me effetti estenuanti e francamente irritanti. L'avevo conosciuta un'estate di qualche anno fa, lavoravamo nella stessa gelateria e, come facesse per me rimane un mistero, era sempre gentile con tutti i clienti, cosa che, va da sé, è (dovrebbe essere) richiesta a chi fa un lavoro di quel tipo, ma per come la vedo io la richiesta si esaurisce all'intervallo di tempo in cui il cliente è presente o al massimo è nel raggio dell'udibile. Dopodiché, se il cliente di cui sopra si ostina a chiedere cosa sia quel gusto bianco là in fondo, ignorando non solo l'evidenza secondo cui gli sarebbe sufficiente fare una mezza dozzina di passi per verificare con i propri occhi cosa c'è scritto sull'etichetta davanti alla vasca di gelato, ma anche il fatto che dalla posizione dove è lui, la direzione là in fondo si interseca con limone, banana, yogurt, fiordilatte e cocco, senza contare l'errore di parallasse, beh, in questo caso non appena ci si riesce a liberare del soggetto, è lecito, consigliabile, umano e catartico lasciarsi andare ai sacrosanti insulti. Lei invece no, manteneva il sorriso pollyannesco, e io la trovavo esasperante, ma credo non ci potesse fare nulla perché non faceva finta, era davvero così.
Viceversa Gescher si sta impegnando forzatamente e coscientemente per fare questa triste fine, non rendendosi conto che diventando migliore, o per lo meno migliore come sembra intendere lui la cosa, produce effetti così irritanti nel prossimo da far diventare peggiori gli altri.
Trovo che la cosa sia francamente egoista.

mercoledì 10 aprile 2013

Più carisma e sintomatico mistero

Qualche anno fa mi capitò di essere, in compagnia di una mia amica, a uno sportello di non ricordo bene che esercizio, non erano le poste, non era la banca, era qualcosa di burocratico e avevamo entrambe bisogno di un'informazione. Per pigrizia mia, nell'entrare all'interno dell'edificio che ospitava lo sportello non mi ero tolta gli occhiali da sole, tanto non c'era fila e immaginavo avremmo fatto alla svelta. Successe che la signora alla quale chiedemmo l'informazione rispose con particolare maleducazione, e vabbe', sono cose che capitano e che non dovrebbero nemmeno meritare uno spazio nella mia memoria male organizzata. Invece il motivo per cui ricordo l'episodio è perché quella volta ebbi la prontezza di spirito di rispondere a tono all'arroganza di chi mi stava di fronte tanto che, una volta uscite, la mia amica mi espresse la propria sorpresa e il proprio apprezzamento. Per amor di precisione ricordo che ammisi che tanta sicurezza derivava tristemente dagli occhiali da sole: non era che mi sentissi Paperinik o qualcuno di quel ramo, solo mi sentivo più anonima, e in quanto tale meno associabile a ricordi altrui. E di conseguenza più sicura.
Passeggiare in un paese che non ti conosce ha di questi vantaggi. Non voglio dire che l'occorrenza di girare l'angolo e di trovare qualcuno che mi saluta mi dia noia, anzi, tutt'altro, solo che mi rendo conto che se ho la certezza che questo non può succedere, beh, mi sento più a mio agio, credo sempre per il motivo di cui sopra, ossia che mi sento più anonima, meno riconoscibile, quindi meno giudicabile. 
A mio agio, dicevo. Vero, tranne domenica scorsa: gironzolavo distratta verso il centro, passando attorno alla piazza dove da qualche giorno erano state sistemate una quindicina di giostre. Alla presa di coscienza di tutti i colori, delle canzoni (una diversa per ogni giostra, con inevitabili effetti cacofonici da sovrapposizioni casuali) a volume inutilmente alto, delle pedane degli autoscontri, delle voci dei gestori che, uguali in ogni sagra, invitavano all'ennesimo imperdibile giro emozionante come nessun'altro mai, ho provato un sentimento forte e viscerale di disagio. Nell'accelerare il passo per allontanarmi, mi chiedevo quale ne fosse la causa: la conclusione a mio parere più plausibile a cui sono arrivata è che per le sagre ho sempre avuto l'età sbagliata. Mi spiego meglio: quand'ero piccola e ci andavo con i miei genitori mi sentivo a disagio perché vedevo i ragazzini più grandi (leggasi: insulsi adolescenti che però ai miei occhi sembravano persone adulte, navigate, indipendenti e giudicanti) che ci andavano per conto loro, e al loro confronto mi sentivo troppo piccola. Quando poi, più grande, mi è capitato di andarci non con i miei, ma con amici più o meno coetanei, per un qualche motivo, mi sentivo sempre sbagliata, quello era un posto per bambini, e ben sapendo che non era necessariamente così, io lo vivevo come tale.
La cosa bizzarra è che credo tutto possa dipendere dal rumore, perché se provo a immaginare la stessa situazione, però calata in un silenzio surreale, beh, ho il presentimento che non mi sentirei troppo - qualcosa di cui non ho piena consapevolezza.

domenica 31 marzo 2013

Ad libitum

Alcune circostanze, alcune sensazioni, alcune cose mi piace vivermele fino in fondo, fin che ce n'è, fin che i miei sensi riescono a percepire qualcosa. E mica mi sto riferendo necessariamente a cose alte, macché, va benissimo anche lo yogurt alla fragola, mi piace mangiarlo fino a che riesco a vedere l'ultima righina rosa sul fondo, perché a me lo yogurt piace in modo esagerato, specie quello alla fragola, e quindi procedo con metodica pervicacia a una pulizia in punta di cucchiaino di pareti e fondo del vasetto.
E quando vado a sentire un concerto, anche se siamo d'accordo che non sarà un concerto di Gould e che quindi non posso sperare che l'equivalente dell'URSS del '57 si blocchi in silenzio di fronte all'equivalente di un genio nordamericano, io legherei le mani a tutti quelli che si mettono ad applaudire prima che un brano sia finito, e oltre a legargli le mani metterei loro anche un bel giro di nastro da pacchi sulla bocca, e giusto per un eccesso di previdenza gli metterei anche un cuscino sotto i piedi, sia mai che a qualcuno venga l'idea di rullarli sul pavimento. Tutto questo perché non è che quando il cantante smette di cantare allora via a urla e rumore (la parola "rumore" va letta con profondo disprezzo), perché io voglio sentire fino all'ultimo accordo, fino all'ultima nota, fino all'ultimo fruscio o vibrazione, sennò soffro, soffro come quando il pc si spegne di colpo perché parte la corrente, o come quando vengo svegliata di soprassalto e stavo sognando e non saprò mai come sarebbe andata a finire.
Però se Gould non ha più fatto concerti, allora forse anche nell'URSS del '57 c'era gente che non sapeva godere fin che ce n'è.

giovedì 14 marzo 2013

Eppur stava ferma

Ogni tanto, forse condizionata dal ricordo di quando le memorie di pc, telefonini, hd esterni eccetera erano risicate, mi prende il raptus della pulizia, e mi metto a cancellare anche cose ridicole, quantitativamente (in termini di occupazione di spazio) piccole, ma in fondo il mare è fatto di tante piccole gocce, e Venezia è bella, ma non so se ci vivrei. Errore, errore gravissimo. Non tanto quello di non sapere se vivere a Venezia potrebbe essere nelle mie corde, quanto piuttosto quello di gettare cose tipo brevi mail o sms.
Il mio motto, da oggi in poi, sarà conservare, trattenere, archiviare tutto, creare spazi su spazi di informazioni inutili e noiose, costipare il telefono con messaggi insignificanti ricevuti da persone semisconosciute, la casella di posta con email scialbe mandatemi di rimbalzo per conoscenza. Al contempo ridurre al minimo e allo strettissimamente indispensabile le conversazioni vocali, con o senza interposto telefono. Perché esiste una categoria di persone, i coloro che negheranno fino alla morte anche l'evidenza più schiacciante, che per l'appunto negheranno fino alla morte anche l'evidenza più schiacciante, a meno che questa evidenza non sia un "...veramente me l'avevi scritto tu, vedi?" (segue dimostrazione dell'inconfutabile prova vergata su carta o qualsiasi strumento digitale).
Va detto che a questo punto l'entità negante potrà giocarsi l'ultima carta della disperazione, qualcosa che assomiglierà a un Ma tu non hai capito, io in realtà volevo dire che... In questo caso forse è lecito verificare se davvero il coriaceo interlocutore sia disposto ad arrivare fino alla morte, di negazione in negazione.

mercoledì 6 marzo 2013

L'interpretazione dei rumori

- Mi ascolti, con quello che segue le proverò che esiste una tecnica psicologica la quale rende possibile l'interpretazione dell'interpretazione dei rumori e che, se tale metodo viene seguito, ogni interpretazione di rumore appare come una struttura psichica con un preciso significato, eccetera eccetera.
- Eccetera eccetera?
- Sì, le stavo citando Freud a braccio.
- Sta dicendomi che lei conosce...
- No, guardi, lasci stare, conosco solo l'inizio, ha presente come quelli che buttano là un Quel ramo del lago di Como, o Nel mezzo del cammin di nostra vita, o In the town where I was born lived a man who sailed to sea? Ecco, ne prenda uno a caso e gli chieda di continuare per un altro verso soltanto. Non saprà farlo. Per me è la stessa cosa, conosco solo l'inizio ma fa sempre una certa impressione e la gente si intimorisce.
- ...
- Vede, lei è intimorito di già. Ma lasci che le spieghi. Guardi che può appoggiarsi allo schienale della sedia, non stia così sulle spine, abbiamo tutto il tempo del mondo e nessun impegno o scadenza o bambino da andare a prendere a scuola o che ne so. Lei è single, no? Si rilassi, anche se a casa il letto è ancora sfatto non è cosa che riguardi alcuno all'infuori di lei. Il libro non comincia esattamente in questo modo. Freud non parlava mica dell'interpretazione dei rumori, anzi, per quel che ne so non si è mai interessato della cosa. Lui parlava di sogni, attività onirica, vita infantile che torna a galla, ricordi, incoerenze e annessi e connessi vari. Ma lei ha idea del polverone che avrebbe potuto evitare di tirar su...
- Nel senso che è tutto sbagliato?
- Sbagliato? Che domande, è chiaro che non ne ho la più pallida idea, e che se anche ne avessi una non andrei certo a dirla in giro. Vuole una rotella di liquirizia? Personalmente mi rilassano molto, o meglio, riesco a capire se sono teso o rilassato dal modo con cui decido di mangiarle, srotolandole o meno. Un po' come... Sa cosa mi hanno regalato, a Natale? Un set per il sale e il pepe. Sono due omini di porcellana, uno bianco e uno azzurro, con le braccia aperte come se volessero abbracciare qualcuno. E in effetti sono fatti per essere incastrati assieme, in modo che si abbraccino. Ebbene, a volte nel guardarli mi trovo a pensare inconsciamente a due persone che si amano. A volte penso a due lottatori di sumo. Insomma, li uso come cartina di tornasole per interpretare il mio umore del... Ne prenda un'altra, via, la prima l'ha divorata in due soli morsi, non è certo un segno di distensione. Scommetto che lei è il tipo di persona che... Senta un po', ha dormito stanotte? Ha dormito bene?
- Beh, veramente mi sono svegliato una volta verso le tre, c'è stato un colpo di vento e non...
- Verso le tre. Che ci creda o no, mi sono svegliato anche io poco dopo, ma non è stato un risveglio brusco come quello di cui stava per raccontarmi. Un colpo di vento e l'imposta che sbatte, vero? O i netturbini che passano a raccogliere il vetro alle cinque di mattina, bontà loro, ma dovranno pure lavorare, non crede? No no, il mio è stato qualcosa di molto graduale, soffuso, una sorta di dormiveglia, disturbato da un rumore ritmico che non riuscivo a decifrare, un colpo secco ma attutito, a intervalli regolari di un paio di secondi, una di quelle cose che se succedono di giorno non destano il benché minimo interesse, ma di notte, quando non si è lucidi... Lei ha idea di quante interpretazioni sia riuscito a dargli, benché non fossi completamente in me, anzi, forse proprio perché non ero completamente in me.
La notte è sempre il momento più terribile, non trova? Di notte tutto è mostruoso, e badi che non sono io il primo a dirlo, per quanto un fatto sia insignificante, di notte diventa mostruoso, il fatto più insignificante, più innocente, di notte è mostruoso e non lascia dormire una persona come me, forse neanche una persona come lei, certo, non faccia complimenti, ne prenda pure un'altra, lo so bene, danno dipendenza, ne ho sempre un sacchetto di riserva. Banali onde meccaniche, una sorgente, un mezzo e un paio di timpani (ma anche uno solo, nel caso), purché connessi in qualche modo a un cervello elaborante.   Qual è un rumore che le piace? E non mi parli di suoni, musica o banalità del genere. Un rumore.
- Un... Beh, non saprei, mi viene in mente la voce di...
- No no no, niente persone. Rumore, ru-mo-re. Le piacciono le moto? Mio cognato le riconosce dal rumore del motore. L'acqua che sta per bollire prima di buttare la pasta? Non voglio canti o voci o cose del genere. Le concedo addirittura di tirare in ballo il rumore della pioggia, anche se personalmente lo giudico un po' corrivo, non so se mi spie...
- Le forchette degli altri.
- Prego?
- Le forchette, la domenica, con le finestre aperte. Sa quando ci si trova in piazza la mattina, si fa tardi e si torna a casa che è già ora di pranzo inoltrata, e dalle finestre aperte si sentono le posate picchiettare sui piatti? Starei ore ad ascoltarle. Mi siederei sotto le finestre delle case altrui. A volte c'è qualche televisione accesa che disturba, ma la forchetta ha la meglio e sovrasta qualsiasi telegiornale o pubblicità. Non mi interessa sapere o vedere cosa succede oltre le pareti, mi basta sentire le posate. Sanno di buono.
- Capisco. E lei capisce quindi perché non mi interesso di sogni?

lunedì 25 febbraio 2013

Sono intorno a noi

Lo scorso venerdì pomeriggio, osservando due persone tra loro e a me estranee che per chissà quale casualità si trovavano all'interno del mio raggio del visibile, ho formulato una mia personale teoria, secondo la quale i matti si possono riconoscere da una caratteristica: sono spettinati. Non si tratterebbe, chiaramente di una condicio sine qua non, e non potrei neanche sbilanciarmi a credere che solo i matti siano spettinati, però c'è un certo modo di portare in giro i propri capelli che considero essere caratteristico. Caratteristico di chi, sono passata a chiedermi? Esiste ancora la categoria "matti"? Ah, non ne ho davvero idea, forse il mio subconscio pensa a quell'idea un po' romantica, molto malinconica della descrizione che ne fa De Gregori, e ogni volta che arriva a cantare ...i matti non hanno un cuore, o se ce l'hanno è sprecato, è una caverna tutta nera, ogni volta, dicevo, devo fermarmi a ripetermi per conto mio i tre versi e l'immagine che li accompagna. Ad ogni modo, si parlava di capelli e del modo di portarli, quel modo che non è uno spettinato per sbaglio, o uno spettinato ad arte, o dovuto al fatto che ci si è appena tolti il berretto entrando in casa, o le cuffie dopo una telefonata via skype (e arrivata davanti allo specchio del bagno mi accorgo che ho un ciuffo di capelli che, impigliatosi chissà come nella plastica delle cuffie, si era evidentemente trovato a proprio agio in una improbabile posizione fuori dal coro, bello dritto e sparato in alto, e per quanto sia breve la strada dal mio ufficio al bagno, ovviamente avevo avuto modo di incrociare due persone), ma è proprio un arruffato, uno scomposto, un trasandato che si è accumulato nel tempo. Poi sabato, ero in treno, mi accorgo che il ragazzo che ho seduto a fianco (e a fianco del quale ero stata io a sedermi, con la noncuranza che mi accompagna sempre nel mio muovermi tra la gente, noncuranza da non ascriversi a spontaneità e disinvoltura, ma piuttosto a distrazione cronica) è spettinato in quel modo, viaggia con un bassotto in braccio e sta tenendo il posto a un'altra persona, che arriva facendosi strada tra valigie e persone, e urlando insulti contro uno zingaro che, a suo dire, nel salire sul vagone l'avrebbe ripetutamente spinta. Vero che fosse o meno, la ragazza in questione, una giunonica biondona dal cipiglio volitivo, stava raccogliendo sguardi di muta approvazione da parte degli astanti. I capelli di lei erano in ordine, i suoi modi di fare un po' meno, ma l'aggressione verbale allo zingaro (Vengono qui a fare i prepotenti! Ghe do fogo! (Trad: Gli do fuoco!, n.d.a.)) riscuote sempre e comunque un certo successo e parecchia solidarietà.
Osservandoli poi da vicino per un pezzo di viaggio (fino a che il controllore non li ha fatti scendere perché nessuno dei due aveva uno straccio di biglietto, e questa cosa del viaggio clandestino ha poi raccolto un nutrito numero di sguardi di disapprovazione accompagnati da scrolli vari di spalle da parte di quegli stessi che prima si erano mostrati così solidali, ah!, com'è effimero ogni cameratismo...) ho avuto modo di confermare la prima impressione secondo la quale a entrambi doveva mancare una qualche forma di equilibrio. Stavo cercando dei tratti comuni ma poi, ripeto, il controllore li ha fatti scendere.
E stasera, inaspettatamente, aprendo i giornali e dando un'occhiata ai primi risultati delle votazioni svoltesi tra ieri e stamattina, mi trovo a dover cercare un tratto comune non tra due singoli individui, ma tra milioni. Milioni...!

venerdì 15 febbraio 2013

I went to the doctor n'guess what he told me

Che strana coincidenza, cominciare stasera a frequentare la palestra qui a Udine.
Still nothing compares.

lunedì 11 febbraio 2013

L'arpa d'or

Ieri era domenica, e dato che da un qualche settimana a questa parte mi trovo a vivere in una città nuova che ancora non conosco, complice il sole e il come riempio la domenica pomeriggio qui da sola in un modo che non sia leggere un libro o guardarmi un film sennò ora di stasera non ho sonno e chi dorme più stanotte?, sono andata a fare due passi in centro. Fortunatamente l'appartamento in cui abito è a venti minuti abbondanti, a piedi, dal centro della città, quindi i due passi in realtà presuppongono un certo lasso di tempo, con mia sincera soddisfazione.
La città in realtà non è molto grande, per cui cerco di non vedere e visitare tutto subito, così da non bruciarmi le cose interessanti al primo colpo. Stavo quindi camminando in modo abbastanza svagato, cosa per la quale dimostro sempre una certa predisposizione innata, e ogni tanto arrivava una qualche canzoncina dagli altoparlanti sistemati per il carnevale dei bambini.
Avrebbe potuto essere peggio. Avrebbe potuto essere un concerto di gigidalessio in trasferta in Friuli. Invece erano solo canzoncine per bambini. Cionondimeno ho preferito allontanarmi prendendo una strada che si scostasse un po' dalla piazza, e camminando sempre con passo distratto ho cominciato a rendermi conto di un altro genere di musica che si faceva via via più evidente. Finalmente dopo poco l'ho vista, l'origine: un ragazzo seduto sotto i portici che suonava l'arpa. L'arpa. Non la solita fisarmonica o la chitarra o il piffero o... L'arpa.
Poche volte mi è capitato di dovermi fermare ad ascoltare: una volta a Londra, in metropolitana, un ragazzo che suonava la chitarra in modo tanto magnetico quanto il modo che aveva di cantare. Un'altra volta a Venezia, due ragazzi, violino e violoncello. Ma questo qui con l'arpa era un'altra storia. Ovviamente struggente come poche cose che io conosca, l'Adagio di Albinoni, con rispetto parlando, credo non avrebbe retto il confronto. L'unico paragone che son riuscita a fare è stato quello con i ragazzi che suonano nel Barrio Gotico di Barcellona; sarà che la situazione era abbastanza analoga, anche in quel caso stavo gironzolando senza una meta precisa per le vie, incurante di non avere la perfetta cognizione di dove mi trovassi, senza un orario o un appuntamento da rispettare. Senza qualcuno.

mercoledì 6 febbraio 2013

Adelante, with care


Non sempre il metterci tempo a prendere sonno mi dà fastidio. In certi periodi, infatti, mi piace indugiare in pensieri fissi. Potrei usare il singolare, e dire che mi piace indugiare in un pensiero fisso. Non perché sia sempre e solo uno da anni, piuttosto perché ogni tanto c’è un, come definirlo?, forse sogno?, non è un termine che mi ispiri particolare simpatia, ma non mi viene di meglio. Una buona approssimazione potrebbe essere desiderio apparentemente irrealizzabile, però se impegno sforzi extra potrei anche (per brevità daipsisepa, che come suono fa francamente schifo, quindi opterei per una abbreviazione random tipo dipse). Bene, allora, ogni tanto c’è un dipse che mi tiene occupata la mente e mi fa in qualche modo da verso dove. E meno male, verrebbe da dire, in fondo chi non ha lo scopo del momento? Da improvvise smanie salutistico-ginniche che tanto l’estate è ancora sufficientemente lontana e se mi ci metto adesso vedrai ora di giugno, al riorganizzarsi la vita per potersi prendere un cane, al voler conquistare una persona, a un viaggio, al pensare di eliminare fisicamente il vicino che accende la lavatrice alle sei di mattina, anche se forse in quest’ultimo caso sarebbe più raccomandabile eliminargli la lavatrice, dal momento che credo che se si elimina la lavatrice a un vicino di casa sia molto improbabile che questi la rimpiazzi con un forno a microonde, mentre se si elimina il vicino di casa è quantomeno plausibile che colui che verrà dopo di lui abbia altre abitudini. Magari quella di attaccare il trapano il sabato mattina. Ma qui si scivola nell’imponderabile.
Così quasi ogni sera mi ritrovo a pianificare il mio dipse. Che è una cosa estremamente piccola, per qualcuno potrebbe essere addirittura ridicola e talmente banale che in fondo sei sicura che serva pensarci e impegnarcisi così tanto?
Caro Sancho, certo che ne sono sicura. Quindi, per favore, cavalca e fa’ silenzio. 

sabato 19 gennaio 2013

Funghi velenosi

Nella cittadina dove vivo, diciassettemila anime suppergiù in sostanziale equilibrio dinamico, da qualche anno a questa parte si sta verificando un fenomeno alquanto singolare e altrettanto macabro: le imprese di pompe funebri stanno spuntando e crescendo come i funghi. Negli ultimi mesi la cosa è diventata ai miei occhi particolarmente evidente a causa dell'apertura di due delle suddette attività in una zona in cui ce n'erano già tre nel raggio di poche centinaia di metri. Ok, va detto che all'interno di questa zona si trova pure l'ospedale cittadino, ossia l'ingresso fornitori, ma il fatto che queste due new entries abbiano preso il posto di due bar, ossia di quell'esercizio pubblico che dovrebbe richiamare chiacchiere, vita, via-vai, profumo di brioches e caffè, mi ha fatto impressione. E mi sono chiesta se allora il mercato sia davvero così vasto. Allora sono andata a vedermi quanto si muore, qui nella bassa padovana. Magari scopro che adesso morire è cool, chissà. E invece pare di no, quello che trovo è che il numero di decessi, dal 2002 al 2010, è stato via via di 200, 207, 183, 175, 168, 231, 214, 205 e 236 unità. Insomma, alti e bassi, ma niente di eclatante nell'ultimo periodo.
Potrei chiedere al gestore dell'ultima che ha aperto, un apparentemente innocuo vecchino che abitualmente staziona dentro il proprio negozio, mani dietro la schiena, la posa tipica del pensionato che controlli come lavorano gli operai nei cantieri. Solo che lui guarda fuori. Verso il marciapiedi e la strada. Se n'è accorta mia mamma, per prima, divertita dall'atteggiamento di uno che sembra pensare: "Beh, nessuno che entri?". Un paio di giorni dopo sono passata per quella via, e in effetti l'omino era lì, paziente, ad aspettare.

venerdì 18 gennaio 2013

Titolo: questo post è senza titolo

Una sera di alcuni mesi fa stavo andando in stazione in compagnia di Cinque. Nel passare davanti a una libreria mi fece una domanda abbastanza singolare, sicuramente una cosa che non mi aveva mai chiesto nessuno e che dubito qualcun'altro mi chiederà mai: volle sapere se avevo un titolo preferito, un titolo di un libro che considerassi particolarmente poetico, ben riuscito, invitante. Insomma, bello. Il titolo, non la trama o lo stile di narrazione, anzi, se si trattava di un libro che non avevo letto e di cui non conoscevo l'argomento era meglio. E non doveva essere una cosa da improvvisare lì al momento, fammi riflettere un minuto, vediamo se mi viene in mente niente: se mi era capitato di leggere un titolo e di trovarmici affascinata e di rendermene conto, bene, sennò non aveva importanza.
Per la domanda in sé e per come la disse, sono abbastanza persuasa che solo Cinque avrebbe mai potuto pensarla. Anzi, probabilmente un'altra persona all'altezza la conosco, ma non mi spingerei oltre, con l'elenco. La bizzarria è una dote riservata a pochi privilegiati.
Va da sé che il titolo ce l'avevo, è un titolo a cui penso relativamente spesso, e non so perché non mi venga da leggere il libro, forse per paura che la storia non sia altrettanto riuscita. E' La pioggia prima che cada. Sarà il congiuntivo, sarà la pioggia, sarà che non ne ho la più pallida idea, del perché, però mi affascina. Fine. Il titolo di Cinque era purtroppo quello di un libro che avevo già letto, e che mi è piaciuto anche, ma che, in quanto già letto, non rientrava più nelle regole del gioco.
E poi ho pensato che non avrei mai dovuto leggere Se una notte d'inverno un viaggiatore.