martedì 29 aprile 2014

Sai di vento del nord

Nei paesi piccoli, o anche nei quartieri di quelli grandi, capita di vedere, nel loro giardino, o sulla soglia di casa, o sul muretto che divide il marciapiedi da un eventuale praticello o spiazzo o quel che sia, degli anziani seduti, che guardano. A volte da soli, a volte in compagnia, a volte vecchie coppie sposate quando io non ero ancora nata. Per lo più in silenzio, stanno, e guardano. Arriva la bella stagione, le prime giornate tiepide e luminose, loro prendono la loro seggiola, o raggiungono il solito muretto, si siedono, sembra che stiano aspettando qualcuno, in realtà hanno solo finito uno degli impegni quotidiani, magari il pranzo, e si sistemano lì in attesa del prossimo impegno quotidiano, magari la cena. Tanti telamoni e cariatidi in carne e ossa, che non sopportano il peso alcun timpano o struttura fisica, piuttosto il peso di due tempi, passato e a venire.

sabato 26 aprile 2014

Il mio amico George (6)

Ero in compagnia di George. Fortunatamente negli ultimi tempi riusciamo a vederci spesso di persona, cosa che ci permette di intavolare quelle conversazioni che al telefono non sarebbero immaginabili. Come prima cosa, George mi chiese di cambiare il nome (George, per l'appunto) che uso per lui nel blog, dal momento che a suo avviso lo farebbe sembrare una vergognosa via di mezzo tra un infante rampollo reale e il fratello di "quell'orribile maiale in 2D con cui si stanno facendo crescere pletore di marmocchi". Per fargli cambiare opinione provai a toccare diversi tasti, fino a raggiungere quello giusto: la vanità. Gli spiegai che non mi interessava chi e come usasse questo nome, a me faceva venire in mente una persona (e qui mi profusi in un ragguardevole elenco di aggettivi elogianti), quindi non potevo che associarlo a lui.
Accusò il colpo, e dietro un imbarazzo forse neanche tanto finto, finì con l'accettare il nome. E mi propose di berci su qualcosa. Voleva raccontarmi di un nuovo ("...ma neanche tanto nuovo, ormai saranno tre-quattro mesi che gira") acquisto nell'azienda in cui lavora, una tizia "carina eh, credo tra le gambe più belle che mi sia mai capitato di vedere, ma intelligenza sociale non pervenuta, noiosa come le tasse, sai di quelli che quando pare che stiano per cominciare un ragionamento, finisce che poi lasciano le frasi a metà, come se fosse chiaro ciò che avrebbero voluto dire? E non dicono mai nulla. Dio, se odio questo genere di cose...". Insomma, ce l'aveva su perché pochi giorni prima lei gli aveva detto qualcosa del tipo "se ti capita di prendere un caffè, dimmi, che ti faccio compagnia". Ora, è chiaro che voglio molto bene a George, ma sono la prima a riconoscere che a volte con lui bisogna andarci coi piedi di piombo, soprattutto nell'uso delle parole. "Lei pensa di far compagnia a me? Ma ti pare? Fa la stessa compagnia di una radio rotta, di quelle che a sprazzi riescono a sintonizzarsi su qualcosa a caso, per poi riperderlo immediatamente. E non lo sa, non se ne rende conto. Come la invidio, riesci a immaginare come e quanto io la invidi? Sì, lo so che lo immagini benissimo. No, senta, ripensandoci (stava passando la cameriera, che aveva preso le ordinazioni ma non aveva ancora portato nulla), vorrei qualcosa di forte, mi porti un Manhattan, credo sia meglio. Mi dispiace (la cameriera era intanto andata via), sto facendo un discorso da abietto e insensibile, lo so, ma lei non può farmi compagnia". Gli feci notare che la cosa poteva avere dei risvolti inaspettatamente positivi, ma prima che potessi elencarglieli aveva già ripreso il proprio fiume: "Ma sì, hai ragione, ci ho pensato pure io, non è male sapere che si tratta di qualcuno di cui non sentirò mai la mancanza. Infatti pensavo a quanto potrebbe mancarmi la tua, di compagnia. Anche se non ho ancora capito cosa mi mancherebbe".
In quella, grazie al cielo, arrivò il Manhattan, io mi presi la ciliegia e me la mangiai, assieme alle mie ipotesi.

martedì 15 aprile 2014

I cieli non sono umani

Uno dei torti più grande che si possa fare a una persona è il paragonarla a un'altra.
Però lo faccio, inevitabilmente e continuamente, con gli altrettanto inevitabili strascichi di senso di colpa che mi porto dietro come un mantello bagnato. Non devo, non dovrei, sarebbe il caso che imparassi a giudicare in modo assoluto, e non a voler creare impossibili chimere, creature di frankenstein costruite prendendo il senso dell'umorismo di A, il cinismo di B, la capacità di astrarre di C, l'intensità di D, lo svagato surrealismo di E, e quante altre cose ancora da quante altre lettere ancora. È quel riconoscere in qualcuno doti che non sono mutuabili a qualcun altro, che viene immediatamente svalutato, ma in modo ingiusto, colpevole, e il cane si morde la coda, e il cane sono io, che so che non dovrei fare paragoni iniqui, ma non posso farne a meno, è come il cancro del vetro, che corrode da dentro e d'improvviso spacca tutto.
E i cocci sono miei.

giovedì 10 aprile 2014

Deformabile illimitatamente

Liquida. Se dovessi definire come mi sentivo stasera, mentre rincasavo dall'ufficio, sì, mi sentivo liquida. O forse fluida sarebbe fisicamente più corretto, ma mi piace di più il suono liquida.
Un po' come se le gambe non fossero mie, come se il confine tra il me e il non me si fosse fatto labile, sfumato, un acquerello. E anche il mio stato d'animo, così come il mio corpo, pareva evanescente, indeciso sulla modalità su cui fermarsi, disponibile a passare dalla massima tristezza all'estremo opposto.
Potrebbe sembrare anche un compromesso accettabile, una tutto sommato uguale probabilità di stare bene o meno, però non è proprio così. Per fare un paragone, mi vengono in mente la luce e il colore del cielo che ci sono la mattina prestissimo, prima che sorga il sole e prima che l'orizzonte si tinga di rosa. In linea teorica non dovrebbero essere molto dissimili da quelli che si vedono la sera, poco dopo il tramonto. Eppure quelle presunte uguali probabilità di stare passando dalla luce al buio o viceversa, tutto sono, fuorché uguali.

lunedì 7 aprile 2014

Una geniale mediocrità

Quanto è vero il paradosso secondo cui meno una persona sa su un determinato argomento, più lunghe saranno le sue spiegazioni in merito. Però, pensavo, è tutto così semplice? È possibile riportare qualsiasi situazione al meno ne so, più ci metto? Direi di no, e sarei propensa a introdurre un altro paio di variabili: quanto il mio interlocutore crede che io conosca riguardo all'argomento in esame, e quanto io ci tenga a convincerlo o meno del contrario. In generale, tenderei a semplificare la questione in quattro macrocasi, a seconda che io sappia o non sappia una cosa, e a seconda che il mio interlocutore sia persuaso che io la conosca o meno. Procediamo quindi per livelli di difficoltà e di tempo speso.
Caso più facile, so una cosa, il mio interlocutore crede che non la sappia, e a me basteranno due parole chiave, due concetti in croce per fargli capire che so benissimo di cosa stiamo parlando. Tsk.
Caso un po' più difficile, so una cosa e il mio interlocutore lo sa e me la chiede. In questi casi può entrare in gioco una piccola (?) componente di narcisismo: ci tengo proprio a far sapere la mia erudizione in materia? In genere, sciocca e vanesia, sì, ci tengo. Ad ogni modo, risulterà relativamente facile e relativamente veloce convincere il mio interlocutore che conosco davvero la certa cosa di cui si stia parlando o su cui io sia stata interrogata: gliela spiego, magari inciampando in un paio di particolari, magari usando un po' di parole più del necessario, magari incartandomi in esempi che invece di chiarire, complicano, però in qualche modo ne esco, e dimostro che quella cosa la sapevo e la so. Tsk.
Caso ancora un po' più difficile, non so una cosa e il mio interlocutore sa che non la so, ma io vorrei tanto tanto tantissimo farlo convinto del contrario. E allora via a tergiversare, ad arrampicarsi su specchi che non sono specchi, ma specchi che specchiano altri specchi, a cercare di dire e non dire, a fare discorsi vaghi e poco compromettenti. Situazione che abbiamo sperimentato tutti, una quantità di volte che va dal tantissime all'innumerevole.
Caso più difficile in assoluto, non so una cosa, ma il mio interlocutore è convinto del contrario, e io pagherei per fargli capire che no, mi sta sopravvalutando, mi sta attribuendo meriti che non ho. Come fare, da dove partire? Come si può persuadere una persona che una certa qual cosa non la si sa e non la si è mai saputa? In altre parole, se per l'inutile Come va? si risponde da copione con l'inutile Bene grazie e tu?, allora sarà necessario trovare qualcosa di meno sciocco dell' Eppure è così... per ribattere al terribile Come potevi non sapere?

giovedì 3 aprile 2014

Il pozzo di Fernando

Anni fa, parecchi, forse una decina o forse qualcuno in più, Lux mi mandò una frase di un libro che stava leggendo. Condividiamo questa abitudine: quando leggiamo qualcosa che ci emoziona, con qualcuno dobbiamo condividerla. Purtroppo mi rendo conto che la cosa, specie con l'avvento della moda degli aforismi a caso, può assumere sfumature da adolescente che scrive presunte frasi di Jim Morrison sul diario, o da sempliciotto che di Wilde sa solo che ascoltava i Doors e che sapeva resistere a tutto tranne che alle tentazioni. È pur vero che nella vita qualche rischio bisogna correrlo. Tornando alla citazione di Lux, si trattava di una frase che allora mi trapassò come un fulmine: Noi non ci realizziamo mai. Siamo due abissi – un pozzo che fissa il cielo. E talmente forte fu quella secchiata di acqua gelida, e talmente meravigliosa, che pensai che non avrei mai avuto il coraggio di affrontare il libro da cui era stata tratta. Ma il caso volle che si arrivasse a prendere Maometto e la montagna, per sostituirli, rispettivamente, con me e con il suddetto libro. A volte commetto errori madornali e, quel che è peggio, per tempi molto lunghi: ho passavo due terzi della mia vita a non mangiare melograni, perché mi ricordavo che da piccola non mi piacessero, per poi scoprire che ne vado ghiotta. Ho passato un terzo della mia vita a non leggere un libro, perché temevo mi facesse stare male, per poi scoprire che trovare qualcuno che decenni prima di me ha dato una forma elegante e struggente ai pensieri che anche io condivido, ma spettinati come non mai, è una cosa estremamente rassicurante. Perché la difficoltà non sta tanto nell'avere un'idea in testa, chiunque può pensare le cose più straordinarie; la difficoltà sta piuttosto nel fare uscire queste cose straordinarie dalla testa e trasferirle sulla carta, senza trasformarle in totali banalità assurde e pietose.

mercoledì 2 aprile 2014

Il materasso è la felicità?

Anonimo, quello che ogni tanto scrive sui biglietti dei Baci Perugina, un giorno si pensò di dire che il matrimonio sarebbe la tomba dell'amore. Anonimo ne sapeva parecchie, per carità, non sarò certo io a togliere autorevolezza alle sue affermazioni. E quando si parte così, mettendo in qualche modo le mani avanti, ci si deve aspettare che stia per arrivare il Sì, però secondo me. Infatti, secondo me l'affermazione andrebbe riveduta e corretta, dal momento che a me suona come una fuorviante doppia sineddoche. Mi spiego meglio: il termine matrimonio è troppo generico. Cos'è, del matrimonio, che non va? Chiaramente il letto matrimoniale, soprattutto se con materasso pure matrimoniale. Inoltre il complemento dell'amore andrebbe sostituito con di tutto. Ne risulterebbe quindi che il letto matrimoniale è la tomba di tutto. Inutile girarci tanto attorno, su un letto doppio due persone possono fare comodamente mille cose, ma tra queste mille chiaramente non si può includere il dormire. Per lo meno non il dormire simultaneo e pacifico di entrambe. Ci sarà sempre o quella che russa, o quella che scalcia, o quella che tira la coperta, o quella che parla nel sonno, o quella che urla, o quella che riesce a fare tutte queste cose contemporaneamente. Ci sarà poi sempre anche quella che si addormenta di un sonno serafico appena poggia la testa sul cuscino, dando inizio a una placida alternanza di inspirazioni ed espirazioni appena udibili, una serena danza respiratoria che risulta insopportabile a chiunque non riesca a prender sonno prima di aver fatto il censimento di parecchi greggi e armenti.
Fin qui mi sono comunque limitata al terreno delle consapevolezza: uno dei due è sveglio e cosciente del fatto che l'altro sta minando il suo meritato riposo. Esiste tuttavia un terreno ancora più insidioso: quello, va da sé, dell'inconsapevolezza. Poniamo che, dei due soggetti in questione, uno passi la notte a russare, muoversi, occupare frazioni di letto superiori allo 0.5 e via dicendo. Poniamo inoltre che l'altro dei due non venga mai completamente svegliato da questi comportamenti riprovevoli, ma che rimanga in uno stato di sonno disturbato, senza però saperne il perché. La mattina dopo si sveglierà non riposato, magari un po' irritato dalla cosa, ma la questione verrà archiviata con un'alzata di spalle. La prima mattina. Già, perché alla seconda, l'irritazione sarà aumentata, di un infinitesimo, certo, però il trend sarà in crescita, lineare o meno, non ha importanza. Irritabilità, malumore, facile eccitabilità, e in men che non si dica non ci sarà amore o amicizia che tenga. Il letto matrimoniale avrà mietuto un'altra coppia di vittime.
Questo post è stato pensato durante una notte insonne.
Questo post è stato scritto dopo un paio di settimane di convivenza con una persona con sufficienti senso dell'umorismo e conoscenza della mia tendenza a ingigantire.
Quasi nessuna persona è stata maltrattata, per l'ideazione di questo post.