Pensavo, evidentemente sbagliandomi, che fosse un'arte difficile quella di saper stupire il proprio interlocutore. Insomma, via, pare quasi che ci siamo già immaginati tutto l'inimmaginabile, dal tasto destro del mouse, che tanti e tanti problemi risolve quotidianamente, al teletrasporto, passando per draghi e ippogrifi; da cose reali ad altre che magari non esistono, non ancora, però le abbiamo immaginate.
E invece, massimo risultato col minimo sforzo, ho ottenuto l'effetto di stupore e incredulità rispondendo con un semplice e sorridente e convinto bene a un come stai?
Sbigottimento e meraviglia a secchi, quasi che una risposta non possa in alcun modo essere così semplice, e che dietro quel bene si debba necessariamente nascondere qualcos'altro. Ma maledizione, perché ci deve essere sempre il non detto? Mica sto rincorrendo la favola bella come un'Ermione di turno, solo ci sta ogni tanto un periodo di va tutto bene, va proprio tutto bene. Niente di straordinario, solo un bene tranquillo, come l'acqua calda della doccia che cade sulla testa.
A questo proposito Thelma mi chiede di cambiare il titolo del blog. Cosa che, dopo quattro anni e rotti, ci può anche stare.
lunedì 23 febbraio 2015
giovedì 19 febbraio 2015
So how do I do normal
Se fossi un'abile sognatrice, sarei affascinata, la sera, da Venere che fa da unica luce, un puntolino che sembra invitarmi a rotolare verso sud mentre torno verso casa.
E infatti lo sono, affascinata. Ma non mi riesce di sognare, mentre guido: la smart di turno che si infila da tutte le parti, il SUV che non sa bene se sorpassare o meno e intanto mi abbaglia da dietro, me lo impediscono.
E infatti lo sono, affascinata. Ma non mi riesce di sognare, mentre guido: la smart di turno che si infila da tutte le parti, il SUV che non sa bene se sorpassare o meno e intanto mi abbaglia da dietro, me lo impediscono.
lunedì 16 febbraio 2015
Dove si parla del pan di via
Mi scrive, LP, chiedendomi “Mi scriverai di te?”.
È la medesima richiesta che mi viene spontanea quando ho bisogno di rifugiarmi in una realtà altra. In alcune situazioni preferisco starmene nella mia tristezza, nel mio pianto inconsolabile (perché, per prassi letteraria, il pianto ha da essere inconsolabile) e andare giù giù fino a prendere la spinta, fulcro sull’avampiede, come in piscina. Ma in altre sale da dentro un “Raccontami di te, distraimi, parlami di cose che esulino da me, raccontami le storie che ami inventare”.
È la medesima richiesta che mi viene spontanea quando ho bisogno di rifugiarmi in una realtà altra. In alcune situazioni preferisco starmene nella mia tristezza, nel mio pianto inconsolabile (perché, per prassi letteraria, il pianto ha da essere inconsolabile) e andare giù giù fino a prendere la spinta, fulcro sull’avampiede, come in piscina. Ma in altre sale da dentro un “Raccontami di te, distraimi, parlami di cose che esulino da me, raccontami le storie che ami inventare”.
Mia cara, raccontarti di me, di questi giorni? Dell’eterno
brindisi che perpetuo di attimo in attimo all’idea della sliding door presa e di quella persa? O preferisci che ti
intrattenga scrivendoti della mia altrettanto quotidiana battaglia personale
per cercare di capire cosa ci sia dietro le dinamiche del traffico, la mattina? Perché oggi
in tangenziale non c’era nessuno? Tutti in settimana bianca? Qualcuno mormora
di vacanze di carnevale. Ma esistono davvero? Insomma, dov’erano tutti? A volte
ho la sensazione che loro sappiano qualcosa che io ignoro, e che quel qualcosa faccia
oscillare i tempi di percorrenza di quei pochi chilometri che faccio la mattina
dai 10 minuti di oggi, tutti lisci ai 90 all’ora, alla mezz’ora di, chissà?,
domani, contemplando tutte le possibili gradazioni temporali. Ricordi quando
Pennac diceva che non siamo noi a portare il cane a fare pipì fuori, due volte
al giorno, ma che è il cane a invitarci a cinque minuti di riflessioni
quotidiane? Ecco, forse loro sono
come il cane che non ho, mi obbligano a un intervallo tutto mio ogni mattina.
Ma non capisco, loro, dove si
nascondano in giorni come questo, mentre di solito mi circondano come… Ricordi
il racconto di Calvino? Te ne avevo parlato? Quello del tizio in auto,
inseguito da un killer armato di pistola e incolonnato come lui nel traffico, a
poche auto di distanza? E nell’alienazione del traffico, l’inseguito comincia a
ragionare sul rapporto tra spazio e velocità, e poi è tutta una discesa di pensieri
sempre più articolati che lo portano a convincersi che anche le altre auto si
stiano inseguendo, o stiano scappando, e che egli stesso pure sia non solo
inseguito, ma anche inseguitore, e così proietta fuori di sé la paura che lo
perseguita, e tutti, tutti, lui compreso, diventano parte di una catena senza
inizio fatta di innumerevoli coppie inseguitore-inseguito.
Perché ti sto parlando delle macchine in coda, quando invece
ti volevo proporre una teoria? Ieri ho assaggiato per la prima volta un dolce
sardo. Da ieri non ho fame. Non sto mica male, eh, anzi!, solo non ho fame.
Zero. E stasera in palestra ho corso come credo di non aver fatto mai. Correvo e
correvo, e più correvo e più pensavo che avevo voglia di correre. Ricordi il
pane degli elfi? Il pan di via? Forse no, il fantasy non è il tuo genere, e non
è nemmeno il mio, ma fa lo stesso. Noi le
chiamiamo lembas, o pan di via, e sono più nutrienti di qualsiasi cibo fatto
dagli uomini, e senza dubbio di gran lunga più gradevoli delle gallette,
dicono gli elfi nel libro di Tolkien. Chiunque mangiasse un pezzetto di quelle lembas poteva intraprendere viaggi
lunghissimi, senza soffrire fame o stanchezza. Lembas. Non ti pare un suono più sardo che elfico? O forse i sardi
sono elfi? O forse i dolci sardi danno alla testa?
Perché ti sto parlando del pan di via quando invece ti
volevo dire che… Come in ogni palestra, anche in questa nuova ci sono
personaggi degni di attenzione, ma riderne da soli non fa lo stesso effetto.
Ricordi (ricordi, ricordi, ricordi, quante volte ti sto chiedendo se ricordi?) i nostri eroi? Ecco, qui ora
non c’è L’Ultimo dei Mohicani (così da noi soprannominato per una vaga
somiglianza, ma in realtà era rumeno), non c’è neanche Jenny (così da noi
soprannominato per una terribile maglietta con Jennifer Lopez in posizione
neanche tanto ambigua) che spaccava le macchine con la sua forza sovrumana,
però c’è Jimmy (così da me soprannominato perché così si fa chiamare), e anche
lui ti strapperebbe più di una risata, col suo modo di ammirarsi i bicipiti ipertrofici,
paiono prosciutti, Sono due chili e tre,
che faccio, lascio?
Perché ti sto parlando di narcisi ridicolmente gonfiati
quando in realtà ti volevo chiedere quando andiamo a ballare? C’mon, baby, come quella sera al Tunnel,
facendo mattina senza neanche passare dal via. C’est la vie, cherie.
Balliamo.
giovedì 12 febbraio 2015
Prosit
Stasera vorrei proporre un tranquillo brindisi al destino,
che non sempre è cinico e baro come sembra, a volte è un po’ come quelle
persone che fanno finta di dimenticarsi del compleanno di qualcuno, e quel
qualcuno ci resta pure temporaneamente male, per poi scoprire che in realtà, in
gran segreto, era andata preparandosi una festa inaspettata.
Non che questa sia la prassi, ovviamente. Le persone che i
compleanni li dimenticano davvero nel più classico dei modi esistono, eccome.
Similmente anche il destino sa esserlo davvero, cinico e baro. Ma forse alle
volte ci prepara le feste a sorpresa per farci credere che andrà
sempre così.
domenica 8 febbraio 2015
Una Vestale con la lingua in giova
Potrei sfruttare la leggerezza e il disimpegno del
quotidiano, per riempire questo spazio virtuale. Potrei raccontare piccoli
episodi simil-buffi come più di una volta mi sono proposta di fare,
arricchendoli di quelle iperboli e metafore che sanno rendere divertente quasi qualsiasi
circostanza, per quanto insignificante. Sarebbe tutto sommato facile.
Potrei, per esempio, raccontare l’episodio occorsomi la
settimana scorsa, in un negozio della Tim dove, alla mia domanda su quali
fossero le opzioni di traffico Internet che avrei potuto attivare sulla mia
chiavetta il cui abbonamento era scaduto il giorno precedente, il commesso per
tutta risposta se ne uscì con un definitivo “Boh!”
Voleva essere simpatico, il ragazzo; sottintendeva, come mi
avrebbe spiegato dopo, che dipendeva dal mio precedente tipo di contratto.
Voleva fare il simpatico, forse, ma di fronte al mio sguardo asettico (Mi dispiace, ragazzo, avrei voluto
dirgli, mi dispiace, non voglio
mortificarti, ma un Boh! non mi fa ridere, e anzi mi spiazza in un modo che non
amo) credo abbia intuito che far ridere è un’arte ben più sottile, c’è chi
ne ha il dono innato, c’è chi studia il mestiere non facile della risata, ma evidentemente
lui non apparteneva ad alcuno dei due gruppi. E come regola aurea, non si
cerchi di far ridere senza aver sondato il terreno dell’interlocutore.
Non era cosa, ragazzo, non lo era. Un pensiero mi girava per
la testa, e non era cosa.
Non ho mai tenuto un diario, se non a otto anni per un paio
di settimane, costante nella mia scostanza, ma dove potrei allora scrivere ciò
che da alcuni giorni mi accompagna mio malgrado? Sfruttare lo spazio bianco che
trovo qui, è l’idea. A costo di raccogliere giudizi che svelino la noia che
sottende i sentimenti grigi e gli argomenti tristi e il già sentito dire e il dovevi arrivare a trentun anni per
accorgertene?, per accorgermene, dell’inguaribile odore di marcio. Ma non mi
ripiego su un’adolescenziale cupezza onnicomprensiva, il periodo jacopo ortis è
arrivato e passato più di una decina d’anni fa. Ora è la nausea, certamente
temporanea, ma è la nausea, e con lei l’orrore.
Mi accorgo che il nome del filosofo Bruno compare, in veste
di aggettivo, sui giornali che parlano del tale che ne ha recentemente condiviso
la disumana e spettacolare ed esemplare fine.
Suonala in minore, Sam, perché la musica è ancora la stessa,
dopo secoli, siamo ancora quelli che andavano in piazza apposta per vederle, le
fiamme, e l’endemico puzzo di marcio copriva e copre nei secoli il pungente e
acre odore di carne bruciata, di vita in fumo, di morte aleggiante.
Disumana.
Spettacolare. Esemplare.
Ma la morte del singolo disumanizza di un pesantissimo
infinitesimo anche me, filosofia da bar sport forse, il tat tvam asi che si
ripresenta, mors tua mors mea.
Qui, sul singolo,
la differenza, qui la risposta alle obiezioni che, in un processo già perduto
da tutte le parti e in tutti i gradi di giudizio, chiamano come testimoni tutti
gli altri milioni di vittime sacrificali, sei
ingenua?, sei cieca?, o per una volta non ti è bastata la sabbia, per
nascondertici?, o forse questa volta, come il colonnello Kurtz, ho
raggiunto il punto di rottura, e l’orrore è diventato un volto. Il singolo mi fa la differenza, l’accanimento sul
singolo, cosa ti fecero in quei palazzi
romani?, ricordo la nausea e l’orrore nel mio stomaco e nel libro di
storia.
Come tante Lady Macbeth reincarnate nei decenni, che però a
differenza della prima e vera, non si accorgano che tutti i profumi dell’Arabia
non basteranno, né basterà tutto l’oceano del grande Nettuno per toglierlo, l’odore
di marcio.
domenica 1 febbraio 2015
No beauty in the breakdown
Avrò probabilmente in canna un post divertente, in cui comparirà un personaggio dal dubbio equilibrio comportamentale, incontrato per caso ieri al bar. Ma sarà per il futuro, non per adesso.
Adesso ho ancora nello stomaco il ritorno di stasera, il tempo passato in auto, maledetto tempo, cercando
di non pensare alle cose e alle persone da cui mi stavo allontanando, maledetto spazio, e intorno a me il cielo si stava preparando a uno spettacolo, maledetto cielo, di quelli che straziarono i navicanti e i poeti fiorentini e, secoli dopo, anche me,
maledetto cielo, maledetto tempo, maledetto spazio, ed era la mano che mi soffocava lo stomaco a farmi ignorare il segnale che invano tentava di avvisarmi
di stare superando con ostinazione il limite di velocità, maledetto spazio su tempo, ma che altro avrei potuto fare?, l'unico modo per far terminare il prima possibile il mio tormento era quello di continuare a insistere, sull'acceleratore, di alzarlo, il volume della musica,
di fingere di non accorgermi che stava sopraggiungendo il momento delle Esperidi, e con esso quella sensazione di irrimediabile perdita,
di scacciare le immagini che mi riportavano alla memoria i recenti abbracci, le parole, gli incontri. E come un mantra ripetere che il senso della partenza è il ritorno.
Adesso ho ancora nello stomaco il ritorno di stasera, il tempo passato in auto, maledetto tempo, cercando
You couldn't be more wrong, darling
I never gave out these signs
di non pensare alle cose e alle persone da cui mi stavo allontanando, maledetto spazio, e intorno a me il cielo si stava preparando a uno spettacolo, maledetto cielo, di quelli che straziarono i navicanti e i poeti fiorentini e, secoli dopo, anche me,
You misunderstand all meaning
Snap out of it
I'm not falling for this one
maledetto cielo, maledetto tempo, maledetto spazio, ed era la mano che mi soffocava lo stomaco a farmi ignorare il segnale che invano tentava di avvisarmi
If love is surrender
Then whose war is it anyway?
Do just what I tell you
And no one will get hurt
Don't come any closer
'Cause I don't know how long I can hold my heart in two
di stare superando con ostinazione il limite di velocità, maledetto spazio su tempo, ma che altro avrei potuto fare?, l'unico modo per far terminare il prima possibile il mio tormento era quello di continuare a insistere, sull'acceleratore, di alzarlo, il volume della musica,
If you think that it's so damn easy
Then what do you need me for?
Just look at the state of you, babe
Snap out of it
You're not listening to this
di fingere di non accorgermi che stava sopraggiungendo il momento delle Esperidi, e con esso quella sensazione di irrimediabile perdita,
And just for once could you
Let me finish a sentence?
Make no sudden movements
And no one will get hurt
You're making me nervous
If you know what's good for me
Why would I be leaving you?
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