giovedì 30 aprile 2015

Il mio amico George (16)

Stavo spiegando a George la tenerezza che mi suscitano le donne che, negli spogliatoi delle palestre, prima di entrare in sala macchine o di andare a fare la lezione, si truccano e sistemano a colpi di rimmel e rossetto, come se ad aspettarle ci fosse il ballo delle debuttanti.
"Mah, mia cara, o sono armate di waterproof, o nell'arco di cinque minuti si trasformano in un branco di panda, oppure... Ma non eri tu quella che amava perdersi immaginando mille prospettive per ogni situazione? Ad ogni modo, a proposito di cose senza senso, ricordi quella mia collega, la tizia di Torino, esatto, lei, quella forma di vita bipede a base carbonio con cui pare dovremmo condividere, sia tu che io, una manciata di patrimonio genetico. Beh, stamattina era presa malissimo perché era la seconda volta in una settimana che dimenticava a casa il badge per entrare in ufficio. Non mi era mai successo in tre anni, che significato avrà, secondo te? Magari sto tentando di dirmi qualcosa, magari dovrei cercare un altro lavoro?, mi ha chiesto, e parlava sul serio, avresti dovuto sentirla. E vederla. Mio dio, come fai a spiegarle che ha il significato più semplice del mondo, e che magari dovrebbe tenere il badge nel portafogli e usare sempre quello? Il significato... Quando ha pronunciato questa parola mi è salito un desiderio terribile e viscerale di farglielo mangiare, il badge. Ma poi mi sono reso conto che l'aveva lasciato a casa. E quindi mi sono limitato a darle ragione, confermandole che senz'altro il suo subconscio le sta mandando messaggi da non lasciare cadere nel vuoto. Sia mai che si convince a togliersi di... Su, non fare quella faccia da buonista, ti ricordo che è una di quelle persone convinte di fare sogni premonitori. Qualche tempo fa le ho chiesto come potesse essere certa di non essere nata appena quella stessa mattina, magari addirittura cinque minuti prima del momento che stavamo vivendo, con un bel pacchetto confezionato di ricordi di trent'anni. Nemmeno sappiamo cosa sia la memoria e questa viene a ciarlare di sogni premonitori. E di coincidenze e significati. Poveretta, mi ricorda un mio vecchio coinquilino, avresti dovuto conoscerlo, passava tantissimo tempo a tormentarsi il cervello a forza di pensare. Eppure era perfettamente consapevole di non esserlo, un pensatore".

martedì 28 aprile 2015

I am.

C'è un gioco inutile che faccio quando sono al mare, quando entro in acqua, quando un corpo immerso in un fluido riceve la sensazione di potersi dissolvere. È un gioco inutile, quello che faccio: tengo la testa sott'acqua il più a lungo possibile, fino a quando i polmoni cominciano a non capire, a farsi sentire, a pungere. Solo allora decido di risalire e ricomincio a respirare, ostinatamente, rabbiosamente, come se fosse il primo respiro di sempre, come se tutto ricominciasse.

Ci si aggrappa anche alla paglia, mi disse un giorno un inglese conosciuto per caso. Clutch at a straw.

lunedì 27 aprile 2015

Il mio amico George (15)

Mi scrive una mail, George.


Mia cara, sono due giorni che vado giustapponendo immagini e pensieri spettinati, me ne rendo conto, ma sono andato dal dentista, che nel visitarmi se ne è uscito con qualcosa del tipo Oh, sì, su questo dente abbiamo lavorato vent'anni fa, ricordi? 
Quel vent'anni fa... è stato... passami il paragone, è fuori luogo ma è anche l'unico che mi viene in mente... è stato come le epifanie di Joyce, ha riportato a galla loro, pensieri e immagini che per me hanno un filo logico irreprensibile, ma a spiegarli diventano ingarbugliati e confusi.

Quante persone conosci che ricordino cose di te vecchie di due terzi della tua vita?

Fa' la brava.

mercoledì 22 aprile 2015

Vespero o Lucifero

Non mi dilungherò a descriverti i dettagli della scena. Ti basti sapere che l'aria era inerte, ferma, non sarebbe riuscita nemmeno a gonfiare la tenda. La luce stentava a insinuarsi, così pallida!, quasi fosse poco convinta essa stessa di avere un ruolo, in quel momento. Non ce l'aveva, infatti, un ruolo, non avrebbe avuto senso illuminare alcunché. L'atmosfera sarebbe dovuta rimanere di una tinta indefinita, tra il grigio e l'azzurro, come in quell'ora in cui a guardare il cielo non si sa se l'unica luce che brilla sia Vespero o Lucifero.

domenica 19 aprile 2015

Come evitare un macabro acquisto

Una questione che, da un annetto a questa parte, angustia non poco il quotidiano di mia madre, è la vendita di quella che era la casa dei miei nonni. Sarà per la crisi del settore immobiliare, sarà per la congiuntura economica, sarà che non ci sono più le mezze stagioni, la casa è ancora lì.
Oggi, dopo aver pranzato a casa dei miei, stavo trascorrendo un pigro (po)meriggiare, non particolarmente pallido, sicuramente molto assorto, quando mia mamma mi ha svegliata dal mio torpore dicendomi che forse l'agenzia immobiliare ha trovato un cliente interessato.

"Sai, pare che siamo riusciti a trovare finalmente un cliente per la casa dei nonni. Se la vendiamo, avevo pensato di comprarmi..."
"Sì?"
"...un loculo."
"..."
"..."
"Un...?"
"...loculo!"
"Un loculo."
"Sì..."

Ora. Per quanto io adori i dialoghi grotteschi, questo conteneva una dose di stravaganza che superava la mia personale soglia della tollerabilità. Evitando tuttavia di compiere quelli che chiunque avrebbe peraltro giudicato come dei giustificabilissimi gesti apotropaici, mi sono presa una manciata di secondi di silenzio. O forse stavo solo prendendo la rincorsa.
Coloro che abbiano avuto l'occasione di conoscermi sanno che sono per lo più un fuoco di paglia, soprattutto quando mi arrabbio: mi incendio in un attimo, divampo e brucio tutto, ma mi spengo velocemente, non riesco a essere perseverante neanche nell'offendermi per qualcosa, dimentico tutto e fine. Ah, la pigrizia, che grande dono.
Insomma, ho preso fiato e senza lasciarle il tempo o il modo di inserirsi anche solo con un Ma... le ho fatto capire che, santo cielo!, comprati una cucina nuova, una borsa, delle scarpe, un'altra auto, una vacanza, un mammut impagliato, ma non un loculo, e non mi si venga a dire che sono poco... poco... Chiamiamola scarsa lungimiranza da parte mia, chiamiamola scaramanzia, chiamiamola anche lucrezia o federica, chi ce lo impedisce?, sono troppo limitata all'immediato?, ma no, no!, chiaro che ci penso pure io a queste cose, ma poi mi ricordo del buon vecchio Epicuro e passa la paura, e insomma, un loculo!, ma come diavolo ti viene in mente?, e io mi sforzo anche di essere ottimista, ma certo, volentieri!, ma qualcuno vorrebbe spiegarmi perché sono circondata da persone folgorate?
Alla fine mi sono messa a ridere perché mi rendevo conto che mi stava prendendo sul serio. Ma credo di averla convinta a non comprare l'orrenda nicchia. Forse più con la risata che col il pippone precedente.

mercoledì 15 aprile 2015

La palla di stoffa

Giulio frequentava ormai da tre anni l'asilo. Era un bimbo sveglio, curioso, a volte taciturno, ma sempre accompagnato da un'espressione sorridente che trasmetteva con gli occhi, neri, neri come la pece, tanto da faticare a distinguere la pupilla dall'iride.
Andava volentieri all'asilo, non solo perché era un bambino socievole, ma anche perché per quanti giocattoli avesse a casa, là ne trovava di nuovi e diversi, e poco importava se gli toccava condividerli con gli altri, tutto era di tutti, semplicemente.
Un giorno, rovistando in uno scatolone, trovò una palla di stoffa colorata. Che non fosse nuova era fuor di dubbio, solo che evidentemente nessuno ci aveva mai giocato negli ultimi tempi. Giulio la tirò fuori e la mostrò agli altri bambini, che cominciarono a lanciarsela, a sprimacciarla, insomma a farne ciò che ciascuno avrebbe fatto con una palla di stoffa.
Giulio pensò che gli sarebbe piaciuto portarla via con sé: non voleva tenersela, solo giocarci un po' da solo, in silenzio. Non era molto grande e così, finita la giornata, prima che sua madre arrivasse a prenderlo, riuscì a infilarla nello zainetto senza farsi notare.
Arrivato a casa, andò diretto nella propria cameretta. Tra i vantaggi di essere il più piccolo di tre fratelli c'era quello, o almeno così lui pensava, di riuscire a passare relativamente inosservato. Relativamente a sua sorella, senz'altro, che trascorreva i pomeriggi a studiare letteratura inglese, chissà perché la appassionava così tanto, chissà a cosa le sarebbe servita, nell'ingenuità dei suoi cinque anni Giulio non riusciva a intuirne uno scopo, riusciva solo a sentirla che, anche in quello stesso momento, ripeteva a voce alta versi a lui incomprensibili e vani ("...had they but courage equal to desire?").
Ma si sentiva piacevolmente inosservato anche relativamente a suo fratello, che stava passando l'età della polemica tarda adolescenza: già entrando in casa l'aveva sentito battibeccare con suo padre, dicendogli che "...alla fine vedrai che Dio sparirà in una nuvoletta di logica!".
A Giulio poco importavano sia i vanesi sproloqui di suo fratello, sia i versi misteriosi di sua sorella. Gli bastava starsene tranquillo a giocare un po' da solo. Tirò fuori la palla di stoffa dallo zainetto; nel prenderla in mano si accorse che tra le cuciture si apriva un forellino dentro cui era incastrato un anello di plastica. L'anello oppose inizialmente un po' di resistenza, ma poi si lasciò tirare, facendo così srotolare un filo che a propria volta fece partire la musica di un carillon. A Giulio sembrò una musica strana, come se l'avesse già sentita mille volte, come se gli ricordasse qualcosa di antico, ma poteva essere possibile che un bambino di cinque anni conservasse dei ricordi così profondi?
Quando il carillon si fermò, Giulio volle ascoltarlo ancora, e ancora, e ancora, e tanto tirò l'anello di plastica, e con esso il filo, che alla fine lo ruppe.
Giulio aveva rotto il gioco. O forse sarebbe stato più corretto dire che il gioco si era rotto. All'atto pratico, la differenza tra le due frasi sarebbe stata insignificante.
Il giorno dopo, quando riportò la palla di stoffa all'asilo, ovviamente nessuno si accorse della differenza, dato che a nessuno era mai passato per la testa che dentro la palla ci potesse essere un carillon.
Tutto tornò quindi al più rassicurante degli equilibri.

domenica 12 aprile 2015

Lo trovi divertente?

Guardandomi negli occhi con una fermezza di cui, sapevo, non sarei mai stata capace, mi disse: "Credimi, la frase Lo faccio per il tuo bene dovrebbe essere concessa solo alle mamme che costringano i figli, di età inferiore ai sei anni se femmine, inferiore ai sessanta se maschi, a mangiare la verdura. In qualsiasi altro contesto dovrebbe essere considerata penalmente perseguibile. O quantomeno altamente inopportuna".

giovedì 9 aprile 2015

Il mio amico George (14)

Sarà che è la stagione, sarà che sa che ho qualcosa da farmi perdonare, ieri sera George è venuto a trovarmi portando un mazzo di tulipani gialli e rossi, oro e porpora, che mettevano allegria al solo guardarli.
“Oh, adesso non cominciare, lo so che i tulipani sono il tuo secondo fiore preferito, non serve che tu me lo dica, mia cara, chiunque ti conosca meno che trascurabilmente lo sa. Ma d’altro canto dove li trovo dei papaveri californiani? A volte, absit iniuria verbi, hai dei gusti così discutibili…”
Stavo sbottando in un prevedibile "Verbis, con la esse", ma mi sono morsa in tempo la lingua, accorgendomi che era un bluff, George sa come distrarmi, tipicamente o dicendo frasi latine sbagliate, così da punzecchiarmi e vedermi abbassare lo sguardo, o citando Kowalski, il pinguino cinico di Madagascar.
“Sai una cosa, sono stremato, in ascensore ho dovuto parlare del tempo con un tizio che saliva all'ultimo piano, meno male che abiti solo al secondo, così ha fatto appena in tempo a dirmi che spera che arrivi presto il caldo, ma che intanto godiamoci le giornate più lunghe e guardiamo il bicchiere mezzo pieno. Il bicchiere mezzo pieno? Santo cielo, ma… Ero tentato dal bloccare l’ascensore per spiegargli che dovrebbe svincolarsi da questa sciocca prospettiva, per tuffarsi senza pensarci troppo in una geometria alternativa, che noioso euclideo!, una geometria dove la metà vuota non sia uguale alle metà piena, ma molto molto più grande. Cambiare metrica. O cambiare bicchiere, e sceglierne uno più capiente, un boccale da birra, che subito sembrerebbe quasi completamente vuoto. A proposito, hai mica una birra?”
No, sono stata costretta a riconoscere che non ne avevo, in casa, e che avevo pure freddo.
“Ma perché non ti fai un bagno caldo, così ti passa il freddo e ti rilassi? Ovviamente hai appena mangiato quindi probabilmente moriresti, ma... Senti, davvero non hai una birra? Nelle tue condizioni? Mia cara, devi essere impazzita! Si è mai sentito di un diabetico che non abbia dell’insulina in casa? Mettiti la giacca che usciamo, ho avuto la fortuna di trovare parcheggio qui vicino. Però non prendiamo l’ascensore, questa volta, per scendere”.

martedì 7 aprile 2015

Do ut des

La sua perfezione era allarmante.
Dopo averla guardata, gli occhi ne rimanevano impressionati.
Come quando si guardi il sole, poi per un pezzo ovunque si giri lo sguardo è sempre lì, è sempre sole.
Sarebbe bastato avere tempo e pazienza, tempo e fiducia, e lasciare che la sensazione iniziale svanisse, dissolvendosi a poco a poco.

lunedì 6 aprile 2015

Il mio amico George (13)

Ore 2.07 di notte, il sogno di una finestra che mi si frantuma davanti al viso, con annesso rumore di schianto, mi fa svegliare di colpo. Mi giro verso il comodino e dopo una decina di secondi il telefono comincia a squillare. Non poteva essere che lui.
Appoggiandomi malamente col gomito sul cuscino, la bocca ancora impastata di sonno e di pezzi di vetro, biascico un Pronto poco convinto, dal momento che tutto mi sentivo, fuorché pronta.
"Mia cara, hai una voce terribile considerato che ormai non stavi più dormendo".
George, il mio funambolo del pensieri, non si fa scrupolo alcuno a chiamarmi a qualsiasi ora, e in fondo sa di agire nel modo migliore.
"Stavo dormendo tutto sommato bene, considerati gli standard degli ultimi tempi, tu mi capisci no?, quando di colpo mi è partito un crampo al polpaccio talmente forte da svegliarmi. Dio, se odio svegliarmi così, con i sogni mezzi aperti, i pensieri in una matassa informe, gli uni che si uniscono agli altri in un accerchiamento come..."
...come l'assedio di Londra...
"...come l'assedio di Londra, se capisci cosa intendo. E così, nell'obnubilamento del risveglio non ancora compiuto, ho pensato che questo, intendo il crampo, sia un modo del polpaccio per ricordarmi che esiste anche lui, laggiù in fondo. Carino, no?"
Sapevo che non poteva avermi davvero chiamata solo per questo.
"E come lo vedresti un crampo al cuore?"
Stavo per cominciare, dopo un eloquente sospiro, a rispolverare ricordi ammuffiti dell'esame di fisiologia, ma è stato George stesso a interrompermi.
"Ottimo!, sul pezzo anche in piena notte. Infatti, infatti... il cuore non può avere crampi. Quindi?"
Quindi?
"Su su, un facile sillogismo. Di validità logica e scientifica pari a zero, sia chiaro, ma sono le due di notte, chi ci può contraddire? Poniamo pertanto che il polpaccio, o meglio, i muscoli si inventino un crampo per farmi evitare di dimenticarmi che esistono. Bene. Come premessa minore aggiungiamo che il cuore non può dare crampi. Fatta. Penso di avere tutti i diritti di concludere che posso dimenticarmi dell'esistenza del cuore. Non sei d'accordo anche tu?"
Non sapevo rispondergli, così mi sono limitata a consigliargli del magnesio per il polpaccio.
E della birra per quell'altro.