domenica 29 aprile 2012

Coniugi, declini e neologismi a caso.

Fino a che punto ha senso adattarsi al proprio interlocutore? Con questa domanda potrei già aver riassunto tutto quanto sto per scrivere, per cui ciò che segue è da considerarsi opzionale.
"Ho inviato un curriculum. Anzi, ne ho inviati parecchi". Credo che d'ora in poi questa sarà la mia tecnica. Ovviamente il tema non è la ricerca di lavoro, ma il plurale di curriculum. Perché fino a non molto tempo fa non mi facevo remore a declinarlo come un comunissimo plurale neutro latino. Curriculum singolare? Curricula plurale. Già. E se sentivo qualcuno usare l'-um al plurale alzavo un sopracciglio interiore e accettavo con condiscendenza l'errore altrui. Ma? Ma qualcosa è andato storto. (Che meravigliosa frase da film, devo trovare il modo di inserire anche un Segua quell'auto, presto! da qualche parte). Qualcosa è andato storto perché un illustre grammatico (ma forse non era illustre, forse non era neanche un grammatico, tant'è) faceva notare come l'utilizzo del plurale in -a sia in fin dei conti sbagliato. O meglio, se volessimo usarlo dovremmo applicare la medesima regola anche a tutti gli altri sostantivi che dal latino sono passati direttamente all'uso comune in italiano.
Ok, chi è che si metterebbe mai a dire qualcosa del tipo "...i diversi itinera burocratici presentano delle difficoltà"? Forse Umberto Eco, ma probabilmente neanche lui.
Quindi, mi son detta, la vera correttezza non era dire i curricula invece di i curriculum. La vera correttezza è dire i curriculum invece di i curricula invece di i curriculum. Eppure è da questo cerchio che si chiude che nasce il mio disagio: mi rendo conto che sono tentata di adattare il mio linguaggio in base alla persona che ho di fronte. Infatti mi darebbe fastidio che il mio interlocutore pensasse che non so neanche declinare uno stupido plurale neutro, però mi darebbe ancora più fastidio che mi venisse attribuita la cafonaggine che caratterizza tutti coloro che vogliono strafare.
Faccio un esempio. Mi trovo davanti Umberto Eco, e voglio dirgli che ho inviato ben più di un curriculum.

Caso 1: Sai, Umberto, ho già mandato molti curriculum. Non so fare il plurale. Lui mi guarda dal basso al basso, e fine. Anche se tra di noi ci si dà del tu.
Caso 2: Sai, Umberto, ho già mandato molti curricula. So fare il plurale. Lui mi guarda dal basso al poco più in alto, e pensa che sono l'incarnazione della cafonaggine, che voglio solo fargli vedere che so declinare un sostantivo idiota, ma chi credo di essere?
Caso 3: Sai, Umberto, ho già mandato molti curriculum. So fare il plurale, ma so che in italiano i nomi latini si considerano indeclinabili. Lui mi guarda dal basso al medio e pensa che forse può darsi che non sia l'errore del Caso 1, ma che si tratti di una correzione consapevole del Caso 2. Forse, perché in realtà l'opzione Caso 1 è in agguato.
Caso 4: Sai, Umberto, ho già mandato molti curricula. So fare il plurale. So anche che in italiano qualcuno dice che i nomi latini non si declinano, ma io dico che le lingue sono materia viva e mi assumo la responsabilità di quello che dico. Lui mi guarda dal basso al quasi alto e pensa che adesso le cose si stanno complicando. Ma sa anche che l'opzione Caso 2 è in agguato.
...
Caso 2N-1: Sai, Umberto, ho già mandato molti curriculum.
Caso 2N: Sai, Umberto, ho già mandato molti curricula. 
Ovviamente e questi due ultimi casi si accompagnano dosi di consapevolezza crescente, benché i Casi 1 e 2 restino sempre nell'ombra, in agguato.

E mi viene in mente quell'episodio in cui, per trovare un'idea interessante per finire un tema, al liceo, usai nella frase conclusiva il termine essenti, forte della recente lettura di un'intervista a Severino, il filosofo. La professoressa di italiano me lo segnò come errore.
Quindi va bene mandare molti CV, ma è meglio non tirarsela troppo.

lunedì 23 aprile 2012

Corri, Forrest!

Quanta parte di un paio di corde vocali medie viene persa, ogni giorno, in domande inutili? Questo dubbio mi gironzolava in testa stamattina. Potrei rigirare la questione, chiedendomi quanta parte di questa tastiera o delle mie povere sinapsi venga consumata in ragionamenti insulsi. L'attenuante è che per lo meno non necessito di un interlocutore costretto, suo malgrado, a prestare attenzione e a rispondere.
Pensando alle situazioni particolarmente fastidiose, non può non venirmi in mente la stazione dei treni. Da quando, vicino all'ingresso e al tabellone degli orari, è stata aperta una libreria, a quasi ogni ora del giorno è inevitabile imbattersi in tre/quattro ragazzi che avvicinano gli ignari viaggiatori per chiedere quale sia l'ultimo libro che hanno letto. Dico ignari viaggiatori, perché il pendolare che passa tutti i giorni ormai ha messo in atto abili strategie di difesa, dal soffiarsi il naso mentre percorre i dieci metri incriminati, al simulare concitate conversazioni telefoniche, al correre ad abbracciare il primo sconosciuto fingendo improbabili riunioni familiari. Personalmente, quando un povero intervistatore tenta di approcciarmi, rispondo in modo molto banale uno sbrigativo: "Scusa ma ho il treno".
E fuggo.
Tempo fa mi trovavo in stazione con Cinque. La sua tattica è di spiazzare l'altro con una risposta apparentemente sensata, ma in realtà completamente fuori contesto. Nel suo caso, l'intervista diventa:

Intervistatore: Scusa, posso chiederti il titolo dell'ultimo libro che hai letto?
Cinque: Ce l'ho già.

E fugge.
Un giorno si era in stazione assieme, e ciascuno ha dato la propria risposta standard. Mentre io sono rimasta sorpresa dalla genialità della sua, Cinque manifestava interesse per la ragionevolezza della mia. E si rifletteva su come "Scusa, ma ho il treno" possa diventare la vera risposta, ossia come possa essere interpretata come il titolo di un libro. Ovviamente bisognerebbe specificare l'autore, ma dopo Scusa ma ti chiamo amore e Scusa ma ti voglio sposare, la scelta non può che essere questa

Intervistatore: Scusa, posso chiederti il titolo dell'ultimo libro che hai letto?
Intervistato: Scusa ma ho il treno, di Moccia.

E si fugge.

Domande inutili a persone inutili per scopi inutili. Mi chiedo che senso abbia chiedere cose a certa gente. E ora non mi sto riferendo a quegli individui ai quali madre natura ha fornito dosi omeopatiche di intelligenza, dialettica, spirito critico e altre facezie del genere.
Molto più semplicemente, sto pensando ai bambini. Piccoli. Bambolotti di pochi mesi che ti guardano come se volessero dirti chissà cosa, ma che le contingenze del momento costringono a non esternare opinioni e giudizi. E ciò nonostante ci sono adulti (spesso facenti parte della categoria di cui sopra) che si ostinano a interrogare con domande idiote i poveri neoarrivati.
Forse però non è così male, forse si tratta di un allenamento. Perché poi per tutta la vita ci si sente porre domande dalla comprovata inutilità.
Ancora si deve imparare a scappare sulle proprie gambe che arriva la classica amica di famiglia, la vicina, la cugina della dirimpettaia, a porre domande retoriche. "Mamma che bel bambino, me lo dai un bacino?".
No. Non te lo do un bacino. Hai visto che guancia hai? Hai notato che ti sei toccata il viso con le mani, mezzo minuto fa? E che con quelle mani hai tenuto per quaranta minuti il carrello del supermercato, che prima di te era stato preso da quel tipo in cravatta e raffreddore che continuava a starnutire? E io dovrei darti un bacino? Lo sai che il mio sistema immunitario è ancora in rodaggio? Stammi distante e non chiedere cose del genere. Né ora né mai più.
Poi si passa al "Cosa voi fare, da grande?". Io ricordo che rispondevo che volevo fare la pittrice. Penso di essere uno dei pochi esseri umani a non aver mai risposto "L'astronauta!" a una domanda del genere.
E poi si continua. Si continua per tutta la vita, con cose del tipo "Quali sono le province del Molise?", "La dialettica di Hegel è aperta o chiusa?", "E dopo la laurea cosa farai?", "Come va?".
Età diverse, fastidiose domande diverse. Tutte inutili. O quasi.

E fuggo.

mercoledì 18 aprile 2012

Il tutto è più della somma delle singole parti (a meno che non manchi un pezzo).

Non mi accontento che una cosa mi piaccia o non mi piaccia; devo necessariamente chiedermene la ragione. Beninteso, si tratta il più delle volte di predilezioni apparentemente immotivate, per cui la soluzione non è sempre immediata.
In questi giorni mi chiedevo, per esempio, se ci sia una giustificazione dietro la mia passione per i puzzle, che credo essere una delle più longeve che mi caratterizzi. E nel pensarci mi è tornato in mente il mattone di Perec, La vita, istruzioni per l'uso che, appunto, inizia parlando in modo sottilmente consapevole di puzzle e di chi li costruisce. Il buon Georges ragiona e scrive come un dio, e riesce a interpretare l'oggetto in chiave quasi gnoseologica, argomentando che "...la conoscenza del tutto e delle sue leggi, dell'insieme e della sua struttura, non è deducibile dalla conoscenza delle singole parti che lo compongono: la qual cosa significa che si può guardare il pezzo di un puzzle per tre giorni di seguito credendo di sapere tutto della sua configurazione e del suo colore, senza aver fatto il minimo passo avanti: conta solo la possibilità di collegare quel pezzo ad altri pezzi". Per poi arrivare a qualcosa di meravigliosamente definitivo: "isolato, il pezzo di un puzzle non significa niente; è semplicemente domanda impossibile, sfida opaca".
Onestamente non sarei mai riuscita a spingermi così in là. Tant'è, non mi lascio intimidire dalla mia relativa mediocrità di pensiero, e provo a ragionarci per conto mio.
I puzzle sono come i cani di Pennac: non siamo noi a portarli fuori a fare pipì mattina e sera, ma sono loro che ogni giorno ci invitano a un paio di pause di meditazione. Il puzzle, in modo simile, forse meno affettuoso, forse meno insistente, invita a pensare in solitudine. Invita, ma non costringe, perché fin che sei lì che rigiri i pezzetti (che poi alla fine son sempre quelli) tra le mani, se càpita che passi qualcuno è praticamente inevitabile che quel qualcuno si lasci invischiare e si unisca all'opera.
Con i puzzle quindi si può stare in compagnia, ma si può pure evitarla con classe, magari adducendo la scusa che siamo terribilmente concentrati, perché ci ricordiamo chiaramente di aver visto poco fa un pezzo con questa sfumatura qui di grigio, è proprio quello che serve per chiudere questo buco, dove sarà stato appoggiato, sssssh, taci un secondo che perdo il filo, ho tutti i pezzi in testa.
Un giocatore (come si chiama uno che ricostruisce puzzle? Giocatore? Puzzler? Demiurgo?) esperto capirà certamente il nostro stato mentale, e ci lascerà rispettosamente in pace. Uno non esperto, a maggior ragione, ci guarderà con deferente riguardo e, così inibito, ammutolirà.
Ma non sono certo tutte rose e fiori: a esaltanti momenti di prodigiosa ispirazione, in cui i pezzi sembrano chiamarsi a vicenda e attaccarsi da soli, seguono lunghissimi momenti di stallo. A un certo punto l'insofferenza fa capolino e comincia a crescere. E qui, crepi la modestia, mi lancio anch'io in un parallelo da cui non so se uscirò viva.
Ci sono persone a cui teniamo particolarmente, che per motivi i più svariati càpita che ci amareggino un po'. Dimenticanze, frasi poco felici, assenze, giudizi affrettati... Il tutto senza la minima intenzione, sia chiaro. Solo che gli epsilon di amarezza tendono a sommarsi.
Fortunatamente sono persone a cui teniamo, per cui non ha importanza che per due pomeriggi non si sia riusciti ad attaccare neanche due pezzetti della cornice (della cornice!). Non appena si trova un incastro giusto, si riparte da zero.
Ecco, il pezzetto attaccato è il puzzle che ti dice: "Mica mi ero dimenticato, di volerti bene".

E comunque è meglio leggersi Perec.

domenica 1 aprile 2012

Piccola presa in biro

Di ciò che mi interessa e incuriosisce e affascina vorrei scoprire il più possibile. Ma a ben pensarci, è un po' come quando, da piccola, ho voluto capire come funzionasse una penna, ma non di quelle solite e noiose col tappo che poi perdevo sempre o che si staccava dalla propria sede naturale una volta chiuso l'astuccio per rintanarsi sul fondo assieme al temperino e ai pastelli più corti e consumati. No, sto parlando di una penna a scatto. Che, in confronto alle obsolete penne col cappuccio, brillava di prestigio e modernità.
E niente, l'ho smontata e per un attimo ho assaporato il gusto appagante dell'ora so. Ma poi lì per lì non riuscivo a rimetterla in sesto, forse non avevo rimesso la molla proprio com'era prima, fatto sta, lo scatto non era più lo stesso.