domenica 26 luglio 2015

Vestita di tempesta

Avrei dovuto prendere il treno, ma era in ritardo di trentun minuti. Trentuno, sì, difficile a credersi, ma il numero era quello. Cos'avrei potuto fare, nel frattempo? Ovviamente quello che chiunque farebbe in trentun minuti, o in trentun giorni, o in trentun anni: intrattenersi, pensare. A tratti, perché no?, vivere.
E così decisi che l'avrei aspettato, lì, in piedi. L'avrei aspettato, anche se l'attesa si sarebbe potuta poi rivelare un errore.

Vedevo l'errore come un punto nello spazio, diviso in due parti da una superficie: da una parte di essa stavano gli errori correggibili, dall'altra quelli che invece non si sarebbero potuti correggere mai. Comprare un paio di scarpe troppo grandi e tornare il giorno dopo per cambiarle. Oppure mandare in frantumi un bicchiere di cristallo. Giusto per fare un paio di esempi.
Una seconda superficie intersecava la prima: questa separava gli errori fatti in modo consapevole da quelli che erano al contrario frutto di azioni svolte con le migliori intenzioni. Combinando le possibilità, mi stavo muovendo tra quattro regioni, che divennero immediatamente otto quando introdussi una terza superficie, quella che distingueva gli errori perdonabili da quelli imperdonabili.
Giocavo con queste mie superfici continue a tratti, e fluttuanti come lenzuola stese.

Avrei continuato a giocarci, ma i trentun minuti erano passati.
Passò anche il treno, sul quale decisi di non salire.
Avevo cambiato destinazione.

martedì 7 luglio 2015

La nausea in testa - Il mio amico George (20)

Dal terrazzo della casa di George, lasciando scivolare gli occhi sul verde del piccolo parco del quartiere e sulle strisce livide che incupiscono il tramonto di stasera, si indovinano, senza vederle, quotidianità e vite altrui.
Mi tornano alla mente, un po' per contrasto, un po' per una predisposizione ad aprire casualmente cassetti della memoria, le descrizioni delle sere indiane che ci spediva il cugino di mio padre: arrivavano da Benares, la città sacra degli induisti, cartoline scritte con una grafia microscopica e fittissima che raccontava i rumori delle scimmie che correvano sui tetti delle case e i cieli, ardenti di colori intensi come braci. Era l'intellettuale, il matto della famiglia. E lo era davvero: avevo otto anni quando mi consigliò di leggere un romanzo di von Eichendorff, di cui, ricordo bene, non intuii il senso, dato che a mio avviso non succedeva nulla.
Interrompe questo mio ciondolare tra i pensieri l'arrivo di George, che mi porta una birra e una domanda, alla quale non so trovare risposta migliore di un intraducibile È come avere la nausea in testa.
"Mia cara, capisco perfettamente. La soluzione è l'equivalente di due dita in gola. Ma temo che l'ippocampo sia un po' difficile da raggiungere".

giovedì 2 luglio 2015

È troppo, capisci?

L'aria era pallida di afa, e satura. Chiusi gli occhi, per non sentire che lo stridio delle cicale e il sudore che, gocciolando, mi rigava la schiena. Se li avessi aperti avrei di certo visto che l'orizzonte vibrava di caldo, e in quell'atmosfera onirica avrei capito che l'equilibrio precario su cui fino ad allora avevo creduto di muovermi era una fata morgana, un subdolo incantesimo, un'allucinazione alla quale il mio sguardo si era affidato, ingenuo.
Mi dicesti che avevi deciso di svegliarmi nel momento in cui mi avevi sentito chiedere È troppo, capisci? 
Così il tuo risveglio, imprevisto. E, talvolta, l'abbandono a un'irrisolta malinconia.