domenica 26 luglio 2015

Vestita di tempesta

Avrei dovuto prendere il treno, ma era in ritardo di trentun minuti. Trentuno, sì, difficile a credersi, ma il numero era quello. Cos'avrei potuto fare, nel frattempo? Ovviamente quello che chiunque farebbe in trentun minuti, o in trentun giorni, o in trentun anni: intrattenersi, pensare. A tratti, perché no?, vivere.
E così decisi che l'avrei aspettato, lì, in piedi. L'avrei aspettato, anche se l'attesa si sarebbe potuta poi rivelare un errore.

Vedevo l'errore come un punto nello spazio, diviso in due parti da una superficie: da una parte di essa stavano gli errori correggibili, dall'altra quelli che invece non si sarebbero potuti correggere mai. Comprare un paio di scarpe troppo grandi e tornare il giorno dopo per cambiarle. Oppure mandare in frantumi un bicchiere di cristallo. Giusto per fare un paio di esempi.
Una seconda superficie intersecava la prima: questa separava gli errori fatti in modo consapevole da quelli che erano al contrario frutto di azioni svolte con le migliori intenzioni. Combinando le possibilità, mi stavo muovendo tra quattro regioni, che divennero immediatamente otto quando introdussi una terza superficie, quella che distingueva gli errori perdonabili da quelli imperdonabili.
Giocavo con queste mie superfici continue a tratti, e fluttuanti come lenzuola stese.

Avrei continuato a giocarci, ma i trentun minuti erano passati.
Passò anche il treno, sul quale decisi di non salire.
Avevo cambiato destinazione.

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