sabato 29 settembre 2012

Testimonial volontario

Io sono una persona inoffensiva. Questo ovviamente non significa che io sia una persona buona, anzi, tutt'altro, io non sono una persona buona, credo di non esserlo mai stata, ma inoffensiva sì. Diciamo che se fossi stata Kant avrei formulato la famosa frase in modo un po' diverso, qualcosa del tipo il cielo stellato sopra di me, la prima Legge di Newton dentro di me, nel senso che effettivamente tendo a permanere nel mio stato di inoffensiva quiete, qualora non sia soggetta a forze esterne. Se invece le forze esterne ci sono, e a risultante non nulla, allora in genere assorbo. In questo senso sono inoffensiva, tendo ad assorbire, a bypassare la terza Legge del vecchio Isaac. Mi fermo alla prima, rinuncio alla terza. Magari implodo di accidia, ma rimango inoffensiva. La vendetta non la gusto fredda, perché dopo un po' mi dimentico, e vendicarsi di una cosa che non si ricorda più cosa fosse non è il mio forte. Forse il tutto è solo da ricondurre a una pigrizia di dimensioni considerevoli, non lo so, ma il risultato è che non si può avere timore di me.
Ciononostante ci sono alcune sparute persone che hanno la capacità di risvegliare addirittura nella sottoscritta insani e atavici istinti violenti. Una delle ultime che il mio subconscio ha incluso nella lista è una giovin donzella, e non è solo lei a solleticarmi tali sconsiderati e feroci istinti, ma anche tutto coloro che ne parlano. A rigore in questo momento dovrei essere tentata di colpire me con inusitata violenza, dato che per l'appunto sto parlando di lei, ma in questo caso l'atavico istinto omicida si scontra con l'altrettanto primigenio istinto all'autoconservazione, e quindi posso continuare a scrivere. Dicevo, si tratta di una procace ragazza che siede nella giunta di quella regione italiana dove il cielo è così bello quando è bello, e che è recentemente tornata alla ribalta (la giovin donzella, non la regione) per aver sfilato nelle passerelle della città capoluogo della regione stessa, come testimonial per una nota marca di costumi, marca della quale non comprerò mai più alcunché, anche se dovessero includere nel loro catalogo l'Elisir della Suprema Intelligenza, Fortuna e Autostima.
Devo dire che su di me i testimonial delle pubblicità funzionano, mi rendo conto che mi faccio molto influenzare. Qualche anno fa ho cambiato compagnia telefonica solo perché non sopportavo che il mio numero fosse in qualche modo legato ai due personaggi cosiddetti famosi che per così dire recitavano negli spot di quella compagnia. Non avevo particolari problemi con le tariffe, non avevo trovato vantaggiosissime offerte da parte delle compagnie concorrenti, niente di tutto ciò, solo, non sopportavo i due testimonial. E' come con i nomi, ce ne sono alcuni che mi piacciono molto, poi conosco qualcuno di particolarmente insopportabile che guarda caso si chiama proprio così e basta, l'incantesimo del nome è finito. E allo stesso modo ormai il cioccolatino con i cinque cereali è indissolubilmente legato a quella famosissima fiorettista italiana che urla e urla in pedana e poi ammicca a quel premier molto non alto per dirgli che da lui una "toccata" se la farebbe dare, uscendosene quindi con un doppio senso che farebbe disgustare anche il peggior comico del peggior filmucolo della serie più infima. Quindi ciao cioccolatino. Viceversa potrei benissimo comprare quella merendina spacciata per "l'equilibrio giusto tra nutrimento e gusto", e non solo perché la Idem mi piace, ma anche perché quand'ero piccola mia mamma, sostenuta da dubbie teorie salutiste, evitava di comprarla in quanto fonte di conservanti, coloranti e schifezzanti che appena li mangi muori. Purtroppo ora che potrei dirigermi con le mie gambe e con la mia maggiore età e con il mio sonante denaro a procurarmi da sola l'equilibrio giusto tra nutrimento e gusto, purtroppo dicevo sono arrivata in quella fase della vita in cui fondate teorie salutiste mi portano a vedere dentro quegli involucri dosi inestimabili di conservanti, coloranti e schifezzanti che appena li annusi muori. Si tratta anche qui di un caso di vittoria dell'istinto di autoconservazione.
Ma bando ai tergiversi, si stava parlando della giovin regional consigliera. E, poveretta, io non dirò mai una parola contro la sua carriera, in fondo per arrivarci deve aver fatto di quei sacrifici che altro che levatacce antelucane per prendere il treno, altro che esami da preparare, altro che qualsiasi altra cosa, se solo i di lei N orifizi (per un'accurata stima del valore di N si legga Il pendolo di Foucault, U. Eco, edizioni una delle migliaia che ci saranno in giro) potessero parlare, possibilmente dopo apposito collegamento con quel chilo e mezzo di cervello che dovrebbe esserci garantito in fase di assemblaggio, allora forse sì capiremmo quante ne ha passate, per arrivar fin lì.
E che per recuperare tante bassezze non esisterà mai un posto abbastanza alto e prestigioso.


giovedì 27 settembre 2012

Una posa difficile

Una signora stava spiegando a un paio di conoscenti il proprio parere nei confronti di De Andrè, e per farlo ha tirato in ballo Battisti. Quello che stava dicendo era che "De Andrè è sempre De Andrè" - e Parigi è sempre Parigi, avrei aggiunto io - "e non solo le sue canzoni sono belle, ma aveva anche un modo di cantarle unico, tanto che è difficile trovare qualcuno che, provando a cimentarsi, non finisca col fare rimpiangere l'originale. Viceversa, Battisti... Le canzoni di Battisti può cantarle chiunque. Mina canta Battisti? Sì, e la ascolti volentieri".

Ora, che Mina sia un chiunque già mi sembra un'affermazione azzardata. Che le canzoni di Battisti possa effettivamente cantarle chiunque lo è, a mio parere, ancora di più, perché trovo che, nonostante non fosse particolarmente intonato, riuscisse a creare, cantando, un'atmosfera di completo distacco e quasi straniamento. Di disimpegno. Di passavo di qua per caso e mi son messo a cantare una canzone, ma non lo sto facendo apposta. Insomma di naturalezza, che magari poi era studiatissima e meditatissima, non saprei, ma in ogni caso chiunque provi a ottenere quello stesso effetto si ritrova nella situazione paradossale di forzarsi a fare una cosa naturale, come quando cerco di apparire noncurante e disinvolta e finisco col far cadere qualsiasi cosa abbia in mano (generalmente qualcosa che produrrà molto rumore), oppure come quando riconosco da (relativamente) lontano, poniamo da una distanza x0, qualcuno che a propria volta, mi accorgo, mi ha riconosciuta, ma siamo troppo distanti per salutarci e quindi ci si viene incontro fino a raggiungere la Distanza Adatta al Saluto, che indicherò con xDAS, ma nell'intervallo di tempo di percorrenza del tragitto per portarsi dalla distanza x0 alla distanza xDAS non si sa bene dove guardare, o meglio, io non so bene dove guardare, perché a fissare la persona a cui sto andando incontro mi pare di essere in una specie di duello preso da un qualche film western, e quindi dovrei guardare con nonchalance qualcos'altro attorno a me, ma non riesco mai a ricordare come faccio, quando sto camminando e non sto guardando qualcosa in particolare, a comportarmi con questa naturalezza.
Ho provato a "cogliermi di sorpresa" mentre cammino, a tendermi degli agguati facendomi fare finta, all'improvviso, che quel perfetto sconosciuto che sta camminando nel verso opposto al mio e che quindi mi sta venendo incontro sia in realtà un amico che in teoria dovrei salutare una volta raggiunta la distanza xDAS.. Finora è stato un fiasco totale, non faccio in tempo a pensare la cosa che, puf!, ogni disinvoltura sparisce.
Che posa difficile da mantenere, aveva ragione Oscar.

martedì 25 settembre 2012

Il tempo si è offeso e fermato, da allora più neanche un ticchettio

Succede che si rompa qualcosa. Prima funzionava, dopo un tic veniva un tac, con alternanza prevedibile e rassicurante, e rassicurante in quanto prevedibile. E tu facevi parte delle cose rassicuranti, benché non prevedibili, anzi, ogni volta c'era da chiedersi cosa ti saresti inventato.
La situazione in cui mi hai spiazzata di più è stata quando quella che allora era una mia professoressa delle medie, trovandomi in piazza in tua compagnia, ci avvicinò dicendomi che le avevi riportato un nostro dialogo, nel quale non mi facevo problemi a riferirmi a lei come a una cicciona che doveva entrare in aula di profilo per non rimanere incastrata tra lo stipite e la porta. E io avevo undici anni e avrei voluto sprofondare, ma in qualche modo son riuscita a nascondermi dietro Lamarta, presente alla scena e a propria volta, suo malgrado, chiamata in causa. Quando poi ti chiesi perché diavolo glielo avessi raccontato, la tua risposta serafica (e non falsamente serafica) fu che tanto lei lo sapeva che era vero e in fondo, che male c'era?
Era il tuo modo di insegnarmi a non fissarmi su quello che io penso che gli altri pensino che io stia pensando (si proceda ad libitum in questo giochino di scatole cinesi).

Una cosa che ci piaceva fare, oltre a guardare i mondiali di atletica (tu tifavi Merlene Ottey) soffermandoci sui commenti ridicoli dei cronisti, era commentare le pubblicità. Ogni tanto passavamo mentalmente in rassegna quelle recenti che ci venivano in mente, perché alla fine è quasi come parlare di un film, in poche decine di secondi si può riuscire ad annoiarsi, a divertirsi, a infastidirsi e così via. E così in questi giorni pensavo a quanti e quali insulti avresti rivolto alla mente che ha partorito quell'oscenità, quello slogan emetico e disgustoso che è il senza fretta, Limoncetta, al quale si può sopravvivere solo con una seduta di fit boxe, forse.
Ma poi, di punto in bianco, hai deciso di fermarti al tic.

lunedì 24 settembre 2012

Repetita

Questo fatto è successo per lo meno tre anni fa, e senza un motivo apparente mi è tornato alla memoria in questi giorni. Ero in autobus, mattina, un po' prima delle otto, quindi l'orario di picco degli studenti, e in questo contesto ho assistito a una conversazione che aveva del grottesco: a una fermata sale un ragazzino che si accorge che tra la gente aggrappata alle maniglie c'è quello che si sarebbe poi rivelato essere un suo compagno, o un suo amico, o quel che fosse, fatto sta, i due si conoscevano. Il secondo dei due, che d'ora in avanti verrà identificato con il soprannome da me coniato di "Auricolari", ha, per l'appunto, gli auricolari nelle orecchie. I due ragazzi si vedono, si salutano con un cenno vagamente annoiato e senza traccia del minimo movimento da parte di qualsivoglia muscolo facciale. Il primo si fa strada tra la gente e si avvicina all'altro.

Ragazzino appena salito: Come va?
Auricolari: Eh?
Come va?
Auricolari, disorientato: ...eh?
Come va, come stai? Bene, male, sai... Come va?
...tempo di reazione di Auricolari...
Auricolari, disorientato ma un po' meno: Ah... ah, bene.

Fine. E io di colpo li ho visti invecchiare, come se uno strato di fuliggine calasse inesorabile su di loro a ogni mancata risposta alla domanda, rendendoli grigi, vecchi, logori.

Poveretto, il primo. Poveretto? O non se l'è piuttosto cercata? Come gli è potuto passare per la mente di rivolgersi a uno che evidentemente non dimostrava la minima intenzione di staccarsi dal duplice cordone auricolare che lo legava all'ipod?
Lo scambio di battute, o come vogliamo chiamarlo, si è concluso così. Ciascuno dei due ha continuato a mantenere il proprio sguardo vacuo perso verso niente di particolare, ciascuno con quell'espressione inguaribilmente annoiata che va tanto di moda.

sabato 22 settembre 2012

La grande famiglia

Ci sono delle situazioni in cui ci si sente da soli anche se si è in mezzo a tantissima gente.
Ce ne sono altre, viceversa, nelle quali si sente di far parte di un'iperentità nella quale ciascun organismo, inteso come essere umano, è solo una piccola parte, un atomo, una pedina che svolge il proprio ruolo, nella quale ciascuno di noi rappresenta una quota di intelligenza distribuita che solo nell'interazione e nella cooperazione trova il proprio senso e compimento.
Sono momenti di esaltazione, durante i quali viene da sorridere e da abbracciare chiunque ci stia attorno. Ci si sente più forti, e quella forza è data dalla consapevolezza che siamo davvero tutti sulla stessa barca.

Prima stavo guidando per tornare verso casa. Tre automobili di fila, che stavano procedendo nel verso opposto al mio nell'altra corsia della carreggiata, hanno fatto lampeggiare i fanali per avvisarmi della presenza dei vigili di pattuglia con tanto di autovelox.

martedì 11 settembre 2012

Cosa stavo dicendo?

Va sempre a finire che dei discorsi che si fanno io mi perdo sulle cose non essenziali, su quelle casuali, sui riempitivi senza pretese. Questo non significa che io parli verso gli altri piuttosto che con gli altri, o forse un po' è così, ad ogni modo posso dire che questo non significa neanche che mi dia noia parlare con gli altri anche se a ben guardare non significa nemmeno che non me ne dia. Posso però dire che, nonostante me, mi piace molto parlare con gli altri, a volte anche verso gli altri, benché non nutra molta stima per gli altri. Per lo meno non per molti.
Ci vuole in genere molto poco per capire se una persona sta parlando con me o verso di me, e purtroppo nel secondo caso non sempre lascio perdere. O meglio, se sono in coda alla posta e il tipo che ho vicino comincia a parlare verso di me solo per il gusto di parlare verso qualcuno che dia retta e possibilmente anche forza alle sue lagnanze su quanto lenti siano gli impiegati agli sportelli, beh, in questo caso non solo lascio perdere, ma ostento un'indifferenza granitica e un'imperturbabilità olimpica.
Se invece l'altro sta parlando verso di me nel senso che si è in due, uno dei due sono io e l'altro è una di quelle persone che non si curano molto della propria reazione di risposta, allora non lascio perdere per niente al mondo, e mi ritrovo disposta a portare avanti una conversazione completamente inutile.
In genere chi parla verso può essere ricondotto a due macrocategorie, o per lo meno queste sono quelle che sono riuscita a individuare finora: la prima, formata da tutti coloro che parlano tantissimo e che non è possibile interrompere, magari ci si può provare, a volte si riesce a intrufolarsi e a buttar lì una mezza opinione che porterebbe il discorso su altri lidi, ma niente, appena si chiude bocca riprendono esattamente dal punto in cui si erano, a malincuore, interrotti. La seconda, formata da coloro che invece son ben disposti ad ascoltare, ma in genere si fermano al primo significato di ciò che gli si dice, vanno oltre al senso letterale solo con grossissimi sforzi e possibilmente dopo che gli si è fatto notare che quello appena usato è solo un modo di dire, una metafora, una battuta, uno stavo scherzando.
Ecco, io faccio fatica con entrambe le categorie, ma forse tra le due la seconda è la più difficile da gestire. Dovrei iniziare ogni dialogo premettendo che io condivido solo una parte di ciò che dico, il che è anche sempre più vero. E, sì, finisce che mi perdo sulle cose non essenziali, sulla combinazione dei colori delle maglie delle persone che ho di fronte, sul loro linguaggio buono superficialmente ma perché così pedante?, su accostamenti che non avrebbe senso far notare in quel momento, a meno di sentirmi chiedere in tono scocciato se sto ascoltando o mi sto facendo gli affari miei.
Il mio problema è che sto ascoltando, ma il mio cervello esige che ogni cosa gliene ricordi un'altra, sennò si perde.
Devi ricordarmi qualcosa, sennò ti perdo.

domenica 9 settembre 2012

Figura e sfondo

Nelle prossime righe credo che parlerò della Morte. Anzi no, non della Morte, ma della morte, nonostante un tizio che si spacciava per mio professore universitario portasse avanti la teoria secondo cui le maiuscole non avrebbero ragion d'essere. Non ho mai avuto modo di approfondire quanti e quali rancori nutrisse nei loro confronti, tant'è, per me in questo caso una maiuscola fa la differenza.
Ieri sentivo per il telegiornale una donna spiegare che prima di affrontare il mare bisogna conoscerlo, perché, benché molti credano che sia nostro nemico, in realtà può diventare un amico sincero e sicuro. Quindi ho dedotto che stesse parlando non del mare, ma del Mare, e mi son trovata a pensare che se avessi avuto di fronte a me la suddetta persona, ma in carne e ossa e non in semplici pixel, le avrei chiesto che senso avesse parlare del mare (pardon, del Mare) in termini di amico o nemico, come se a lui (esso?) potesse importare qualcosa di chi gli passa sopra (e dentro). In fondo in tante migliaia di anni non abbiamo perso quell'inveterata abitudine di antropomorfizzare tutto, o forse no, non è tanto l'aspetto che ci preoccupa, quanto il carattere e il comportamento. Quindi il mare, che è tanto cosciente di me che ci nuoto dentro quanto io di un transistor a caso del computer con cui sto scrivendo (anzi, molto molto molto meno, per lo meno a me interessa che il transistor funzioni), a sentire la signora di cui sopra dovrebbe essere un'entità che si accorge del rispetto che le viene riservato, e in caso lo giudichi insufficiente potrebbe decidere di riservare una lezione al malcapitato navigante. O qualcosa del genere. O anche molto di più. Non sarebbe molto più semplice considerarlo solo un enorme, smisurato bicchiere d'acqua, solo senza bicchiere, e togliergli quegli assurdi e terribilmente umani connotati?
Ma questo non vale solo per il mare, il discorso si può allargare a tutte quelle cose alle quali siano state associate caratteristiche antropiche completamente fuori luogo. Tra queste cose, come promesso all'inizio, c'è senz'altro la morte.
Da noi (dove per noi intendo l'Italia del ventunesimo secolo) di solito è di genere femminile, veste in total black, talvolta gioca a scacchi, o almeno così ci ha dato a intendere Bergman, anche se per lui era un uomo, è cupa, triste, insensibile, scaltra, meschina e così via. A dirla tutta, se proprio dovessi scendere al compromesso di doverle (dovergli?) riconoscere qualche caratteristica umana, preferirei associarla a quell'immagine materna che ne dà la Allende in alcune sue storie, dove la dipinge come una donna allegra, accogliente, consolatrice e morbida.
Ma in entrambi i casi si tratta di descrizioni fittizie, sarebbe come se volessimo dare un volto e un carattere alla prometafase, per carità, se a qualcuno interessa farlo ne è ben libero, ma tanto sforzo per un processo biologico mi sembra un po' eccessivo e, quel che è peggio, fuorviante.

Una decina di anni fa mi fecero leggere un dramma teatrale che al momento trovai fastidioso. L'ho riletto l'anno scorso e ho rovesciato il mio giudizio, cosa non può fare una traslazione in avanti sull'asse del tempo. Il protagonista, durante una lite, mette a tacere la propria interlocutrice con una domanda che allora giudicai fastidiosamente affettata (Have you ever seen anybody die?), senza contare che lui mi stava antipatico e non poco. Mi ritrovo spostata sull'asse t, rileggo quella domanda e penso che non sarebbe male se venisse chiesta a chiunque, prima di essere sistemato qui, e che il successivo essere sistemato qui dovrebbe dipendere dalla risposta data.
Ma bando ai cavilli, tu mi hai salvato la vita, ora me la devi alleviare.