martedì 28 novembre 2017

La teoria gender dell'aspirapolvere

A me piaceva studiare latino. La grammatica, le versioni da tradurre, il sollevamento pesi col Castiglioni Mariotti, quelle robe là, insomma. A me piacevano. Certo, non mi aiutavano l'essere dotata di (1) un'innata propensione a mettere gli accenti sulle vocali sbagliate e (2) una sorella di cinque anni più vecchia di me che stava facendo il classico e che a propria volte era dotata di (1) un'innata propensione a correggere gli accenti sbagliati e (2) una certa inclinazione a essere molto assertiva e perentoria e, a tratti, vagamente irridente nel farlo. Va detto che exèrcitibus non si poteva sentire. Capace che sia ancora là che ridacchia. Tant'è.
Col tempo mi son fatta un po' di orecchio e gli accenti hanno cominciato ad andare al posto giusto, ma il trauma della Sorella Più Vecchia Che Ha Fatto Il Classico è duro da superare, anzi, tende a rimanere irrisolto. Soprattutto quando mi trovo di fronte a sostantivi tipo aspirapolvere. Lascia stare il latino, qua il problema è in italiano. Anzi, se ci fosse ancora il latino, facile che aspirapolvere sarebbe neutro, e invece in italiano è...? È maschile, certo, solo che io sono dotata anche di (3) un pervicacissimo istinto a declinare aspirapolvere al femminile, cosa che in questi anni ha non solo scatenato il lato maestrinamente irridente di mia sorella, ma ha pure alimentato in me grandi sensi di colpa per il mio evidentemente congenito disinteresse per il femminismo: anni di lotta per guadagnare un po' di diritti e per toglierci di dosso l'immagine di angeli del focolare, e poi arriva il mio subconscio che mi fa declinare aspirapolvere al femminile, shame on me, possano le suffragette e le sessantottine e tutta quella gente là avere pietà della mia anima.
Fino a che... colpo di scena. Arriva colui che in più di un'occasione ho pensato essere la reificazione del Maligno, l'origine e causa di tanti pugni sulla scrivania, insomma, si sarà capito che mi sto riferendo a (pausa ad effetto)...
Microsoft.
Office.
Word.

In ufficio, documento aperto, ci devo scrivere "un aspirapolvere" (sul perché debba parlare di un aspirapolvere in un documento di lavoro passo oltre, la parentesi che si aprirebbe sarebbe più lunga e noiosa di questa). Lo scrivo. Attimo di esitazione. L'apostrofo? No. Sicura? Sì. Assertiva. Perentoria. Senza apostrofo, lo sappiamo tutti che è maschile. Ma lui, Word, anzi, Microsoft Office Word mi aspetta al varco, e mi segna errore blu. Lì. Su "un aspirapolvere". Errore. Non mi vede nessuno, ci clicco sopra col tasto destro. Ho perso un po' di assertività, lo sento. Microsoft Office Word mi suggerisce che la scrittura corretta è "un'aspirapolvere". Percepisco chiaramente che anche la mia presunta perentorietà è in picchiata. Anche la mia grammatica, mi sento pronta a rimettere tutto in discussione, accenti, apostrofi, articoli, generi, tutto. Da sola contro il Maligno non ce la faccio, mi serve l'Oracolo, chiedo a Google, che mi scrive grande così "sostantivo maschile". Mi sembra quasi di sentire mia sorella che ridacchia.
Quindi? Quindi porto avanti la mia personale battaglia cercando di evitare di iperventilare ogni volta che apro quel documento e vedo la serpentina blu di errore sotto quelle due paroline.

Se poi un giorno mia sorella e Microsoft Office Word decidessero di incontrarsi e parlarne, mi facciano sapere che mi prendo i pop corn.

martedì 26 settembre 2017

Maldestra

Capita che riesca a farsi strada una luce incredula, maldestra, capita che riesca a farsi strada tra i colori lividi di certi mattini d'autunno.
Capita che si infranga nei gialli e nei rossi degli alberi.
Capita. 
Maldestra, ma capace di tingere di caldo e di calma il silenzio.


martedì 12 settembre 2017

La spesa di montagna e la spesa di città

M abitava in un paesino di montagna.
Forse quello che io definisco paesino non era poi neanche così -ino, tant'è, M ci abitava, e per la precisione abitava in un bel condominio, davvero curato, elegante, una sistemazione apparentemente invidiabile se si era disposti a soprassedere sul fatto che di quel condominio M abitava l'appartamento al quinto piano, una bella vista, certo, da finestre e terrazzino, ma bisognava confrontarsi con l'evidenza per cui il condominio in questione non aveva ascensore, era elegante, sì, ma senza ascensore né montacarichi e, per quanto fosse una sistemazione provvisoria, M sapeva bene ormai che ogni volta che fosse andata a fare la spesa avrebbe poi dovuto vedersela, da sola, con quei cinque piani di scale, quelle dieci rampe da salire scarrozzandosi dietro borse e pacchi, e a poco sarebbe valso lamentarsi, c'erano le bottiglie d'acqua da portare per un centinaio scarso di scalini, la cosa andava fatta contando sulle proprie gambe, sulle proprie braccia, e questo era tutto. Vero è che M non era certo il tipo di persona che si sarebbe fatta scoraggiare da quello che forse avrebbe definito come un dettaglio, anzi, abituata ad arrangiarsi com'era, sarebbe addirittura stata disposta a vedere la situazione come una sfida quotidiana.
Ricordo quando andai a trovarla: pensavo di essermi portata una valigia leggera, ma già al terzo piano dovetti rivedere le mie stime.

C abitava in città, al piano terra di una bella palazzina ristrutturata di recente.
Ricordo quando andai a trovarla: stava sistemando nella dispensa la spesa appena fatta, ma era infastidita, si lamentava con me per essere dovuta andare da sola al supermercato, in effetti lei odiava fare la spesa da sola, insisteva a farmi notare che ci andava solo con suo marito, perché lei odiava dover portare le borse, odiava che fossero così pesanti, pertanto no, non ci andava mai da sola, ma solo quando suo marito... La guardavo parlare, ma smisi di ascoltarla; la guardavo muovere la bocca e sistemare le melanzane e le zucchine nel frigo, la guardavo e pensavo a M e alle sue dieci rampe, poi pensavo a me che di rampe ne ho solo due ma che la volta che devo portarmi in casa qualcosa di un po' più ingombrante del solito tiro giù qualche santo, anche se il santo di turno non s'è mai accollato manco una misera sporta, finisce sempre che m'arrangio, e pensavo anche che quando aiuti qualcuno devi fare molta attenzione per non rischiare di renderlo un incapace, e intanto continuavo a guardarla senza più ascoltarla, parlava e sistemava, e io la guardavo e pensavo ai fatti miei, non avendo più alcun interesse per ciò di cui si lamentava, e pensavo che se c'era un aggettivo che non avrei mai usato per descrivere M sarebbe stato proprio incapace, mentre C, di fronte a me, col gatto che con un tempismo davvero infelice aveva deciso che quello era il momento adatto per strusciarsi sulle sue caviglie, contribuendo peraltro alla mia distrazione, C, dicevo, stava facendo una memorabile ammissione di disposizione all'incapacità, e una ancor più memorabile dichiarazione di ottusa indelicatezza, a differenza del gatto, che decise di venire ad acciambellarsi sul divano dove m'ero sistemata.

Rumore di fusa.



venerdì 1 settembre 2017

Chi è senza cervello scagli la prima pietra

Non ci vedevamo da parecchi mesi, Esatto e io, e ci mettiamo poco ad accorgerci che di cose da raccontarci ne abbiamo per più di un aperitivo, così improvvisiamo una cena al libanese.
Nel bel mezzo del mio tabulé se ne esce, incauto, con la frase: Certo che è una bella sfiga essere intelligenti. Dissimulando il mio sospetto me ne tiro fuori, o almeno ci provo, non sentendomi coinvolta. No, non mi sento coinvolta, ma in compenso mi accorgo di una certa mia curiosità, quindi gli chiedo di spiegarmi cosa intenda con intelligenti, e in che modo dovremmo far parte della categoria, precisando che devo ancora trovarla una persona che, interrogata sull'argomento, ammetta di ritenersi intimamente e sinceramente stupida.
Mi risponde utilizzando una serie di sinonimi fino a citare, tra gli altri, l'aggettivo sensibili. Ma anche qui mi ritrovo a pensare che non conosco nessuno che non si ritenga tale: quelli che guardano i programmi spazzatura, quelli che non dovrebbero avere il diritto di voto, quelli che adottano comportamenti presuntuosi e di cattivo gusto, quelli che parlano prima di pensare sono sempre, sempre, gli altri, tutto questo mentre ciascuno (o quasi) di noi è tutto preso dal considerarsi attento e, per l'appunto, sensibile.
Ma d'altronde, mi dico, se occorre che ci inganniamo, tanto vale farlo sopravvalutandoci: non ci si rimette in fondo più di tanto, e ci si tormenta di meno.


domenica 27 agosto 2017

Un doppio ribes con ghiaccio

Hanno un bel dire i complottisti, i sociologi, i filosofi e il barista qui sotto, che il Sistema sarebbe lì che lavora per mettere a punto tecniche di distrazione di massa sempre più efficaci: la musica nei supermercati, i social, le mille reti tv, i programmi di disimpegno costante, ... Hanno un bel dire per provare a convincermi che tutto trami perché non ci sia mai la possibilità di stare in silenzio, da soli, a pensare, ad annoiarsi, a chiedersi come va. Ma se così fosse, come la mettiamo con la coda in tangenziale? Perché il Sistema non mi mette in piedi una quadrupla corsia, se non vuole lasciarmi lì, ferma, in silenzio, I, me, and myself?

Si vedevano le montagne, e pensavo a quante frasi, a quanti gesti, sentiti, visti, vissuti, avessi interpretati in modo evidentemente sbagliato, in quante circostanze e con quante persone. Era un pensiero più generale che particolare, benché dal particolare fosse partito. Stavo facendomi questo à rebours tutto personale, e arrivavo alla conclusione di essere stata semplicemente molto molto distratta, niente di drammatico, solo una pervicace distrazione che mi aveva nascosto tanti piccoli avvertimenti che non sempre erano stati poi così piccoli.
Si vedevano le montagne, e mi immaginavo un sentiero dove qua e là, ogni tanto, compariva un cespuglietto di ribes, e ogni bacca era lì per essere colta, mancava solo l'etichetta Eat me come nel paese delle meraviglie di Alice, o forse c'era pure l'etichetta ad avvisarmi che quelli erano tanti piccoli caveat da cogliere, ma nella mia distrazione li avevo interpretati in modo sbagliato. Lungo certi sentieri ci si sforza, ma insensibilmente, per nascondere persino a noi stessi dubbi e titubanze. O almeno questa è la teoria a cui sono arrivata.
Ma chiederò conferma al barista qui sotto.


venerdì 18 agosto 2017

Il mio amico George (30)

"D'altronde era stata una tua idea quella di invitarla a pranzo, quel sabato", mi rimprovera George mentre, un po' sovrappensiero, guido verso casa.
"E dato che l'idea era stata tua, ti confesso che in più di un'occasione ero stato tentato dal piantarti lì a sbrigartela da sola. Sì perché parlare con lei mi dava la sensazione di sprofondare. Di sprofondare, lentamente, in fondo all'oceano. Un senso di oppressione progressivo, un buio via via più fitto. Che poi... Parlare... Si trattava più che altro di sentirla parlare, c'erano ben poche occasioni per intervenire e interromperla. Nemmeno ascoltarla avrebbe avuto alcun senso e, mia cara, spero proprio tu non lo stessi facendo. Non serve ascoltare chi ritiene di dover essere importante per tutti quelli che incontra".
Non potevo dargli torto, ci eravamo ritrovati a sistemare i piatti con un insolito senso di liberazione, non appena se n'era andata. Non potevo dargli torto nemmeno nel riconoscere che era stata una mia idea. Avevo invitato a pranzo una persona che, come l'aveva definita lui, pensava di dover essere importante per tutti quelli che incontrava.
Me n'ero resa conto alla frutta.

martedì 8 agosto 2017

Pensieri a carena asciutta

Di quella vastità che fa ridimensionare tutto il resto. Che, a trovarcisi di fronte, ogni idea appare semplice, finita.
Un'idea semplice come la cantilena senza senso che ripete ogni sera, ogni sera uguale, tanto da infondere una sorta di sollievo, da risvegliare una malinconia arcana.

Assomiglia alla cantilena del mattino. Ma solo a un orecchio distratto.


lunedì 17 luglio 2017

Il patchwork di ritagli di tempo

Ombre lunghe e cielo in fiamme, così come si conviene alle sere di tarda estate. Ombre lunghe e cinque minuti solo suoi, quanto gli serviva per notarlo, l'orizzonte incendiato.
Era nei ritagli di tempo che recuperava sé stesso, il personaggio più assente in quella che era la propria vita.
Ma quella sera capii che avrei dovuto prenderli tutti, quei ritagli, e attaccarli. Ne avrei fatto un patchwork, sì, li avrei cuciti in un patchwork di tempi, mi disse.

Thou hast heed'd that I am of innocence,
Yet thou let'st thy lass into peril



domenica 9 luglio 2017

La valle in ombra

Ne vedeva poca, di luce, quella valle.
Chiusa com'era tra i monti, incastrata vicino al confine, condivideva con l'ombra la gran parte del proprio tempo.
Eppure un paesello si era inspiegabilmente formato proprio in quel luogo.
Ed era cresciuto, con gli anni, quel paesello. Ma l'anima di coloro ai quali toccava in sorte di nascervi, no, quella non cresceva. Sembrava diafana, pallida.
Impreparata ad altre regioni, meno crepuscolari. Inadatta ad altri luoghi, meno riparati.


giovedì 29 giugno 2017

Chiamano pioggia

Com'era giusta, stasera, la pioggia.

La siccità, certo, e la polvere.
Le piante e i campi stremati, e i fiumi assetati, e tutto quanto fosse avido di vita la aspettava.
Alla finestra, mi sono accorta che anche io la aspettavo. E che non mi importava di chi stesse camminando con i sandali, né di chi avesse lasciato il bucato steso sul terrazzo. Non mi importava.
Doveva cadere, e doveva farlo con violenza estiva.

Cadeva, con giustizia, e le cose riprendevano vita.



mercoledì 7 giugno 2017

Silenzio

"C'entra senz'altro ciò di cui lei mi parla, questo aver sostituito il bisogno con il desiderio. Ma c'è dell'altro, credo. C'è che da sempre ci viene detto che ci vuole tempo per metabolizzare un dolore, per accettare una perdita, ma in questo prepararsi a ciò che ci sia di negativo si rischia di arrivare impreparati ad affrontare la gioia, quella inaspettata, impreparati, e smarriti, e badi che è uno smarrimento splendido, da non volerne più sapere di trovare la strada di casa.
Per vivere questo smarrimento ricorro al silenzio. Silenzio di vento, di verde".


lunedì 1 maggio 2017

Definizioni

Qualche sera fa, complice il sonno o forse la speranza di ottenere davvero una risposta, Orfeo mi chiese se sapessi cosa fosse X.
Nella domanda che mi pose, X era ovviamente un sostantivo ben preciso, ma non è questo il punto. A ben vedere X avrebbe potuto essere qualsiasi concetto astratto: paura, giustizia, amore, malinconia, bellezza, ...
A scelta. E in effetti era una delle voci nell'elenco.
Ma io non lo sapevo, e non lo so, cosa sia X. Di più, non so nemmeno se abbia senso che cerchi di trovare una risposta, perché non saprei che farmene. Diamo pesi così diversi, così irrimediabilmente soggettivi ai gesti che facciamo o non facciamo, figuriamoci quanto dissimile può diventare la percezione individuale di una parola. Non saprei che farmene, di una risposta.

Oggi mi limiterò a considerarle X come se fosse il mare visibile, immaginando che finisca là dove si profila l'orizzonte, confidando che si fermi lì, che non ci sia alcunché di nascosto, e che significhi solo quanto riesco a percepirne.
Domani potrei intuire che, più oltre, forse c'è dell'altra acqua che non vedo.



mercoledì 26 aprile 2017

Ne sarebbe valsa la pena?

L'attimo in cui, alla stazione, il treno ripartiva e io con lui, in quell'attimo mi sembrava di stare perdendo tutto ciò che sarebbe successo ai passeggeri che erano appena scesi, e che vedevo allontanarsi dal finestrino.
Io, seduta verso la mia destinazione; loro, diretti verso qualsiasi cosa decidessi di immaginare.
O forse diretti verso le rispettive abitudini, nate come un filo sottile, leggero, troppo leggero per accorgersi della sua esistenza, un filo che è destinato a diventare spesso e robusto, troppo robusto per essere tagliato.
L'abitudine che scivola nella monotonia, la monotonia di sé stessi, proiettata nel tutto attorno.


E ne sarebbe valsa la pena, dopo tutto, 
Ne sarebbe valsa la pena, 
Dopo i tramonti e i cortili e le strade spruzzate di pioggia, 
Dopo i romanzi, dopo le tazze da tè, dopo le gonne strascicate sul pavimento 
E questo, e tante altre cose?
È impossibile dire ciò che intendo
- T. S. E. -




martedì 25 aprile 2017

Gli altri.

"Sono davvero gli altri il problema, o forse è il suo punto di vista molto poco privilegiato a farle distorcere l'immagine che di loro si è costruito?
Da qui, mi creda, la prospettiva è migliore. Da qui è immediato accorgersi che siamo tutti in balia dei verbi servili, tutti ad arrabattarci tra ciò che vorremmo succedesse e ciò a cui dobbiamo sottostare, tra ciò che non possiamo mantenere e ciò che non sappiamo capire".

Forse, pensava, era proprio grazie a quella prospettiva, era grazie a quel da qui che lei appariva così imperturbabile. Ascoltava, per mestiere, rottami di anime tenuti malamente assieme da infondate speranze, rottami il cui unico desiderio confessabile era spesso quello di sparire. Ascoltava gli altri. Nel tempo in cui lui li idealizzava, invidiandoli, lei li ascoltava, e ciascun racconto le ricordava quanto sapessero essere incoerenti, quegli altri così irreprensibili. Quanto potessero diventare incostanti, assenti.


martedì 18 aprile 2017

Never quite as it seems

Era di quelle persone che sbucciano le mele partendo dall'alto, vicino al picciolo, e poi girano attorno attorno e per quanto tu faccia attenzione non sapresti dire se tengono fisso il coltello e girano lentamente la mela o viceversa, ma mentre cerchi di studiare i movimenti delle mani una strisciolina sottile e via via più lunga già si accumula sul piatto, come fosse la pelle di Didone, e quella stella filante cresce, fragilissima, basterebbe un niente per spezzarla, ma l'atteggiamento concentrato e metodico con cui si muoveva mi lasciava credere che sarebbe arrivato alla calicina senza interruzioni.
Staccò lo sguardo dalle proprie mani solo per guardarmi negli occhi, solo un istante.
"È soltanto un sogno, e il tempo è bizzarro, nei sogni".
Solo un istante, ma sufficiente a far rompere la buccia.
"Puoi sempre svegliarti, se ti spaventa troppo".

giovedì 6 aprile 2017

Un pozzo che fissa il cielo

Viveva come se non ci fossero alternative, e invece le alternative c'erano sempre state, ma non era mai stato un suo dovere quello di compiere delle scelte: in ogni circostanza c'era stato qualcuno che le aveva fatte al suo posto.

Adesso la possibilità di prendere una decisione non giusta pesava come un mattone nello stomaco. Continuava a ripetersi che per compiere scelte corrette bisogna aver acquisito una certa esperienza sul campo delle decisioni sbagliate. E sapeva bene di non avercela, quell'esperienza.
L'errore è un insegnante severo.
La scelta sbagliata viene compiuta per un malinteso, si diceva, non ci si risolve a far qualcosa di sbagliato proprio perché sia tale, ma perché lo si confonde con la felicità. O per mancanza di fantasia.

"...credo che il motivo per cui sono rimasta qui debba essere spiegato con una mancanza di immaginazione. Non sono stata capace di immaginare niente di meglio"
- D. B. -


martedì 4 aprile 2017

Un distacco dal tempo

A farmi sentire ancora più inerme e sprovveduta era la naturalezza con cui sapeva capovolgere tante convinzioni che mi portavo addosso come una coperta di Linus.
Per esempio, trovava comprensibile il non voler rinunciare a un dolore perché, mi spiegava, è vita, il dolore, a suo modo, fa sentire vivi.
Nell'aria un via vai di silenzi. Vivi, anche loro.

domenica 2 aprile 2017

Come timide zavorre

Timide. Alcune paure sono timide, sommesse.
La mia paura dell'acqua, invece, è prepotente, e arrogante, tanto da lasciare in ombra altri timori e insicurezze più nascosti, e più pesanti.

giovedì 30 marzo 2017

Forse

Sono poche le situazioni in cui riesco ad accorgermi e a sentire il simile in chi mi è dissimile. Pensava a questo mentre tentava di scorgere una poltrona per sedersi, facendo tuttavia attenzione a non prendere i posti che giudicava migliori, era una questione di priorità, o di educazione, insomma, meglio accontentarsi delle retrovie.
Forse vorrei essere migliore, si diceva, forse. Forse vorrei lasciare che si rompano, gli altri, su di me, come gocce di pioggia.

lunedì 27 marzo 2017

Un post al sole

Un inizio di giornata, ieri, di quelli che a essere di buon umore si sente il bisogno di uscire, possibilmente presto, quando l'aria è ancora un pochino pungente e i muscoli, freddini pure loro, capiscono da soli che è il caso di darsi una mossa. Per un concorso di colpa, poi, tra la pioggia notturna e il sole mattutino, tra un bel vento che tirava da, mi dicono, sud ovest (ma la cosa ha scarsa importanza, tanto da qualsiasi parte soffi, finisce sempre che i capelli devo pettinarli con le forbici) e la primavera che incalza, i colori erano così lucidi da sembrare nuovi, appena spacchettati, vivaci come poche volte si riesce a vederli.
Con queste premesse decidiamo, Efkt e io, di svegliarci con una passeggiata lungo un sentiero in mezzo ai colli. Non è che la cosa in sé sia particolarmente degna di nota: voglio dire, si è in due, si cammina e ci si racconta un riassunto degli ultimi otto anni, nel corso dei quali ci si era perse di vista. Ma? Appunto. Ma.
Capitano a volte episodi piccoli che interrompono il niente da segnalare, e in questo caso a farsene carico è stata una ragazza in perfetta tenuta da corsa (pardon, da running) che ci avvicina chiedendoci se possiamo, per favore, farle una foto mentre corre, è una giornata così bella!
Nel chiedercelo mi allunga l'iphone, già con la fotocamera attiva, e si allontana correndo. La situazione presentava dei tratti inequivocabilmente grotteschi, un tempo si prendeva qualcosa a qualcuno e si scappava con la refurtiva, ora si consegna un oggetto a un estraneo e si scappa, robe da non credere, spero che il codice penale sia stato adeguatamente rivisto. Mentre rapidi pensieri a sfondo sociologico e legislativo mi sfiorano il cervello, mi ritrovo a fare una mezza dozzina di foto, tutte uguali, a una tizia di spalle che corre. Grazie al cielo non fa più di cinquanta metri e ritorna a prendersi ciò che le appartiene, ringraziandomi calorosamente. Sorrisi. Saluti.
Guardo Efkt, che a propria volta mi guarda, entrambe con un'espressione che tradisce incredulità e un sarcasmo trattenuto. Ci limitiamo a rassicurarci a vicenda, oggi una persona riceverà i like di cui ha bisogno. E noi, con dissimulata amarezza, si è contribuito a renderla felice.

martedì 21 marzo 2017

Beautiful vulnerability

Entra in camera, George, mentre sto preparando la valigia con la mente curiosamente leggera. Sta mangiando una rotella di liquirizia, svolgendola con calma, lo sguardo insolitamente assente. Anche per i suoi standard, intendo, che pure sono abbastanza alti.
"Un giorno, chissà se ti ricordi, mio papà mi disse che se non ci fossi stato io sarebbe andato via. Eravamo vicino al ciliegio. Avrò avuto dodici, forse tredici anni".
Sì che mi ricordo, c'ero anche io, vicino al ciliegio. Ma decido di fingere di non conoscere quell'episodio, in modo che sia lui a raccontarmelo, perché sembra che abbia voglia di parlarmene.
E invece non dice nulla, resta lì, con la spalla appoggiata allo stipite della porta, gli ultimi centimetri di liquirizia in mano, gli occhi fissi sulla gonna che ho appoggiato sul letto, ma sa il cielo cosa sta guardando, in realtà.

Ci sono cose che non capisco, ma che non per questo giudico meno belle. Ho ripreso ad ascoltare i R.E.M. da un paio di settimane a questa parte. Non so per quale motivo li avessi accantonati, tant'è, mi rendo conto che non li ho mai capiti, giuro, i loro testi spettinati, le loro frasi a metà, non le ho mai capite: non lo so cosa possa provare una carpa in un lago ghiacciato, o che senso abbia spingere un elefante per una rampa di scale, non lo so, ma ci sono stralci, immagini, espressioni che evocano qualcosa, che per un istante suggeriscono un flash che dura un niente, poi ritorno a non capire nulla, come se stessi ricomponendo i pezzi di un sogno che mi sembrava sensato e ragionevole, e invece erano macchie di ricordi sfilacciati, valla a trovare, una trama, però sono belli, questi stralci, queste immagini di contare, a una a una le ciglia di due occhi che dormano, di andarsene in giro tenendo in mano flowers in full bloom (come la dici, in italiano? Fiori in piena fioritura? Non va, non va), di stare in ozio, a cercare di dimenticarti, o di aver trovato un modo per farti sorridere.

Ci sono cose che non capisco. Non capisco perché George mi racconti quel ricordo, dopo vent'anni. Uno stralcio. Ma dopo averlo detto, anche lui, sorride.

lunedì 13 marzo 2017

L'urgenza di raccontare

Aveva come un'urgenza di raccontare, di spiegarsi, di spiegare la propria storia a qualcuno e, al tempo stesso, a sé stesso. Un bisogno, umano, umanissimo, di essere capito. 
Sentito, per cominciare, e ascoltato. E capito.

Hanno caratteristiche comuni, coloro che vogliano parlare di sé, e non si può ascoltarli senza vederle. Lo sguardo che indugia sulle punte dei piedi, a cercare un filo narrativo a tratti logoro, le mani che tormentano uno scontrino o un bottone della giacca o che si tormentano da sole, le orecchie che a volte diventano rosse, giusto un poco, sulle punte.

E poi le frasi a metà, frasi che dovrebbero spiegare pensieri che tante volte ti sei detto, da solo, e che tu conosci così bene da trovarli ripetitivi, noiosi, e nell'urgenza salti da un'immagine a un'altra, da un ricordo a un altro, fino a non avere più chiaro perché ti trovi lì, a pensare a cose successe vent'anni fa, e a parlarne a un viso che non sbadiglia.

Annaspare tra le frasi che si rincorrono e accavallano, o lasciare che i ricordi riaffiorino, e abbandonarcisi.

mercoledì 8 marzo 2017

Grigi come la strada

Le stazioni, le sale d'attesa, i tavolini all'aperto dei bar.
Purché si possa vederle, le persone, vederle muoversi, interagire, gesticolare parlandosi, oppure stare da sole, ingegnarsi nell'ingannare il tempo, forti di armi elettroniche caricate con munizioni inesauribili.
Stamattina c'era quell'uomo, un attimo per intercettarne gli occhi di un grigio incredibile, sembrava ardesia, e non guardava nulla, o meglio, sembrava non stare guardando nulla, perso in pensieri che teneva sotto controllo continuando a tormentare il cappello, rigirandoselo tra le mani, e aveva qualcosa nel volto, ma non era ansia nell'attesa di essere chiamato dalla voce metallica che avrebbe scandito il suo numero, era un senso di sospensione, una quiete forse esito o forse prodromo di una tempesta.
Ma era quiete.
E lui, sommessamente, ne sorrideva.


domenica 26 febbraio 2017

Verso casa

L'ordinata teoria di luci gemelle, rosse, di cui non vedeva la fine, li conduceva senza possibilità di errore verso casa.
Dove stai andando?
A casa.

Nella mente, negli occhi, nelle mani, l'espressione di chi stia dirigendosi ineluttabilmente a un appuntamento, con l'inconfessata speranza di arrivare con un ritardo indefinito.
Verso casa.


giovedì 23 febbraio 2017

Private (6)

Sfumata, la catastrofe, e sottile,
e sorride se ascolta racconti che
sfondano il cuore e il fiato, la gola, ma
sa di dover
sorridere ridere e sorridere e

staccarsi

e pensare ai luoghi che non sono
alle assenze presenti
a placare
lo spavento e la speranza.

mercoledì 15 febbraio 2017

15 febbraio

LaMarta mi dice che dovrei lasciarti andare. Mi dice che dovrei imparare a lasciare andare, e capisco che parla anche di te.
Non sa, non può sapere, che è già successo. Con te è già successo, anche se non so come sia avvenuto.
Solo dalla mia memoria sgangherata ogni tanto se ne esce fuori un ricordo. Malmesso, però. E zoppicante.
Non morde più.




domenica 12 febbraio 2017

Prima della pioggia

La misura della presenza è l'assenza.
Per assenza non si intenda la mancanza di qualcosa, quanto piuttosto la privazione di quella stessa cosa, che si tenterà inutilmente di cercare in un altrove che vada al di là del conforto.

A me piace la pioggia prima che cada.
- J.C. -



mercoledì 8 febbraio 2017

Piccole ore

Ciascun giorno sa essere dissimile da tutti gli altri.
Le notti, invece, se la mente si rifiuta di cedere il passo al sonno, lasciando che una boccata d'aria fresca tranquillizzi i pensieri, le notti diventano uno stesso copione ripetuto, in cui si impara ad avvertire ogni istante, a essere soli ad esistere, a decidere di consegnarsi al destino.

Le più silenziose, tra le ore notturne, sono quelle tra le due e le quattro.
Poi cominciano i primi rumori, le macchine per la pulizia delle strade e dei marciapiedi, si muovono talmente solitarie che si possono sentire quando sono ancora lontane, e un po' alla volta il rumore cresce, cresce, si avvicina, cresce, pare di vederlo, cresce, è qualcosa di inevitabile, e schiacciante, ma proprio quando sembra di non poterne più, solo allora si allontana, inoffensivo.
E un po' alla volta si aggiungono alla sinfonia gli addetti alla raccolta differenziata. E le prime auto. Verso le sei, rumori di persiane alzate, ma per cosa poi?, tanto fuori è ancora buio pesto.

Scrivo silenzi.


lunedì 6 febbraio 2017

Senza averne titolo

"Una sera," mi disse, "rincasando, la trovai seduta sul divano, la testa appoggiata di lato, e il viso in un'espressione che non sapevo interpretare: sembrava sorridere, ma dalle palpebre scendevano dei rivoli silenziosi.
"La sua ostinazione," continuò, "la durezza che manifestava con chiunque, quella fermezza sfumavano fino a dissolversi quando era con me, per lasciare il posto a... non saprei dirtelo meglio, sembrava impaurita dal mondo.
"Una volta, ricordi?, mi dicesti che forse sono io a fare un effetto del genere alla gente, ma non credo fosse questo il caso. Piuttosto, credo che con me lasciasse trasparire la propria vera natura: io, sai, io credo che non si piacesse, sì, credo che non si piacesse, e che essere lasciata sola, in compagnia di sé stessa, fosse la cosa che temeva di più.
"Non le chiesi nulla, le porsi un bicchiere d'acqua, e un fazzoletto imbarazzato, ma solo un poco. Mi spiegò, e in quel momento capii che davvero sorrideva, che aveva solo avuto bisogno di posare la testa su qualcosa che la tranquillizzasse, che era un gesto piccolo, sì, ma consolatorio. Rassicurante fu il termine che usò. L'aveva posata sul divano, perché era rassicurante".


mercoledì 1 febbraio 2017

Il motivo della visita

La luce, soffusa. Il tappeto dai colori sobri, caldi. L'odore di fumo, nell'aria, a lasciarsi immediatamente percepire.
Il primo respiro che si fosse fatto dopo aver varcato quella soglia avrebbe involontariamente distinto storie di sigarette trascorse, consumate, ma ben decise a non lasciarsi dimenticare, a non farsi sostituire nei ricordi dalla fragranza di un prevedibile profumatore. E la voce di lei, accidentalmente roca, tradiva pure quell'abitudine al tabacco.
La poltrona da cui ormai per abitudine si lasciava avvolgere sembrava offrire un rifugio sicuro nel quale rintanarsi e dimenticare il motivo della visita. Ma il motivo, paradossalmente, era proprio quello di non dimenticare, di raccogliere ricordi e vissuti. Perché è pericoloso costruire una teoria prima di aver raccolto abbastanza dati: senza accorgersene si rischia di travisare e storpiare i fatti in modo da adattarli alla teoria stessa, piuttosto che il giusto contrario.


lunedì 23 gennaio 2017

Le mani avanti

La strada, all'ora di pranzo, è sempre libera, e comunque non sono in ritardo, e so anche che non avrò problemi a parcheggiare e arriverò perfettamente puntuale. Ma allora da dove sale il nervosismo, la preoccupazione che qualcosa andrà storto? Mi rispondo dicendomi che il pessimista è uno che mette le mani avanti, attività per la quale peraltro ho sempre dimostrato una certa predisposizione, e alzo la musica, ma le mani, sempre loro, fredde e sudate, mi ricordano che c'è un tempo per tutto, e questo non è il tempo della razionalità: non devo raccontarmela, solo l'inconscio è innato, la consapevolezza arriva dopo, è come guardarsi da fuori, vedere il posto dove tutto troverebbe una soluzione ma non esserci dentro, guardare un acquario, non ci posso entrare, posso solo guardare, anche se l'acquario sono io.


giovedì 19 gennaio 2017

Mica Van Gogh

Settantadue dipinti. Senza contare le poche decine di disegni. Settantadue dipinti in settanta giorni. Ogni tanto mi torna in mente questa cosa, che non so se sia follia o qualcosa che le si avvicina molto, questa cosa di aver dipinto settantadue quadri in settanta giorni, gli ultimi settanta giorni. Mi torna in mente quest'urgenza di raccontare, raccontare, coi colori in questo caso, parole in forma di pennellate a dar sfogo al desiderio di esplodere, di porre termine a una silenziosa pace inaccettabile.



domenica 15 gennaio 2017

Mentre dormi

Svegliarmi, da piccola, quando tutti stavano dormendo mi dava una sensazione particolare, una sorta di se adesso dovesse succedere qualcosa, sarei l'unica ad accorgermene. Mica che quel qualcosa dovesse essere per forza brutto o bello, era semplicemente un qualcosa potenziale, che io sola avrei vissuto.
Ora al massimo potrei trovare George che dorme, ma tipicamente lui si sveglia sempre una decina di minuti prima di me. E allora per riuscire a rivivere quella stessa sensazione mi piace, d'inverno, uscire la domenica mattina, presto, quando le strade sono vuote e la luce fragile. Quando, come stamattina, la superficie del fiume che corre lungo la strada è ancora ghiaccio addormentato e, senza scorrere, non fa rumore.
Così lo guardavo e pensavo che a breve quel ghiaccio si sarebbe sciolto, e che non sarebbe stato più possibile vederlo; forse verso sera si sarebbe riformato, ma la luce sarebbe stata diversa, il giorno non sarebbe più stato nuovo, le cose e le ore successe l'avrebbero consumato. In modo simile il mare, all'alba, ha un carattere diverso da quello che mostra al tramonto: magari la luce è la stessa, magari la spiaggia è ugualmente deserta, gli scogli non si sono spostati, ma è come entrare in una stanza prima dell'inizio e dopo la fine di una festa, il vuoto e il silenzio non sono gli stessi, nel mezzo qualcosa è stato usato, esaurito, bisogna ricominciare.
Il mattino, col ghiaccio assopito e i rumori cristallizzati, il mattino ricomincia.


venerdì 13 gennaio 2017

...si sgonfiano gli istanti.

Mi scrive, R:, che rincasando ha trovato la coinquilina in lacrime, commossa per quanto stava accadendo in televisione, a uomini e donne (la maiuscola non mi esce, vabbè).
R: e io in questi anni abbiamo imparato che ad accomunarci non è solo un identico senso dell'umorismo, o l'atteggiamento verso i luoghi affollati, il cibo degli aerei, i libri della Kinsella o l'astrologia. A renderci simili sono anche le reazioni verso cose tipo la coinquilina commossa davanti a canale 5. Reazioni che includono, in ordine temporale:
1. riluttante scetticismo
2. amara presa di coscienza
3. ilarità sguaiata
4. sottile invidia.

Riluttante scetticismo: eh sì, perché in fondo mica ci ho mai creduto che esista davvero qualcuno che riesce a guardare cose del genere. Ma poi penso ai cinepanettoni e allora vabbè, mi arrendo, ciao scetticismo, tornatene pure nel tuo migliore dei mondi possibili, lascia spazio all'amara presa di coscienza.
Amara presa di coscienza: hai ventisei anni e te ne stai davvero davanti a uno schermo a versare lacrime. Voglio dire, tu sei vera, non ti sto guardando a mia volta attraverso uno schermo, tu sei reale, e ti stai realmente commuovendo. Per qualcosa che non esiste. Ho trascorso anni pensando che fossi tu a non esistere, e invece ti trovi davanti a me in carne, ossa e fazzoletti. Potrei mettermi a piangere a mia volta, oppure lasciare che il pianto ceda il passo a una ilarità sguaiata.
Ilarità sguaiata: ovviamente non in presenza della suddetta coinquilina ma, in separata sede, tra R: e me. Eppure, in quelle grasse risate, non riusciamo a non avvertire entrambe, amarognola come la fogliolina di rucola che non avevi notato, una sottile invidia.
Sottile invidia: magari sto usando termini esagerati, magari ci sono delle parole più adatte di "sottile invidia". Sì, è probabile che io stia indulgendo all'eccesso quando decido di usare "sottile" come aggettivo.

Ora: io non so se quelli sono veri o li pagano, o magari sono veri e li pagano. Ma quel che so è che ce li vendono per veri. Voglio dire che stanno lì a raccontare di un mondo in cui uno, uno qualsiasi, uno normale, a un certo punto deve dire a una che la ama e trova assolutamente normale, anzi bello, anzi poetico, anzi geniale, farlo davanti a dieci milioni di italiani.
A me, un mondo così, fa una tristezza bestiale. Non voglio che esista, non voglio che la gente pensi che esiste, mi indigna pensare che qualcuno voglia farci credere che esiste. Non so come spiegarlo, ma se tutto diventa show, se anche le pieghe più private della vita passano dall'altra parte, nel video, e nemmeno confezionate come storie, ma vendute come vita vera, da questa parte si fabbrica il vuoto pneumatico, si scolano i cervelli, si svuotano le parole, si sgonfiano gli istanti.
- A. B. -

lunedì 9 gennaio 2017

Inizi

Inizia a farsi giorno, dal finestrino.
Incurante del ciccione che russa a bocca aperta dal sedile di fronte, il giorno inizia a farsi, incurante anche degli orizzonti esasperatamente attuali che si alternano a panorami di campi fumosi e alberi sparuti che, per quel che ne sa lui, per quel che ne so io, potrebbero essere stati catapultati lì da un centinaio di anni fa.
Continuo a pensarlo, come certi ritornelli che ti si attaccano la mattina appena sveglio alla memoria e fino a sera non c'è modo di spegnerli, continuo a pensare che inizia a farsi giorno, forse dovrei concentrarmi sul come organizzare la giornata, ma i pensieri preferiscono rotolarmi giù per il pendio dell'involontarietà, e andarsene a finire in ricordi di grammatica latina, ai verbi incoativi, certe parole ti si attaccano alla memoria e non c'è modo di spegnerle, i verbi che indicano l'inizio di un'azione, cominciare a invecchiare, addormentarsi, ma qual è la linea di confine tra l'addormentarsi e il dormire, tra il cominciare a invecchiare e l'essere vecchi?, dov'è il prima, dove il dopo o il troppo tardi?

È giorno.



sabato 7 gennaio 2017

Alba

La meraviglia pungente e lacerante della luce, nel mattino gelido, della luce del sole che profila le nuvole a oriente, della luce che sembra una specie di conforto: ritrovarla, anche oggi, come ieri.
La meraviglia, e il conforto, ma assieme la fitta di qualcosa di irrimediabile.
Smarrirsi.


"... piangono solo con gli occhi, come bicchieri pieni fino all'orlo di tristezza,
e impassibili mentre quella goccia di troppo alla fine li vince
e scivola giù dai bordi, seguita poi da mille altre".
- A.B. -

domenica 1 gennaio 2017

Senza vederne gli occhi

Sperimentare, come metodo principe per capire.
Potrai avere paura di prendere un aereo o un ascensore, e ti ascolterei qualora me ne parlassi, ti ascolterò, quando me ne parlerai, ma non capirò, non fino in fondo, mi impegnerò ad ascoltare e immaginare, come sempre, amo ascoltare e immaginare, ma non saprò capire, non potendo provare.
Come se guardassi un volto ma senza vederne senza occhi, mi dice Bach in un sabato dal confronto incerto tra il sole, esangue, e la nebbia, ostinata. Ascolto, intuisco, forse addirittura capisco, ma ho la sensazione di non vedere gli occhi, del volto che sto guardando. Non riesco ad afferrarne l'espressione, a comprendere ciò che quel viso mi sta dicendo.