martedì 29 dicembre 2015

Settantadue ore e vent'anni

Ci sono tre personaggi.
Il primo, A, ha un ottimo impiego, in un'azienda dalle solide basi e dalle favorevolissime prospettive; il secondo, B, amico di A, pur essendo e apparendo una persona brillante e con un'ottima formazione alle spalle, attualmente non ha un lavoro; il terzo, C (acronimo dell'acronimo di Che poi sarei io) assiste da osservatore non partecipante a un dialogo tra A e B. Non partecipa, C, perché manco li conosce, A e B. Si trova solo a intercettare una loro conversazione, dalla quale intuisce la breve descrizione che, riferendoci ai due personaggi, è appena stata abbozzata.
Al momento dei fatti, A è in ferie e si sta lamentando con B perché in fondo avverte la mancanza del proprio lavoro. Sì, sai, dovevo obbligatoriamente prendermi questi tre giorni, però non vedo l'ora che passino, mi pesa un po' stare a casa, anche perché nelle ultime settimane ho cominciato a seguire un progetto particolarmente interessante su...
C ascolta, e si pone molteplici domande. Per esempio si chiede, C, se nel momento della distribuzione prenatale della dose regolamentare di empatia, A non fosse stato occupato a riscuotere una porzione tripla di miopia emotiva. Si chiede anche, C, quanta abulia nasconda il silenzio di B, o quanto studiato autocontrollo. Si domanda inoltre se darebbe più volentieri uno schiaffo ad A, per farlo tacere, o a B, per farlo reagire. C'è del fastidio, nel volto di C, perché è costretto ad ammettere a sé stesso che quello che inizialmente sembrava sale, nella testa di A (parlantina sciolta, linguaggio forbito e una certa disinvoltura nei modi), evidentemente era forfora. Vorrebbe anche, C, insinuarsi nei pensieri di B, per capire se stia davvero ascoltandolo, A, o se non sia abituato a sproloqui di quel genere; in tal caso, forte dell'allenamento pregresso, magari B sta semplicemente immaginando cosa prepararsi per cena, ignorando bellamente le angustie di A sulle ferie forzate.
Molteplici domande si pone, C, e probabilmente altre se ne porrebbe, se continuasse ad ascoltare A e B. Il quale, però, essendo giunto alla propria destinazione, si alza, abbottona la giacca, recupera la borsa, e scende dal treno, lasciando A e C a, rispettivamente, settantadue ore e vent'anni di inquietudine.

domenica 13 dicembre 2015

Il melograno che melograno non era

"Mi ricordo bene di Matilde", mi raccontò un giorno mio padre. "Le piaceva molto un frutto che le era capitato di assaggiare anni prima, in uno dei suoi viaggi in solitaria. Era simile a un melograno, diceva, ma melograno non era. Si poteva mangiarne anche la buccia, sgranocchiandolo come una mela. Maturava nel tardo autunno, a differenza della maggior parte della frutta su cui le era capitato di affondare i denti. E a differenza, devo ammetterlo, della maggior parte della frutta che dal mio vivaio avrei avuto la possibilità di offrirle. Ma era Matilde, tu la conosci, così bizzarra e imprevedibile che finii con l'archiviare la questione pensando che fosse tutta un'invenzione di lei.
Una sera, invece, recuperando un catalogo che tua madre aveva fatto passare direttamente dalla cassetta della posta al cestino della carta, mi imbattei nel frutto di cui tante volte Matilde mi aveva parlato. Non glielo dissi, ma decisi di farle una sorpresa, sai che amo osservare le reazioni degli altri di fronte all'inatteso. Così comprai quella pianta.
Dopo un paio di settimane arrivò un alberello insignificante, come peraltro mi sarei aspettato. Lo misi a dimora, non prima di aver notato che l'etichetta che lo accompagnava era singolarmente lunga: parlava non tanto di, sì sai?, le solite cose, esposizione, irrigazione, tempi di maturazione... No, no, nulla di tutto ciò. Parlava piuttosto di ciò che sarebbe inevitabilmente cresciuto attorno alla pianta. Ma non ci diedi peso. Tu ben conosci la costanza con cui mi assicuro che ciascuno dei miei alberi cresca come si conviene, ben potato, pulito, senza erbacce attorno. Così guardai l'etichetta. Ma non ci diedi peso.
Al trascorrere delle settimane e dei mesi, invece, attorno a quella pianta cominciarono a spuntare pianticelle che non avevo mai visto prima. Non che fossero infestanti, sia chiaro, se ne stavano circoscritte, attorno a quell'unico alberello, senza insinuarsi tra i peschi o i peri che crescevano lì vicini. Ma non mi piacevano, avevano forme che... non saprei spiegartelo... Decisi di provare a toglierle, ma così facendo vidi che la pianta attorno cui erano nate cominciava a indebolirsi. Mi risolsi quindi a lasciarle prosperare, limitandomi a qualche spuntatina qua e là.
Intanto Matilde continuava a venirmi a trovare, e io dal canto mio continuavo a glissare con malcelata noncuranza quando mi chiedeva cosa ci fosse in quella zona di vivaio così stranamente abbandonata. Quell'anno la pianta non diede frutti, dovetti attendere il novembre dell'anno successivo. Nel frattempo la vegetazione attorno era cresciuta, rinvigorendosi, e allontanandomi. Non camminavo volentieri su quel pezzo di terreno, mi sentivo a disagio, cose da non credere, vero? Però vedevo che tre frutti stavano maturando, e quando ritenni che fosse giunto il momento, andai a staccarne uno e lo portai a Matilde. Pensavo che avrei dovuto spiegarle di cosa si trattava ma non fu necessario, lei capì immediatamente che quello che le stavo portando era quel melograno che melograno non era. Volle venire al vivaio per vedere, e lungo la strada dovetti spiegarle cos'erano quelle piante insolite che crescevano attorno al suo albero, perché, sì, per me quello era l'albero di Matilde. Una volta arrivati, scese dalla mia auto e decise di staccare il secondo dei frutti, ma nel camminare in mezzo a quell'erba non la vidi felice. Staccò il suo frutto, mi venne vicina e mi ringraziò, tenendolo ben stretto tra le mani. Mi ringraziò come per scusarsi, mi diede un bacio sulla guancia e fece per andarsene. Le chiesi di accompagnarla a casa, il sole stava scendendo e il novembre di quell'anno era insolitamente rigido. Mi sorrise, come per scusarsi, ma mi disse di no. Mi avrebbe fatto felice immaginarla a sgranocchiare quel frutto seduta per terra, con le gambe incrociate e la schiena appoggiata al muretto a secco vicino al ciliegio di casa sua, come la vedevi in certe mattine d'estate. Invece la vidi camminare verso casa, accompagnata da quell'ombra affusolata che si lasciava alle spalle".

lunedì 7 dicembre 2015

Scintille di fuochi ormai spenti

Chiudila piano, la porta, mi dico, quando sto dimenticando qualcosa, e non svegliare ciò che, dentro, si sta assopendo.
Dimenticare volutamente, l'oblio conscio dell'intenzionale allontanamento, raccogliere la cenere e bruciarne le ceneri, mille volte, finché non rimanga che un soffio di polvere inerte. L'abitudine con cui dimentico tutto, o quasi, l'abitudine a dimenticare, o l'abitudine per dimenticare, rivivere e rivivere e rivivere con la memoria ciò che si è perduto, riviverlo fino a consumarlo, fino a che i contorni diventino così labili da confonderlo con l'irreale.
Chiudila piano, la porta.


mercoledì 25 novembre 2015

Il mio amico George (22)

"Non trovi curioso che ci siano ancora dei creazionisti in giro?", mi apostrofò George qualche sera fa. Fui costretta ad ammettere che, sì, in effetti le prove che avvaloravano l'evoluzionismo erano senza dubbio...
"No no no, mia cara, non tanto per quello. Piuttosto, non trovi bizzarro che ci affascini immaginare il primo uomo vissuto? Non trovi invece più interessante pensare a cosa possa essere accaduto al primo uomo che abbia visto morirne un altro?"
Beh, mi colse di sorpresa, ma c'era da riconoscere che la questione poteva rivelarsi...
"Certo, anche qui ha poco senso pensare al primo, allo spartiacque, alla dicotomia tra precedente e successivo, ma a me piace lo stesso fantasticarci sopra. Pensa a cosa potrebbe aver significato rendersi conto per la prima volta che l'esserci era a tempo determinato, una vita ad interim. Un secondo prima non ti poni il problema, perché neanche sai che esista, e subito dopo sei costretto a far camminare in punta di piedi tutte le tue speranze e aspettative, perché la falla che si è aperta tra te e il per sempre non la richiudi più. Ci pensi che quel poveretto non aveva nemmeno Händel, per consolarsi?"

giovedì 19 novembre 2015

Ti faccio un esempio

Mi assicurò che si trattava solo una storia, ma era pur vero che egli stesso era una di quelle persone che hanno un assiduo bisogno di storie. Ed era la storia di una persona, mi disse, che avrebbe potuto essere un vecchio, una ragazza, un uomo, l'autore aveva deciso di rimanere vago a tal riguardo. Era una persona che, mi raccontò, con scarsa fantasia e ancor più scarsa originalità viveva circondata da altre persone. Quindi questa persona, proprio questa, come si sarebbe potuto distinguerla, non poteva forse venire confusa con le tante altre? No, si affrettò a spiegarmi, così non era, perché a quella persona, a quel vecchio o ragazza o uomo che fosse, mancava una cosa che tutti coloro che le stavano intorno invece avevano.
Ti faccio un esempio, mi disse, Così decise, e mi raccontò che il protagonista trascorreva i propri giorni con amici laureati, colleghi laureati, parenti laureati. Tutti laureati, tutti. O quasi. Egli no, non lo era. Ma sapeva che tutti ne erano a conoscenza, non ne aveva d'altronde mai fatto mistero con alcuno. E mi disse che il protagonista non poteva fare a meno di continuare a chiedersi cosa potessero pensare, gli altri, tutti gli altri, del suo essere vecchio, o ragazza, o uomo, senza quel titolo che gli altri, tutti gli altri, possedevano.
Mi assicurò che si trattava solo di una storia.

giovedì 12 novembre 2015

Dropping softly behind

Quando indossavo i miei indispensabili occhiali non sopportavo il suo modo di offuscarmi le lenti rendendomi tutto più complicato.
Quando portavo i capelli lunghi mi infastidiva la sua velocità nel vanificare il mio paziente lavoro di piastra e lacca.
Non riuscirò mai ad abituarmici, pensavo.
Sbagliavo.
Adesso lascio che si unisca, come un terzo, onirico elemento, al piacere di immaginare di perdermi e alla mia totale assenza di senso dell'orientamento. La nebbia. Silenziosa come un animale, sia esso preda o predatore, si allunga sinuosa lasciando che sia il proprio grigiore a insinuarsi dove le sembra più opportuno, dove ci siano vuoti da riempire.
Al mattino è un galleggiare di coppie di fanali rossi sui cavalcavia sospesi su volute grigie, mentre è muta l'armonia del giorno. La sera è la dolce ipnosi delle strisce bianche, unico e debole indizio su quale debba essere la strada del ritorno.
Come Prufrock, la lascio strofinarsi la schiena contro i vetri. Senza osare disturbare l'universo.

lunedì 9 novembre 2015

Una debita distanza

Avresti dovuto vederlo. Bastava a sé stesso, privo com'era di necessità, appagato dal proprio ridicolo domani. Forse era migliore di molte altre persone, tra le quali non esito a includermi, anzi, sicuramente era migliore di me, che oso presumere qualcosa di più, dal quotidiano.
Bastava a sé stesso, sì, ma in modo vano; avresti saputo capirlo dal modo con cui aveva arredato il proprio appartamento: dai quadri, ai libri, all'armadietto del bagno, ogni dettaglio avrebbe potuto confermartelo. Per quanto anche il modo con cui aveva arredato i propri pensieri la dicesse lunga.
Una debita distanza dall'inutile solitudine da cui non sarebbe mai riuscito ad affrancarsi, questa era la miglior strategia che avrei potuto suggerirti.

giovedì 5 novembre 2015

Risposte corrette a domande sbagliate

Era certo che tra gli insegnamenti incorretti che gli erano stati propinati fin da piccolo ci fosse quello secondo il quale non esisterebbero domande sbagliate. A onor del vero si rendeva pur conto che lo scopo era stato senz'altro nobile, un ammirevole tentativo di convincimento a essere curioso e a chiedere sempre il più possibile. Ma erano gli anni in cui stava imparando ad andare in bicicletta, e ogni volta che si trovava a perder l'equilibrio e finire malamente per terra si sentiva chiedere Oh, sei caduto?, e più che alle ginocchia e ai palmi sbucciati pensava a quella domanda che, sì, francamente gli sembrava alquanto sbagliata.
Poi era cresciuto, le cadute, quelle fisiche, si erano fatte via via meno frequenti, sostituite da altre di natura meno corporea. Ma anche qui, assieme al dolore contingente, pensava anche a quella domanda, a quell'inutile Oh, sei contento, adesso?, all'insulsa insensibilità che portava in dote, alla quale faceva fronte con un inossidabile controllo di sé.
Sempre che la marea delle paure notturne non sfondasse l'ultima paratia.

martedì 20 ottobre 2015

Non suonarla ancora

Suonava note che erano parole, e trapassavano indifferenti lo sterno, irridendolo. Il tono sommessamente minore rendeva quella musica un concerto per ricordi e risacche, per memorie stropicciate, immerse nei vapori di un crepuscolo d'autunno.

giovedì 8 ottobre 2015

Acciaio e diamante

Bisogna chiudere gli occhi per sentire che la notte ha un odore che è freddo e sa di acciaio. Non la sera, ma la notte.
Bisogna camminare di notte, quando ogni rumore sembra frutto della suggestione, quando i lampioni si chiedono per chi stiano illuminando il nulla, per chi stiano proiettando ombre metalliche che nulla hanno a che spartire con quelle lunghe e affusolate del calar del sole.
La notte ha un odore di acciaio, che dura fino a che l'orizzonte, con eterna pazienza, rimette insieme i cocci e partorisce un filo di luce adamantina.

martedì 6 ottobre 2015

Nuove frontiere dell'umana astuzia

Le palestre, così come gli autobus, i supermercati, le poste, e molti altri luoghi frequentati da una multiforme umanità, offrono spesso lo spunto per riflessioni di natura antropologica: cinque minuti in uno qualsiasi di questi posti sono sufficienti per abbozzare i primi tratti di un quadretto in grado di rappresentare aspetti sociali e psicoevolutivi di quel curioso primate che è l'Homo sapiens.
Stasera, in palestra, ho visto una tipa che ha avuto la brillante idea di regolare l'altezza della sella della cyclette su cui stava pedalando dopo esserci salita sopra. E con questo non intendo che ci sia salita, si sia accorta che l'altezza non era adatta a lei, sia scesa e l'abbia regolata. Nossignori, nulla di tutto ciò. O meglio, parte di. È salita, si è accorta che la sella non era regolata in modo corretto e, rimanendo seduta su quella stessa sella, ha tirato la manopola che fa scorrere l'asta regolata. Risultato? Un tonfo improvviso, alcuni sguardi incuriositi, e io che mi chiedo come sia possibile che non ci siamo ancora estinti.

giovedì 1 ottobre 2015

Il mio amico George (21)

Adoro non reggere l'alcol. Mi basta una birra media, neanche tanto forte, e già parole e pensieri si fanno meno energici e convinti. George lo sa, e credo sia per questo che l'ultima volta che ci siamo visti ha aspettato che la mia Triple Diamond fosse quasi finita prima di raccontarmi che

"Di', te la ricordi **** ?"

Se me la ricordavo... I miei pensieri saranno anche stati rallentati, ma un riflesso era partito immediato, facendomi sperare che non avesse provato a cercarla ancora, visti i tempi di disintossicazione che poi, lo conosco bene, sarebbero seguiti.

"Sì, ho provato a chiamarla, ma c'era solo la segreteria. E ho lasciato che andasse, pur senza dire nemmeno una parola. Stavo solo trattenendo il respiro, e intanto pensavo che, andiamo!, so che ci sei, premi quel tasto e rispondi, su, limitati a mentirmi dicendomi qualsiasi cosa, anche chiacchiere senza senso, andrebbero bene anche quelle. Come faccio a comportarmi come se nulla fosse, potresti chiedermi, e se me lo chiedessi, beh, forse ti direi che porto con me una serie di battute già sperimentate, per simulare tutte le risate che metto assieme alla meglio. Ma non sono io. Io mi sento piuttosto come un incidente rivisto al rallentatore, e mi perdo nei cerchi che il bicchiere del caffè lascia sul tavolo, sull'alito che appanna il vetro se mi avvicino alla finestra".



mercoledì 30 settembre 2015

Occhi grigi come la strada

C'è lei, fortunatamente, a tenermi compagnia mentre guido. Vaga come un dormiveglia, esatta come l'algebra, perfetta nel saper esprimere ciò che non si riuscirebbe a dire riguardo ciò che non potrebbe essere taciuto.

domenica 20 settembre 2015

Fino a quando il balcone è chiuso

Premessa 1. Nel parlare di certi argomenti a volte ho la sensazione di appartenere ad altri tempi. Quali altri tempi, di preciso? Mah, altri. O forse sarei più corretta se dicessi "... la sensazione di appartenere a non tempi", tempi che non sono esistiti, e nei quali l'intrufolarsi furtivamente nelle cose, nelle vite altrui sarebbe stato considerato un tabù.

Premessa 2. Leggevo, anni fa, Queste oscure materie. Nella storia, ciascun personaggio ha un daimon, un animale che ne rappresenta fisicamente l'anima. La cosa singolare non era tanto che nessuno potesse toccare il daimon di un'altra persona, quanto piuttosto che a nessuno sarebbe mai venuto in mente di farlo. Il daimon di un altro non si tocca, fine.
Ovviamente si trattava di un racconto di fantasia, è ovvio che nel quotidiano e nel reale non esistono divieti che vengano vissuti in modo tale, come un imperativo categorico universalmente condiviso.

Premessa 3. Quand'ero al liceo, LaMarta e io abbiamo condiviso per un certo periodo la stessa casella di posta elettronica. Non mi sarebbe mai passato per la testa di leggere le sue mail.

Vivo in non tempi perché per me la posta o il cellulare altrui è come un daimon. Non si tocca, non si legge, non si apre. Fine. Vivo in non tempi perché inconsciamente perso che anche per gli altri la questione vada letta in questi termini.

Il che, ovviamente, è un errore. Non di saggezza, ma di ingenuità.



domenica 6 settembre 2015

La luce di mezzo

Guidava. Era quell'ora in cui il sole già è sparito, ma un chiarore rassicurante si attarda a diffondere da occidente.
Aveva scelto la strada più lunga, abbandonando la statale larga e rapida, per godersi la calma solitaria delle stradine sui colli.
Rispetto al giorno precedente, no, non avrebbe potuto dire che fosse cambiata la luce. Piuttosto, questo sì, la sera prima sembrava che il cielo si fosse avvicinato alla terra, quasi per cercare un appoggio, come se di colpo avesse avvertito un nuovo peso, e avesse realizzato di non avere le forze per portarlo da solo, quel peso.
In quella sera, invece, non c'era più alcunché di gelido o viscoso. Non era cambiata la luce, ma ora il cielo era alla giusta distanza.

martedì 1 settembre 2015

Quella domanda e il sole sorsero insieme

L'ennesimo Sai cos'ho fatto ieri? 
E, con esso, la presa di coscienza di ciò che intendeva il proprio mentore quando le parlava delle persone che vivono a posteriori.
Si decise a non prestare attenzione al racconto che sarebbe seguito, limitandosi a sorridere tra sé, pensando a cos'avrebbe fatto, lei, nei giorni a venire.

mercoledì 19 agosto 2015

Acciaio e simboli

Ieri sera, in macchina con IlTronista, ci si confrontava parlando dei cambiamenti frutto di decisioni apparentemente insignificanti, dettate dal momento. Succede però che, come un uragano scoppiato a New York, queste decisioni piccole facciano smettere a una farfalla, a Roma, di sbattere le ali.
Una modifica genera ulteriori modifiche, in una realtà altra le cose probabilmente potrebbero andare diversamente, ma qui so che è necessario cambiare, per essere abbastanza sicuri di stare vivendo.

Non è raro trovarsi a dover chiudere un capitolo, anche se può trattarsi di un'operazione lunga, strascicata, impegnativa. E, per quel che mi riguarda, solo quando sono certa che sia avvenuta, solo allora mi capita di aver bisogno di un simbolo, per concretizzare il tutto.
Un simbolo è anche un buco nel sopracciglio, che sarà mai, non può fare così male.
Balle. Fa male. Ma è dolore fisico, di quelli che quando finiscono, si dimenticano.

mercoledì 12 agosto 2015

In un click

Realizzo di essere tutto fuorché lungimirante quando vedo i turisti girare con il selfie-stick e ricordo le risate che mi feci la prima volta che sentii parlare di quell'aggeggio, che erroneamente giudicai destinato a una facile e ingloriosa fine.

(Pausa di un paio di minuti per recuperare le forze dopo aver scritto selfie-stick. Non ho il fisico per certe cose).

E invece, in barba alle mie miopi previsioni, le città d'arte sono invase da orde di barbari armati di bacchette, quasi a sembrare branchi di rabdomanti alla ricerca, anziché dell'acqua, dello scorcio, del dettaglio, e poco importa se si tratta di un piccione, di un affresco, di un monumento, di un tramonto o di un paracarro. Scatto, ergo sum.
Osservavo con malcelato fastidio la gente dentro ai musei: c'erano quelli che fotografavano a tappeto, ogni opera un click, dalla prima all'ultima, forse nella foga avranno fotografato anche le sedie dei sorveglianti, non ha importanza, purché si scatti. C'erano quelli che fotografavano a campione, ogni tanto, svogliatamente, giusto perché di sì, controllando come fosse venuta l'ultima foto fatta, e intanto camminando e perdendo l'occasione di vedere tutto ciò che stava realmente loro attorno. C'erano quelli che cedevano all'ebbrezza del proibito, fotografando e filmando solo là dov'era vietato farlo. Tutti con lo sguardo all'altezza del display, tutti inconsapevoli dei soffitti, degli stucchi, dei vicini con i quali andavano inevitabilmente a scontrarsi.
Una volta, nel camminare, facevo attenzione a non passare davanti a qualcuno che stesse fotografando qualcosa. Bene, ora ho detto addio a questo tipo di attenzioni, anche perché altrimenti certi luoghi diventerebbero un gigantesco uno-due-tre-stella.
La tentazione, mio dio, la tentazione di scuotere qualcuno di questi pretesi Steve McCurry, e di chiedergli se si rende conto che sta facendo centinaia, letteralmente, centinaia di foto non solo brutte, ma anche inutili, perché nessuno le vedrà mai, chi vuoi che si metta a guardare il pezzo di affresco che hai fotografato male, tagliandone inevitabilmente più parti, prendendo di schiena quei due americani che non si spostavano, con una luce orribile e con mano malferma? Nemmeno tu, imperdonabile autore, ci perderai più tempo, ma intanto avrai perso l'occasione di guardare dal vivo, senza interposto smartphone, opere che non vedrai più, e che tanto valeva che sfogliassi su un qualche libro di storia dell'arte. Ripenso a Calvino, non posso farne a meno, al suo siete sul terreno di chi pensa che tutto ciò che non è fotografato è perduto, e che quindi per vivere veramente bisogna fotografare quanto più si può, e per fotografare quanto più si può bisogna: o vivere in modo quanto più fotografabile possibile, oppure considerare fotografabile ogni momento della propria vita. La prima via porta alla stupidità, la seconda alla pazzia.

giovedì 6 agosto 2015

Un bicchiere di inchiostro

Ti scrivevo nel tentativo di individuare un posto dove appoggiare la testa, chiudere gli occhi e impedire a tutte le cose che avevamo detto di insinuarsi nei miei pensieri.
Scrivere era come un bicchiere, da cui bevevo tranquillità a piccoli sorsi e che qualcuno provvedeva a riempire con zelo. Era una specie di stampella a cui mi appoggiavo, anche se un po' troppo spesso, probabilmente. Forse era una stampella brutta, ma serviva al proprio scopo, che era quello di allentare i lacci dell'inquietudine, della malinconia.
Ricordo quando pensavo che se fossi stata in grado di muovermi, allora forse già da tempo me ne sarei andata; quando desideravo conoscere le astuzie di un angelo, in modo da non dover più danzare coi miei fantasmi.




martedì 4 agosto 2015

Sorridevi, e non guardavi

Nell'andarmene a fare due passi, stasera, ho assistito a una di quelle situazioni semplici, di quelle che mi fanno sorridere in modo tranquillo, qualsiasi siano i pensieri che mi stanno tenendo discreta compagnia: un papà stava insegnando al proprio figlio ad andare in bicicletta.
È come se un cerino si avvicinasse a un cumulo di paglia secca, per qualche istante non c'è altro che il fuocherello emotivo del ricordo delle sere estive in cui una parte di me sperava che la mano che mi aiutava a tenermi in equilibrio non la smettesse di sorreggermi mentre cominciavo, incerta, a pedalare.
Scalda e brucia rapido, e lascia tiepide braci che sembrano suggerirmi di attingere con parsimonia a certi ricordi, come se ogni volta che li lascio riaffiorare diventassero via via più labili, evanescenti.

domenica 26 luglio 2015

Vestita di tempesta

Avrei dovuto prendere il treno, ma era in ritardo di trentun minuti. Trentuno, sì, difficile a credersi, ma il numero era quello. Cos'avrei potuto fare, nel frattempo? Ovviamente quello che chiunque farebbe in trentun minuti, o in trentun giorni, o in trentun anni: intrattenersi, pensare. A tratti, perché no?, vivere.
E così decisi che l'avrei aspettato, lì, in piedi. L'avrei aspettato, anche se l'attesa si sarebbe potuta poi rivelare un errore.

Vedevo l'errore come un punto nello spazio, diviso in due parti da una superficie: da una parte di essa stavano gli errori correggibili, dall'altra quelli che invece non si sarebbero potuti correggere mai. Comprare un paio di scarpe troppo grandi e tornare il giorno dopo per cambiarle. Oppure mandare in frantumi un bicchiere di cristallo. Giusto per fare un paio di esempi.
Una seconda superficie intersecava la prima: questa separava gli errori fatti in modo consapevole da quelli che erano al contrario frutto di azioni svolte con le migliori intenzioni. Combinando le possibilità, mi stavo muovendo tra quattro regioni, che divennero immediatamente otto quando introdussi una terza superficie, quella che distingueva gli errori perdonabili da quelli imperdonabili.
Giocavo con queste mie superfici continue a tratti, e fluttuanti come lenzuola stese.

Avrei continuato a giocarci, ma i trentun minuti erano passati.
Passò anche il treno, sul quale decisi di non salire.
Avevo cambiato destinazione.

martedì 7 luglio 2015

La nausea in testa - Il mio amico George (20)

Dal terrazzo della casa di George, lasciando scivolare gli occhi sul verde del piccolo parco del quartiere e sulle strisce livide che incupiscono il tramonto di stasera, si indovinano, senza vederle, quotidianità e vite altrui.
Mi tornano alla mente, un po' per contrasto, un po' per una predisposizione ad aprire casualmente cassetti della memoria, le descrizioni delle sere indiane che ci spediva il cugino di mio padre: arrivavano da Benares, la città sacra degli induisti, cartoline scritte con una grafia microscopica e fittissima che raccontava i rumori delle scimmie che correvano sui tetti delle case e i cieli, ardenti di colori intensi come braci. Era l'intellettuale, il matto della famiglia. E lo era davvero: avevo otto anni quando mi consigliò di leggere un romanzo di von Eichendorff, di cui, ricordo bene, non intuii il senso, dato che a mio avviso non succedeva nulla.
Interrompe questo mio ciondolare tra i pensieri l'arrivo di George, che mi porta una birra e una domanda, alla quale non so trovare risposta migliore di un intraducibile È come avere la nausea in testa.
"Mia cara, capisco perfettamente. La soluzione è l'equivalente di due dita in gola. Ma temo che l'ippocampo sia un po' difficile da raggiungere".

giovedì 2 luglio 2015

È troppo, capisci?

L'aria era pallida di afa, e satura. Chiusi gli occhi, per non sentire che lo stridio delle cicale e il sudore che, gocciolando, mi rigava la schiena. Se li avessi aperti avrei di certo visto che l'orizzonte vibrava di caldo, e in quell'atmosfera onirica avrei capito che l'equilibrio precario su cui fino ad allora avevo creduto di muovermi era una fata morgana, un subdolo incantesimo, un'allucinazione alla quale il mio sguardo si era affidato, ingenuo.
Mi dicesti che avevi deciso di svegliarmi nel momento in cui mi avevi sentito chiedere È troppo, capisci? 
Così il tuo risveglio, imprevisto. E, talvolta, l'abbandono a un'irrisolta malinconia.

lunedì 29 giugno 2015

Adieu

Era come se due lacrime silenziose, caute, fossero andate gonfiandosi come si gonfiano le onde, che da lontano appaiono inizialmente innocue increspature di quel corpo materno e sfuggente che è il mare. Inoffensive.
Era come se, per uno scossone, non fossero più riuscite a mantenere l'equilibrio precario con cui si erano aggrappate alle palpebre. Lente, nello scivolare lungo le guance. Lente. C'era molta inerzia, c'erano molti attriti, ma di contro c'era il peso greve delle tante immagini che contenevano, come due minuscole teche cristalline, ormai decise a frantumarsi.
Era come se, arrivate all'altezza del mento, non trovando più alcun appiglio, si fossero staccate dal viso con un tacito tuffo, morbido, adieu.
Il tonfo, ancora più inavvertibile, che avrebbero fatto sulla pagina sarebbe stato così quieto che non sarebbe riuscito a svegliare nessuno, non avrebbe potuto destare nemmeno una farfalla, nemmeno un ricordo, un'anima, nulla.
Sarebbe stata una cosa davvero piccola e leggerissima. Impercettibile.

Si sarebbe sentita, a prestare attenzione, solo la risacca.

domenica 21 giugno 2015

Non cantate la Luna. (Storia di una richiesta classista)

Un giorno un medico mi rimproverò, non so se in qualità di medico o di confidente, quello che lui giudicava, in tutto o in parte, come un difetto: "Non sei classista, dovresti esserlo". A sua parziale discolpa va detto che non mi conosceva. Io lo sono, classista, e molto, e...
Ma forse è il caso che cominci dal principio.
Mi trovavo, pochi giorni fa, in una sala d'attesa, in compagnia di poche altre persone. La radio era accesa, e da quella radio sentii trasmettere una canzone di un cantante italiano dal cognome metallico. Provai imbarazzo alla stupidità delle parole che stava cantando, sentii quei versi e avrei voluto alzarmi e chiedere scusa a tutti i presenti, non pensiate che io sia d'accordo con quello che sta blaterando quel tizio, non pensiate che apparteniamo alla stessa specie umana, non ne voglio sapere, not in my name.
Da lì, per distrarmi, presi il largo e pensai alle altre idiozie che mi capita di leggere, ai versi non richiesti che vengono condivisi, versi che si potrebbero perdonare a un bambino di pochi anni, ma che in età adulta dovrebbero essere segnati come una tacca di indelebile ignominia, una lettera scarlatta cucita nell'anima (o quel che sia) di chi li ha scritti.

Non cantate la Luna, coloro che lo sanno fare senza essere patetici, ridicoli, emetici, sono quasi tutti morti, understand?, morti, defunti, e dire che i gusti sono gusti è solo un modo sbagliato per negare l'esistenza di un bello e soprattutto, soprattutto di un brutto oggettivi.
Non cantate la Luna, i tramonti, o se lo fate nascondete le vergate carte nella cassaforte dietro quella brutta natura morta (morta, anche lei) in corridoio, perché io sento accartocciarmisi l'anima (o quel che sia) come un foglio di brutta copia da cestinare, e spero che prima o poi vi verrà chiesto di renderne conto. E non è l'argomento, il problema: il problema è l'espressione, non l'argomento.
Così, ogni volta che qualcuno scrive che il mare è fatto di tante gocce, Dio mio!, vorrei prenderlo e affidarlo alla cura Ludwig, bombardandolo di when I look into your eyes, di ascolta il tuo cuore, di cambieremo il mondo, di tutte quelle frasi per le quali mi piacerebbe che le penne esplodessero, che i computer si formattassero da soli per la vergogna, per la mia vergogna.
A meno che gli autori non agiscano consapevolmente, mossi magari da meri motivi pecuniari, o da malcelati istinti goliardici, ma allora perché non musicare, invece di tante abiezioni, un innocuo nonsense?
Era cerfuoso e i viviscidi tuoppi ghiarivan foracchiando nel pedano...
Non cantate la Luna, i tramonti, l'amore, e soprattutto non fate quelle espressioni sofferenti e partecipi, perché sono io, io, che soffro, che mi sento accartocciare, e non mi basta una sonata di Corelli, devo cercare qualcuno che mi tolga la nebbia dai pensieri, dopo aver sentito certe cose.
E questo non è classismo?


Ma io vorrei essere un'aquila
vedere il piano del mondo
che inclina verso di noi
lanciarmi a inseguire il tuo deserto
e i poteri solenni
e le leggi che si inchinano
e le porte dorate

Cominciare di nuovo il viaggio.

lunedì 15 giugno 2015

L'operaio sardo, mio padre e io

Oggi mi sono resa conto che sono poche le sensazioni fisiche di cui ho memoria. Tra queste, una risale a un giorno di primavera inoltrata di qualche (ehm...) anno fa, un giorno di primavera poche settimane dopo la mia laurea.
Era stato allestito un cantiere vicino a casa mia, e mio padre mi aveva descritto la perizia con cui veniva eseguita da alcuni operai, uno in particolare, la saldatura dei blocchi che avrebbero alla fine composto la conduttura complessiva. Nonostante questo tipo di attività non fosse, e non sia tutt'ora, il mio pane quotidiano, mi aveva proposto di andare con lui a vedere l'accuratezza che accompagnava lo svolgimento di questo lavoro. Così facemmo, tanto il cantiere era aperto e si potevano avvicinare anche due non addetti ai lavori quali noi eravamo. Arrivati, capii subito che nei giorni precedenti mio papà aveva avuto modo di attaccar bottone con i tre uomini che stavano lavorando, dato che tutti ormai si davano del tu. Dei tre, due avranno avuto poco meno di quarant'anni, mentre il terzo, che aveva da tempo passato la cinquantina, era evidentemente non solo il più esperto, ma anche quello che veniva chiamato per rifinire passaggi e punti particolarmente delicati. Il maestro. Un ometto minuto, dall'incarnato olivastro e dallo sguardo simpatico, sveglio, sicuro. Non ricordo il suo nome, ricordo solo che mi disse da dove venivano, e che erano stati chiamati apposta per fare quel lavoro. L'imperscrutabilità delle frasi che si rivolgevano tra di loro era una prova evidente della loro terra d'origine.
Non avevo e non ho tutt'ora le competenze per poter davvero afferrare se e quanta e quale dovesse essere l'abilità di quell'uomo; ciononostante vedere come muoveva le mani, più che a una saldatura faceva pensare a un cesello, o a quei rammendi invisibili fatti da certe ricamatrici degne eredi di Aracne. Era come vedere un pianista senza ascoltarne la musica, che importanza hanno le note quando già solo i movimenti delle dita sui tasti sanno essere arte?
Mi spiegò che stava usando un elettrodo in tungsteno che permetteva di portare a fusione i pezzi da unire, mentre un soffio di argon contrastava l'ossidazione; mi disse che il procedimento si sarebbe potuto fare apportando o meno del metallo, e che se avessi preso la maschera di uno degli altri due suoi colleghi avrei potuto vedere come si svolgeva il tutto. Mi diedero una maschera e osservai questo piccolo pianista al lavoro. Quando si fermò, mio papà gli disse che mi ero appena laureata in ingegneria.
Quello.
Quello fu il preciso momento in cui avrei voluto sparire. Fisicamente, smaterializzarmi, il mio corpo mi era di troppo, ma è impossibile spiegarlo, non si può.
Forse perché, come una signorina Vinrace, invidio tutti, tutti coloro che fanno le cose, anche se perfettamente assurde, meglio di me, o forse perché sapevo già quale sarebbe stata la reazione dell'uomo che avevo di fronte, sempre la stessa, come infatti fu, però io non la volevo sentire, non volevo esserci, non di nuovo.
Ma era solo primavera, e non c'è che una stagione, ed è l'estate.

domenica 14 giugno 2015

L'altalena

Ogni zia dovrebbe accompagnare il proprio nipote al parco giochi. Ogni brava zia dovrebbe fare anche un sacco di altre cose, ma non so farle.
Ogni zia dovrebbe accompagnare il proprio nipote al parco giochi, anche se lì c'è quell'altalena dove

sette
anni
fa

ti confidai che avevo la nausea.
Mi dicesti che era stato a causa della nausea che avevi fatto un grosso errore, decidendo di iscriverti a Economia.
Capii che avevi capito, e lo capisti anche tu.
Ora, dopo sette anni, di me, di te, della nausea, non è rimasta che 

l'altalena.

mercoledì 10 giugno 2015

La sveglia del destino dei vecchi

C'è un proverbio africano, ma per quel che ne so potrebbe anche essere una frase detta dal solito anonimo, o anche da un altro anonimo, non proprio il solito, o anche da qualcuno di illustre e famoso e degno di essere assurto nella cerchia degli uomini, insomma c'è questo proverbio africano che dice che una persona può alzarsi anche prima dell'alba, ma il suo destino si sarà comunque alzato un'ora prima. Ammettendo che sia vero, si possono trarre diverse conclusioni: per esempio mi vien da pensare che allora tanto vale stare a letto un altro pochino, oppure che non mi piacerebbe certo essere il destino, soprattutto non mi piacerebbe essere il destino di coloro che si alzano molto presto la mattina, tipo i pendolari che debbano fare molta strada, i panettieri, i turnisti... i vecchi. Sì, i politicamentenoncorrettamente vecchi.
Nella via dove abito c'è, a pochi metri dal mio condominio, un poliambulatorio che apre alle sette e mezza di mattina. Per andare al lavoro in genere esco più tardi, ma da qualche settimana a questa parte ho preso l'abitudine di farmi una corsetta mattutina, a causa della quale passo davanti al poliambulatorio in questione poco dopo le sei e mezza. E ogni giorno, puntuale come il tristo mietitore, una decina di vecchi è già in postazione davanti alla porta d'ingresso (evidentemente ancora chiusa), pronta ad accaparrarsi i primi numeretti del famigerato eliminacode a chiocciola.
Così ogni mattina passo di lì, grondante in canotta, li vedo con i loro golfini blu abbottonatissimi, e mi chiedo quanti caffè si sarà già bevuto, il loro destino.

martedì 9 giugno 2015

Il mio amico George (19)

Dato che a giorni ci sarebbe stato il compleanno di un amico comune, George e io stavamo pacificamente gironzolando per il centro in cerca di un regalo.
"Ti ricordi", mi apostrofò all'improvviso, "quel libro che..."
Certo, era di McEwan, stavo per rispondergli
"...mi prestasti tempo fa, quello dove..."
...dove c'era una bambina che temeva il momento in cui..., avrei voluto interromperlo
"...c'era una bambina che si sentiva responsabile, al momento di aprire un regalo, dei sentimenti di coloro che glielo stavano donando? Beh, mia cara, sarà che sto diventando un ferrovecchio, emotivamente parlando, ma mi accorgo che ultimamente è così anche per me. Il mese scorso mia cugina mi ha regalato un brucia essenze che, credimi, non avrebbe passato alcun esame di buon gusto ma, lo sai, lei ha tre bambini e probabilmente ha dovuto fare i salti mortali per trovare il tempo di prenderlo, o forse un modello più elegante sarebbe costato troppo, oppure... Non ha importanza. No, non ha importanza, credimi, è solo che quel brucia essenze, beh, era davvero brutto, e... Ho provato una tenerezza, nei confronti di lei, come non avevo mai provato".
Ovviamente, dopo questa confessione, non fui più in grado di scegliere alcunché, per il regalo che avremmo dovuto fare, e delegai la questione al mio caro ferrovecchio. Emotivamente parlando, s'intende.

mercoledì 3 giugno 2015

Un tram che si chiama Imbarazzo

Diciotto.
I minuti di percorso in tram che separano la fermata sotto casa da quella della stazione dei treni sono diciotto. E quei diciotto minuti decido spesso di trascorrerli in piedi per evitarmi l'annoso problema dell'alzarmi per cedere il posto ad altri. Facciamo che il posto non lo prendo fin dall'inizio, e tutto diventa più facile, non devo star lì a ogni fermata a valutare l'età media di tutti coloro che entrano, i loro acciacchi, le loro gravidanze e così via. Salgo, cerco un punto di appoggio e, lungi dal sollevarci il mondo, mi ci appoggio. In piedi.
Prima provavo a fare attenzione agli anziani e alle donne in evidente stato interessante, e sia chiaro che con evidente intendo davvero evidente, diciamo dal nono mese in poi, ché la gaffe si acquatta, pronta a spiccare un balzo felino ruggendo un terribile "Ma non vedi che è il taglio del vestito, cretina!"
Ero arrivata a ipotizzare un codice di colori, una scritta in fronte, magliette, magliette per tutti, con uno stato tipo "Hey there! I'm using my old age""Non sono gonfia, sono in 18 settimane""Solo posti solidali al senso di marcia", e così via.

Lunedì scorso, in quei diciotto minuti, due scene imbarazzanti.
Scena numero uno: sale una signora anziana, piccoletta, con bastone, un po' impacciata nei movimenti, e la simil-quarantacinquenne seduta vicino al mio punto di appoggio scatta in piedi come una molla.

"No ma non serve grazie, sto in piedi."
"Ma signora, scherza?, si sieda lei!"

"No, davvero, grazie, preferisco così."
"Ma ci mancherebbe altro!"
"Guardi... Ho problemi a sedermi. Purtroppo devo stare in piedi..."
"..."

Un nume pietoso avrebbe fatto calare un sipario, ma evidentemente il nume in questione o non aveva un sipario a portata di mano, o non si sentiva pietoso, o era in altre faccende affaccendato. La simil-quarantacinquenne si siede nuovamente e scende alla fermata successiva, non si sa se perché era effettivamente arrivata o perché aveva il biglietto solo per sé, ma non per il proprio disagio.

Scena numero due: entra un presunto sessantacinquenne, e una signora dall'età non pervenuta (diciamo che non era adolescente, via), sorridendogli, si alza.

"Ma no, grazie..."
"Ma si immagini, io sono più giovane!"

Nella mia immaginazione si stava facendo buio su tutta la terra. Stavo cominciando a sudare, il mio sistema neurovegetativo non sopporta certe scene. D'altro canto ero anche pronta a godermi la scena munita di apposito secchiello di pop-corn, magari cercando di evitare gli schizzi di sangue che sarebbero sicuramente seguiti. E invece, colpo di scena!, il presunto sessantacinquenne sorride, ringrazia, si siede, e non fa scorrere sangue.
Ripongo i miei pop-corn e penso che tutto dipende dal fatto che si trattava di un uomo. Forse.

E, finalmente, la stazione.

domenica 31 maggio 2015

La complicata dolcezza del signor Endon

Si era affacciato al balcone che dava sulla piazzetta dalla quale, a quell'ora della sera, provenivano rumori di conclusione e di inizio: quello secco e definitivo delle saracinesche dei negozi che venivano abbassate, quello promettente delle prime chiacchiere e risate di coloro che cominciavano, in piccoli gruppetti destinati ad allargarsi, a rendere vive le ore che lo separavano dal riposo notturno. Si era affacciato, il signor Endon, ma non aveva sentito le voci della gente, né le saracinesche, e men che meno la musica che, proveniente dai diversi locali aperti, si mescolava fondendosi in risultati e ritmi improbabili.
Non le aveva sentite, perché il signor Endon soffriva da anni di una malattia che, così gli era stato spiegato, spesso si accompagnava a esiti inevitabili. Si potrebbe, a questo punto, essere portati a immaginarlo come una persona fisicamente provata, magari con la schiena curva, le gambe deboli e il colorito giallognolo. Niente di tutto ciò. Lo si sarebbe, anzi, potuto senz'altro definire un bell'uomo, dal sorriso aperto e dall'occhio acuto, perché la malattia che lo affliggeva non si accompagnava ad alcunché di evidente: nessuna emorragia, nessuna menomazione o esantema.
Soffriva, il signor Endon, di malinconia. Una malinconia idiopatica, si potrebbe dire, dato che lo coglieva senza preavviso e nei momenti più dissimili. E in quei momenti non aveva alcun senso aggrapparsi alla pazienza, alla filosofia, alla capacità di riflettere. In quei momenti si poteva solo accettare la presenza silente di questa compagna di solitudine.
Non aveva sentito i rumori provenienti dalla piazza, il signor Endon, perché affacciandosi al balcone aveva visto che a occidente cominciava a diffondersi un barlume roseo. E tanto era bastato.

martedì 26 maggio 2015

Il mio amico George (18)

"In fondo, mi confida George, non ha più senso parlarne adesso. Era il classico tipo di persona, sai no?, di quelle che, solo con un'occhiata, sembrano volerti chiedere E oggi? Dico, cos'hai fatto, oggi, per giustificare la tua esistenza? Quelle persone sempre sul punto apparente di dare un giudizio severo, con un'espressione sul viso simile a un lievissimo fastidio, come potrebbe esserlo il fastidio di una divinità stanca, che spera il meglio dall'umanità, sapendo già in anticipo però quanto può aspettarsi, senza poter sperare di ottenere qualcosa in più.
Si sarebbe sentito perso, senza la sua solitudine. Credo che si sarebbe sentito solo. E quelli che da fuori sembravano pensieri così complessi, beh, mia cara, erano solo semplici debolezze, fragilità cristalline.
Ma non credo abbia senso parlarne, adesso".

venerdì 22 maggio 2015

Ti tolgo il sonno dagli occhi

Stavo passeggiando per le vie del centro, sbrigandomi per raggiungere il prima possibile la fermata del tram, dato che quelle che tappezzavano il cielo più che nuvole sembravano sinistre promesse sul punto di essere mantenute. Nell'aria elettrica si percepisce in modo particolare il desiderio di disintegrarsi in una nuvoletta di spire fosforescenti. O anche non fosforescenti, non farebbe alcuna differenza.
Forse era solo sonno, pensavo, forse avrei dovuto dormire di più, forse mi sarebbe servito togliermi il sonno dagli occhi.
Non mi piacciono i film di Bertolucci. Per carità, devo ammettere che ne ho visti solo tre, ma dopo quei tre ho realizzato che se avessi avuto di fronte il regista gli avrei fatto notare che gli avevo dedicato più o meno otto, otto!, ore della mia vita, e che a posteriori me ne stavo pentendo, ma chi me le avrebbe restituite, quelle otto ore? Ciononostante ero disposta a perdonarlo per una frase.
Una. Singola. Frase.
Ti tolgo il sonno dagli occhi, dice la protagonista di... Di uno dei tre film che ho visto, non ha importanza quale.
Me lo dico più o meno ogni mattina allo specchio, ti tolgo il sonno dagli occhi, ti tolgo il sonno dagli occhi, te lo tolgo, il sonno, e anche tutto il resto.
Stavo pensando a questo, mentre mi muovevo tra gli ombrelli che cominciavano ad aprirsi. A placare l'inquietudine del momento, come in un film, arrivò la musica di una fisarmonica, che suonava Speak softly love, e la suonava straordinariamente bene. Al diavolo il tram che avrei perso, al diavolo la pioggia che mi sarei presa, rimasi ad ascoltare l'uomo che la suonava fino a che non ebbe terminato il pezzo.
Al diavolo il sonno negli occhi.

mercoledì 20 maggio 2015

Punti di smarrimento

Da piccola mi spaventava l'idea di smarrirmi.
Ora non ho più quella paura, ma ho mantenuto, quella sì, la capacità di perdermi. Avere il senso dell'orientamento di una statua di sale mi aiuta, certo, ma a questo aggiungo una certa inclinazione all'autosuggestione: anche se sto percorrendo strade ormai familiari e quotidiane, basta che tolga la marcia e lasci andare i pensieri in folle, ripetendomi che no, quella curva non dovrebbe esserci e, no, quel negozio era da un'altra parte, qui non ci sei mai passata, mai passata, mai passata, e insistendo pazientemente contro le più naturali resistenze, riesco ad avere la sensazione di essermi persa.
Avere il tempo di perdersi, di girare senza scopo, tra vicoletti scelti a caso, confondendo la luce fragile che precede di poco il tramonto con quella morbida del primo mattino, girare, girare, perdersi, sentire senza ascoltare nulla Poi le spese andranno riviste con l'amministratore se si decide di Lascio la bici fuori dal cancello il tempo di Mia cugina si è sposata in marzo ed era Com'è andato il compito di greco Gli ho fatto capire che non sono il padrone ma solo Ha due anni, è ancora piccolo, ma riesce già a Scongelato il minestrone per stasera Ti ho già detto che non la conosco Dovrebbe arrivare tra tre minuti, perdersi, non pensare, togliere l'orologio, staccare il telefono, scegliere strade a caso, mancherebbe qualcuno che mi mettesse una benda sugli occhi e mi facesse girare, girare, girare su me stessa, come quando si giocava a mosca cieca, per dire addio anche agli ultimi punti di riferimento.
Perdersi.

martedì 19 maggio 2015

Toc toc

Credevo, una volta, di fare una cosa giusta nel riuscire a ridimensionare quelli che a prima vista potevano sembrare comportamenti sbagliati, errori commessi dalle persone attorno a me. Tutto andava rigorosamente pesato alla luce del sì ma prova a metterti nei suoi panni, tutto andava relativizzato cercando di immaginare cosa poteva aver pensato l'altro, cosa poteva aver spinto l'altro a comportarsi in quel determinato modo.
Mettersi nei panni di qualcun altro... Mah. Adesso ho la sensazione che sia fatica sprecata, e che alla fine si rischi di non stare nei panni né propri né altrui. Perché l'idea che la mente di qualcuno sia accessibile a quella di altri è spesso una ridicola finzione verbale, un modo elegante di prenderci in giro.
Già il fatto che ci si debba sforzare per cercare di sondare, di immedesimarsi nei pensieri di un'altra persona avrebbe dovuto suggerirmi che non si tratta di una cosa naturale, ma di un tentativo che alla fine distorce l'immagine che se ne riceve.
Una stupida ipotesi che fa sembrare plausibile una specie di scambio tra creature fondamentalmente estranee. Ma il più delle volte rimaniamo, in ultima analisi, insondabili.

venerdì 15 maggio 2015

Il bodyguard parzialmente illuminato

Uno degli episodi in cui avvertii forte fortissimo lo scarto, la differenza tra ciò che mi aspettavo e ciò che invece stava succedendo, accadde una decina di anni fa: a causa del solito accidentale concatenarsi di circostanze, conobbi un tizio che, senza che potessi fare qualcosa per evitarlo, si mise a raccontarmi di quella che a suo dire era stata l'esperienza della vita di cui andare più fiero. E non si trattava di un più fiero in senso relativo, ma piuttosto di uno straordinariamente fiero in senso assoluto.
Magari l'interlocutore di turno è portato a immaginare salvataggi di vite umane, riconoscimenti non inferiori al Pulitzer, raddrizzamenti delle curvature dello spazio tempo, ingestioni di dieci kebab in un'unica sera... No, niente di tutto questo. Ciò che più di ogni altra cosa alimentava generosamente il di lui narcisismo era l'aver avuto l'occasione di fare parte della sicurezza durante una manifestazione a cui era stato invitato Berlusconi. "Facevo parte della sua sicurezza, capisci?, del suo gruppo di guardie del corpo!"
Già.
Sentivo cespugli secchi rotolare nel ventoso deserto che rappresentava da un lato il mio interesse per l'episodio, dall'altro il giudizio velatamente ingeneroso che stavo costruendo sulla persona che avevo di fronte.
Eppure ripenso a questo episodio con una certa regolarità. Più o meno annuale. Quello era un giorno di primavera, le giornate si stavano facendo via via più luminose, dando l'impressione di stare allungandosi. Dovrebbe essere una cosa che mette allegria, voglia di fare, insomma, che instilla positività. E invece, senza che riuscissi a spiegarmene il motivo, l'ho sempre vissuta come una medaglia a due facce, dove il retro era rappresentato da un'ingiustificabile malinconia.
Senza particolari preamboli, il tizio con cui stavo parlando cambiò discorso e se ne uscì con un inaspettato: "Che belle le giornate più lunghe, vero? Però mi fanno anche stare un po' male, come se ci fosse troppa luce, troppo giorno. Come se non riuscissi a vivere tutte le ore che ci sono a disposizione".
Come se non si riuscisse a vivere abbastanza.
Così, dopo anni, continuo a pensare che anche coloro che a prima vista mi sembrano degli orologi fermi, due volte al giorno sanno segnare l'ora giusta.

giovedì 14 maggio 2015

Una favola raccontata a un idiota

Cerco rifugio nei dettagli, purché inutili.
Il numero di spire in cui si arrotola un ciuffo di capelli ricci, l'unirsi e staccarsi delle chiazze d'olio sul piatto dove c'era l'insalata.
L'assenza di ordine dei papaveri tra l'erba, le volute tracciate dal filtro di tè nell'acqua bollente della tazza.
Gli occhi di mare, l'aria elettrica di stasera, che minaccia pioggia.

martedì 12 maggio 2015

Il mio amico George (17)

Stavo per arrendermi ad andare a dormire, quando mi accorsi che il telefono, dal tavolo dove l'avevo appoggiato, vibrava con infinita minaccia e lieve ronzio. In realtà la minaccia non c'era, si trattava di George. Con lui funziona spesso che quando non c'è vorresti che ci fosse, e viceversa. Insomma, come con la maggior parte delle persone.
"Mia cara, meno male che non stavi dormendo, mi è venuta in mente una risposta alla tua domanda di giovedì scorso".
Mentre cercavo con scarso successo di ricordare cosa mai avessi potuto avergli chiesto il giovedì precedente, George già aveva cominciato a condurmi lungo quel sentiero, lastricato con la dialettica del peggior leguleio, che egli sa percorrere con amabile disinvoltura.
"È come correre, è come leggere. Per alcuni è necessario, qualcuno ci si diverte, qualcuno lo fa senza impegno. C'è chi ci sente dentro più serotonina che nella cioccolata, c'è chi lo fa per forza. E c'è chi decide di non farlo, piuttosto di uscire una domenica pomeriggio a farsi una corsa su un prato sarebbe disposto... Ricordi?, me l'avevi letta tu quella storia dove si parlava delle domeniche pomeriggio, col loro terribile senso di svogliatezza che comincia a instaurarsi verso le quindici, quando ci si rende conto di aver fatto tutti i bagni e le docce che era possibile fare, di aver fissato con aria vacua tutti gli articoli di giornale che era possibile fissare (evitando accuratamente di leggerne i contenuti), di non poter impedire alle lancette dell'orologio di avvicinarsi inesorabilmente alle sedici, a quel momento fatidico che segna l'inizio della lunga, tetra ora del tè dell'anima. Dicevo, c'è chi è disposto a passare un pomeriggio del genere, se l'alternativa è uscire a correre, perché stiamo parlando di persone che non amano correre. O leggere. O dipingere. O vivere. Non sono attività adatte a chiunque, rischiano di diventare un peso molto più gravoso di quel che si riuscirebbe a portare".
Mentre mi parlava, stavo guardandomi con aria distratta le linee sui palmi delle mani.
Dal mio silenzio capì che crollavo di sonno, così mi salutò, soddisfatto per aver messo un punto fermo sul mio vecchio punto interrogativo.


domenica 10 maggio 2015

Preferivo quando c'eri

Le giornate più lunghe, i vestiti più leggeri e in auto un cd con un vecchio concerto di Battiato, che tra le varie immagini dipinge una scena ben nota e vissuta (Con le sedie seduti per la strada, pantaloncini e canottiere, col caldo che faceva...)
Flash e saltelli della memoria alla casa rossa al mare, col sole che mi svegliava perché dalla finestra arrivava al mio letto e mi scaldava i piedi. Mi scottavo anche con quello...
Ogni finestra aveva i propri colori: dal piano terra il verde dei fichi e del prato con le nostre sdraio e l'angolo dove cucinavi il pesce per quattro, per sei, per dieci, quanto grande sapeva diventare il tavolo da pranzo? Dal primo piano il bianco e il rosa degli oleandri e i colori della gente che a piedi andava e veniva dalla spiaggia. Dal secondo, l'azzurro luminoso e mutevole del mare a un centinaio di metri da noi, oltre il bianco abbacinante del muro e il verde e argento delle tamerici. Dalla soffitta, una tavolozza, di tutto.
E la sera, seduti per la strada, sul muretto o sulle sedie, ovviamente tutte diverse, portandoci il pane per i gabbiani, mi dicevi di prenderlo dal cesto in cucina, anche se era quello per la colazione del mattino dopo e puntuale sarebbe arrivato il Chi si è preso tutto il pane?
Preferivo, sì, preferivo quando c'eri.

giovedì 7 maggio 2015

Prova tu a capire...

Il fascino ipnotico delle cose orribili.
Stasera, nello spogliatoio della palestra, mi sono ritrovata a fissare con sincero disgusto i piedi di una tizia che portava un paio di décolleté rosa leopardate, così brutte da risultare magnetiche. Altro che navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione.
Dovevo cercare un diversivo.

Secondo me tu sbagli come prendermi
dovresti confermare cosa vuoi 
Rido, tra giochi di luce e umorismo di bassa lega
Che cosa mai dirai non voglio crederti
che cosa penserai non voglio perderti
Sulla mia ingenuità hai costruito castelli di facile crollo

Il mio raggio di innocenza
nella mia invadenza
nella mia demenza
Sei candida carezza
e queste mie paure ti fanno paura
non guardarmi
ascoltarmi
Ogni giorno sempre più grande
ogni giorno il torto cammina striscia sulla mia schiena presto soffocherà
Il mio raggio di innocenza
nella mia debolezza
nella mia amarezza
caduca e rabbiosa vendetta verso scialba carezza vòlta a quello che fu


Così, per distrarmi da tanta incantatrice bruttezza, dato che il luogo era affollato, mi sono messa a giocare al cocktail party, cercando di mettere a fuoco stralci di conversazioni casuali senza prestare in realtà attenzione a nessuna in particolare.
Saltellando, come di mondo in mondo.



martedì 5 maggio 2015

Come in fondo sto facendo già da un po'

Mi divertiva studiare la fisiologia umana. Mi affascinavano certi meccanismi, certe finezze di cui ero evidentemente inconsapevole portatrice. I movimenti automatici appresi, per esempio, quelli che inizialmente richiedono volontà e concentrazione, ma che dopo svariate ripetizioni si automatizzano, diventano più facili ed eleganti, lo schema motorio procede per conto proprio e noi, nello svolgere quella particolare azione, possiamo concederci il lusso di concentrarci sui dettagli, o di non pensare a niente e lasciarci andare, o di immaginare obiettivi più alti rispetto a quelli iniziali. La volontà, se interviene, lo fa solo per interrompere qualcosa che in realtà potrebbe benissimo andare avanti da solo, facendoci risparmiare energia, delegando ai centri nervosi inferiori ciò che la corteccia può permettersi di ignorare.
Servono molte ripetizioni, ovviamente, prima che questo avvenga. Poi, un po' alla volta, l'abitudine smussa ciò che era nuovo, per quanto fosse impegnativo, nel bene o nel male, e ci fa accettare l'imprevisto, l'inaccettabile, l'innaturale (dubito che siamo stati progettati e ottimizzati per, che ne so?, andare in bicicletta, giusto per dirne una).
Nutro una singolare e innocua invidia per tutti coloro che sanno essere così serici nei confronti dell'inaspettato, coloro che sanno muovercisi dentro scivolando come agile seta, naturalizzandolo con arrendevole noncuranza.

lunedì 4 maggio 2015

Un po' di leggerezza. E di stupidità.

Ma ci ricordiamo l'età dell'adolescenza? Quella in cui la mia famiglia non mi capisce, i miei amici non mi capiscono, gli insegnanti non mi capiscono, da cui, con facile gioco induttivo, il mondo non mi capisce?
Ah, il mondo, sette miliardi e rotti di cervelli pensanti e compassionevoli, ma mentre scrivo chissà a quanto saremo arrivati. Per quel che mi riguarda, alla faccia dell'esegesi, della lettura critica e della traduzione dei testi sacri, sostituirei il "Crescete, moltiplicatevi e riempite la terra" con un più adatto "Crescete, esponenziatevi e ci si vede".
Dicevo, sette miliardi e rotti di cervelli pensanti e compassionevoli... Ok, magari non tutti e sette i miliardi. Magari un po' meno... Diciamo un paio di centinaia di cervelli? Facciamo anche un migliaio, via.
Ora, è noto che qualsiasi numero finito diviso per l'infinito dà un risultato così vicino allo zero da essere praticamente zero. Qui però non si parla di infinito ma di sette miliardi in aumento, un numero a nove zeri che cresce esponenzialmente. Non sarebbe quindi lecito affermare che qualsiasi persona pensante e compassionevole si incontri, di tanto in tanto, sia solo il frutto di un'immaginazione malata, o al limite di un'immaginazione pensante e compassionevole?

domenica 3 maggio 2015

Poor Ozzy

Una persona a caso, in questo caso io, trascorre mesi, magari addirittura anni, pensando che Ozzy Osbourne cantasse ti limitasti ad andartene, quando ti implorai di restare. La frase fila sotto tutti i punti di vista, grammaticale, lessicale, semantico. E poi quella persona a caso si rende conto che non era un left, ma un laughed. Così una frase che già era amara in partenza, diventa ancor più orrenda, perché ti limitasti a ridere, quando ti implorai di restare. A ridere. Ma che gente frequentava quell'uomo? Passi che si sniffasse le formiche, ma bazzicare individui che...
Mah. Sono arrivata alla conclusione che quella persona a caso dovrebbe evitare di affinare il proprio inglese.
Era meglio la versione sbagliata. Edulcorata. Mia.

giovedì 30 aprile 2015

Il mio amico George (16)

Stavo spiegando a George la tenerezza che mi suscitano le donne che, negli spogliatoi delle palestre, prima di entrare in sala macchine o di andare a fare la lezione, si truccano e sistemano a colpi di rimmel e rossetto, come se ad aspettarle ci fosse il ballo delle debuttanti.
"Mah, mia cara, o sono armate di waterproof, o nell'arco di cinque minuti si trasformano in un branco di panda, oppure... Ma non eri tu quella che amava perdersi immaginando mille prospettive per ogni situazione? Ad ogni modo, a proposito di cose senza senso, ricordi quella mia collega, la tizia di Torino, esatto, lei, quella forma di vita bipede a base carbonio con cui pare dovremmo condividere, sia tu che io, una manciata di patrimonio genetico. Beh, stamattina era presa malissimo perché era la seconda volta in una settimana che dimenticava a casa il badge per entrare in ufficio. Non mi era mai successo in tre anni, che significato avrà, secondo te? Magari sto tentando di dirmi qualcosa, magari dovrei cercare un altro lavoro?, mi ha chiesto, e parlava sul serio, avresti dovuto sentirla. E vederla. Mio dio, come fai a spiegarle che ha il significato più semplice del mondo, e che magari dovrebbe tenere il badge nel portafogli e usare sempre quello? Il significato... Quando ha pronunciato questa parola mi è salito un desiderio terribile e viscerale di farglielo mangiare, il badge. Ma poi mi sono reso conto che l'aveva lasciato a casa. E quindi mi sono limitato a darle ragione, confermandole che senz'altro il suo subconscio le sta mandando messaggi da non lasciare cadere nel vuoto. Sia mai che si convince a togliersi di... Su, non fare quella faccia da buonista, ti ricordo che è una di quelle persone convinte di fare sogni premonitori. Qualche tempo fa le ho chiesto come potesse essere certa di non essere nata appena quella stessa mattina, magari addirittura cinque minuti prima del momento che stavamo vivendo, con un bel pacchetto confezionato di ricordi di trent'anni. Nemmeno sappiamo cosa sia la memoria e questa viene a ciarlare di sogni premonitori. E di coincidenze e significati. Poveretta, mi ricorda un mio vecchio coinquilino, avresti dovuto conoscerlo, passava tantissimo tempo a tormentarsi il cervello a forza di pensare. Eppure era perfettamente consapevole di non esserlo, un pensatore".

martedì 28 aprile 2015

I am.

C'è un gioco inutile che faccio quando sono al mare, quando entro in acqua, quando un corpo immerso in un fluido riceve la sensazione di potersi dissolvere. È un gioco inutile, quello che faccio: tengo la testa sott'acqua il più a lungo possibile, fino a quando i polmoni cominciano a non capire, a farsi sentire, a pungere. Solo allora decido di risalire e ricomincio a respirare, ostinatamente, rabbiosamente, come se fosse il primo respiro di sempre, come se tutto ricominciasse.

Ci si aggrappa anche alla paglia, mi disse un giorno un inglese conosciuto per caso. Clutch at a straw.

lunedì 27 aprile 2015

Il mio amico George (15)

Mi scrive una mail, George.


Mia cara, sono due giorni che vado giustapponendo immagini e pensieri spettinati, me ne rendo conto, ma sono andato dal dentista, che nel visitarmi se ne è uscito con qualcosa del tipo Oh, sì, su questo dente abbiamo lavorato vent'anni fa, ricordi? 
Quel vent'anni fa... è stato... passami il paragone, è fuori luogo ma è anche l'unico che mi viene in mente... è stato come le epifanie di Joyce, ha riportato a galla loro, pensieri e immagini che per me hanno un filo logico irreprensibile, ma a spiegarli diventano ingarbugliati e confusi.

Quante persone conosci che ricordino cose di te vecchie di due terzi della tua vita?

Fa' la brava.

mercoledì 22 aprile 2015

Vespero o Lucifero

Non mi dilungherò a descriverti i dettagli della scena. Ti basti sapere che l'aria era inerte, ferma, non sarebbe riuscita nemmeno a gonfiare la tenda. La luce stentava a insinuarsi, così pallida!, quasi fosse poco convinta essa stessa di avere un ruolo, in quel momento. Non ce l'aveva, infatti, un ruolo, non avrebbe avuto senso illuminare alcunché. L'atmosfera sarebbe dovuta rimanere di una tinta indefinita, tra il grigio e l'azzurro, come in quell'ora in cui a guardare il cielo non si sa se l'unica luce che brilla sia Vespero o Lucifero.

domenica 19 aprile 2015

Come evitare un macabro acquisto

Una questione che, da un annetto a questa parte, angustia non poco il quotidiano di mia madre, è la vendita di quella che era la casa dei miei nonni. Sarà per la crisi del settore immobiliare, sarà per la congiuntura economica, sarà che non ci sono più le mezze stagioni, la casa è ancora lì.
Oggi, dopo aver pranzato a casa dei miei, stavo trascorrendo un pigro (po)meriggiare, non particolarmente pallido, sicuramente molto assorto, quando mia mamma mi ha svegliata dal mio torpore dicendomi che forse l'agenzia immobiliare ha trovato un cliente interessato.

"Sai, pare che siamo riusciti a trovare finalmente un cliente per la casa dei nonni. Se la vendiamo, avevo pensato di comprarmi..."
"Sì?"
"...un loculo."
"..."
"..."
"Un...?"
"...loculo!"
"Un loculo."
"Sì..."

Ora. Per quanto io adori i dialoghi grotteschi, questo conteneva una dose di stravaganza che superava la mia personale soglia della tollerabilità. Evitando tuttavia di compiere quelli che chiunque avrebbe peraltro giudicato come dei giustificabilissimi gesti apotropaici, mi sono presa una manciata di secondi di silenzio. O forse stavo solo prendendo la rincorsa.
Coloro che abbiano avuto l'occasione di conoscermi sanno che sono per lo più un fuoco di paglia, soprattutto quando mi arrabbio: mi incendio in un attimo, divampo e brucio tutto, ma mi spengo velocemente, non riesco a essere perseverante neanche nell'offendermi per qualcosa, dimentico tutto e fine. Ah, la pigrizia, che grande dono.
Insomma, ho preso fiato e senza lasciarle il tempo o il modo di inserirsi anche solo con un Ma... le ho fatto capire che, santo cielo!, comprati una cucina nuova, una borsa, delle scarpe, un'altra auto, una vacanza, un mammut impagliato, ma non un loculo, e non mi si venga a dire che sono poco... poco... Chiamiamola scarsa lungimiranza da parte mia, chiamiamola scaramanzia, chiamiamola anche lucrezia o federica, chi ce lo impedisce?, sono troppo limitata all'immediato?, ma no, no!, chiaro che ci penso pure io a queste cose, ma poi mi ricordo del buon vecchio Epicuro e passa la paura, e insomma, un loculo!, ma come diavolo ti viene in mente?, e io mi sforzo anche di essere ottimista, ma certo, volentieri!, ma qualcuno vorrebbe spiegarmi perché sono circondata da persone folgorate?
Alla fine mi sono messa a ridere perché mi rendevo conto che mi stava prendendo sul serio. Ma credo di averla convinta a non comprare l'orrenda nicchia. Forse più con la risata che col il pippone precedente.

mercoledì 15 aprile 2015

La palla di stoffa

Giulio frequentava ormai da tre anni l'asilo. Era un bimbo sveglio, curioso, a volte taciturno, ma sempre accompagnato da un'espressione sorridente che trasmetteva con gli occhi, neri, neri come la pece, tanto da faticare a distinguere la pupilla dall'iride.
Andava volentieri all'asilo, non solo perché era un bambino socievole, ma anche perché per quanti giocattoli avesse a casa, là ne trovava di nuovi e diversi, e poco importava se gli toccava condividerli con gli altri, tutto era di tutti, semplicemente.
Un giorno, rovistando in uno scatolone, trovò una palla di stoffa colorata. Che non fosse nuova era fuor di dubbio, solo che evidentemente nessuno ci aveva mai giocato negli ultimi tempi. Giulio la tirò fuori e la mostrò agli altri bambini, che cominciarono a lanciarsela, a sprimacciarla, insomma a farne ciò che ciascuno avrebbe fatto con una palla di stoffa.
Giulio pensò che gli sarebbe piaciuto portarla via con sé: non voleva tenersela, solo giocarci un po' da solo, in silenzio. Non era molto grande e così, finita la giornata, prima che sua madre arrivasse a prenderlo, riuscì a infilarla nello zainetto senza farsi notare.
Arrivato a casa, andò diretto nella propria cameretta. Tra i vantaggi di essere il più piccolo di tre fratelli c'era quello, o almeno così lui pensava, di riuscire a passare relativamente inosservato. Relativamente a sua sorella, senz'altro, che trascorreva i pomeriggi a studiare letteratura inglese, chissà perché la appassionava così tanto, chissà a cosa le sarebbe servita, nell'ingenuità dei suoi cinque anni Giulio non riusciva a intuirne uno scopo, riusciva solo a sentirla che, anche in quello stesso momento, ripeteva a voce alta versi a lui incomprensibili e vani ("...had they but courage equal to desire?").
Ma si sentiva piacevolmente inosservato anche relativamente a suo fratello, che stava passando l'età della polemica tarda adolescenza: già entrando in casa l'aveva sentito battibeccare con suo padre, dicendogli che "...alla fine vedrai che Dio sparirà in una nuvoletta di logica!".
A Giulio poco importavano sia i vanesi sproloqui di suo fratello, sia i versi misteriosi di sua sorella. Gli bastava starsene tranquillo a giocare un po' da solo. Tirò fuori la palla di stoffa dallo zainetto; nel prenderla in mano si accorse che tra le cuciture si apriva un forellino dentro cui era incastrato un anello di plastica. L'anello oppose inizialmente un po' di resistenza, ma poi si lasciò tirare, facendo così srotolare un filo che a propria volta fece partire la musica di un carillon. A Giulio sembrò una musica strana, come se l'avesse già sentita mille volte, come se gli ricordasse qualcosa di antico, ma poteva essere possibile che un bambino di cinque anni conservasse dei ricordi così profondi?
Quando il carillon si fermò, Giulio volle ascoltarlo ancora, e ancora, e ancora, e tanto tirò l'anello di plastica, e con esso il filo, che alla fine lo ruppe.
Giulio aveva rotto il gioco. O forse sarebbe stato più corretto dire che il gioco si era rotto. All'atto pratico, la differenza tra le due frasi sarebbe stata insignificante.
Il giorno dopo, quando riportò la palla di stoffa all'asilo, ovviamente nessuno si accorse della differenza, dato che a nessuno era mai passato per la testa che dentro la palla ci potesse essere un carillon.
Tutto tornò quindi al più rassicurante degli equilibri.

domenica 12 aprile 2015

Lo trovi divertente?

Guardandomi negli occhi con una fermezza di cui, sapevo, non sarei mai stata capace, mi disse: "Credimi, la frase Lo faccio per il tuo bene dovrebbe essere concessa solo alle mamme che costringano i figli, di età inferiore ai sei anni se femmine, inferiore ai sessanta se maschi, a mangiare la verdura. In qualsiasi altro contesto dovrebbe essere considerata penalmente perseguibile. O quantomeno altamente inopportuna".

giovedì 9 aprile 2015

Il mio amico George (14)

Sarà che è la stagione, sarà che sa che ho qualcosa da farmi perdonare, ieri sera George è venuto a trovarmi portando un mazzo di tulipani gialli e rossi, oro e porpora, che mettevano allegria al solo guardarli.
“Oh, adesso non cominciare, lo so che i tulipani sono il tuo secondo fiore preferito, non serve che tu me lo dica, mia cara, chiunque ti conosca meno che trascurabilmente lo sa. Ma d’altro canto dove li trovo dei papaveri californiani? A volte, absit iniuria verbi, hai dei gusti così discutibili…”
Stavo sbottando in un prevedibile "Verbis, con la esse", ma mi sono morsa in tempo la lingua, accorgendomi che era un bluff, George sa come distrarmi, tipicamente o dicendo frasi latine sbagliate, così da punzecchiarmi e vedermi abbassare lo sguardo, o citando Kowalski, il pinguino cinico di Madagascar.
“Sai una cosa, sono stremato, in ascensore ho dovuto parlare del tempo con un tizio che saliva all'ultimo piano, meno male che abiti solo al secondo, così ha fatto appena in tempo a dirmi che spera che arrivi presto il caldo, ma che intanto godiamoci le giornate più lunghe e guardiamo il bicchiere mezzo pieno. Il bicchiere mezzo pieno? Santo cielo, ma… Ero tentato dal bloccare l’ascensore per spiegargli che dovrebbe svincolarsi da questa sciocca prospettiva, per tuffarsi senza pensarci troppo in una geometria alternativa, che noioso euclideo!, una geometria dove la metà vuota non sia uguale alle metà piena, ma molto molto più grande. Cambiare metrica. O cambiare bicchiere, e sceglierne uno più capiente, un boccale da birra, che subito sembrerebbe quasi completamente vuoto. A proposito, hai mica una birra?”
No, sono stata costretta a riconoscere che non ne avevo, in casa, e che avevo pure freddo.
“Ma perché non ti fai un bagno caldo, così ti passa il freddo e ti rilassi? Ovviamente hai appena mangiato quindi probabilmente moriresti, ma... Senti, davvero non hai una birra? Nelle tue condizioni? Mia cara, devi essere impazzita! Si è mai sentito di un diabetico che non abbia dell’insulina in casa? Mettiti la giacca che usciamo, ho avuto la fortuna di trovare parcheggio qui vicino. Però non prendiamo l’ascensore, questa volta, per scendere”.

martedì 7 aprile 2015

Do ut des

La sua perfezione era allarmante.
Dopo averla guardata, gli occhi ne rimanevano impressionati.
Come quando si guardi il sole, poi per un pezzo ovunque si giri lo sguardo è sempre lì, è sempre sole.
Sarebbe bastato avere tempo e pazienza, tempo e fiducia, e lasciare che la sensazione iniziale svanisse, dissolvendosi a poco a poco.

lunedì 6 aprile 2015

Il mio amico George (13)

Ore 2.07 di notte, il sogno di una finestra che mi si frantuma davanti al viso, con annesso rumore di schianto, mi fa svegliare di colpo. Mi giro verso il comodino e dopo una decina di secondi il telefono comincia a squillare. Non poteva essere che lui.
Appoggiandomi malamente col gomito sul cuscino, la bocca ancora impastata di sonno e di pezzi di vetro, biascico un Pronto poco convinto, dal momento che tutto mi sentivo, fuorché pronta.
"Mia cara, hai una voce terribile considerato che ormai non stavi più dormendo".
George, il mio funambolo del pensieri, non si fa scrupolo alcuno a chiamarmi a qualsiasi ora, e in fondo sa di agire nel modo migliore.
"Stavo dormendo tutto sommato bene, considerati gli standard degli ultimi tempi, tu mi capisci no?, quando di colpo mi è partito un crampo al polpaccio talmente forte da svegliarmi. Dio, se odio svegliarmi così, con i sogni mezzi aperti, i pensieri in una matassa informe, gli uni che si uniscono agli altri in un accerchiamento come..."
...come l'assedio di Londra...
"...come l'assedio di Londra, se capisci cosa intendo. E così, nell'obnubilamento del risveglio non ancora compiuto, ho pensato che questo, intendo il crampo, sia un modo del polpaccio per ricordarmi che esiste anche lui, laggiù in fondo. Carino, no?"
Sapevo che non poteva avermi davvero chiamata solo per questo.
"E come lo vedresti un crampo al cuore?"
Stavo per cominciare, dopo un eloquente sospiro, a rispolverare ricordi ammuffiti dell'esame di fisiologia, ma è stato George stesso a interrompermi.
"Ottimo!, sul pezzo anche in piena notte. Infatti, infatti... il cuore non può avere crampi. Quindi?"
Quindi?
"Su su, un facile sillogismo. Di validità logica e scientifica pari a zero, sia chiaro, ma sono le due di notte, chi ci può contraddire? Poniamo pertanto che il polpaccio, o meglio, i muscoli si inventino un crampo per farmi evitare di dimenticarmi che esistono. Bene. Come premessa minore aggiungiamo che il cuore non può dare crampi. Fatta. Penso di avere tutti i diritti di concludere che posso dimenticarmi dell'esistenza del cuore. Non sei d'accordo anche tu?"
Non sapevo rispondergli, così mi sono limitata a consigliargli del magnesio per il polpaccio.
E della birra per quell'altro.

martedì 31 marzo 2015

E poi...

Non ricordava dove avesse messo l'ombrello, ma quella mattina pioveva davvero a dirotto
rimbombò, rimbalzò
e non sarebbe riuscita a fare neanche la breve strada che la separava dalla fermata dell'autobus senza ritrovarsi zuppa
rotolò cupo
dalla testa ai piedi.
L'ombrello, l'ombrello, maledizione,
e tacque
e poi rimareggiò rinfranto
era anche in ritardo, tanto valeva infilare un cambio nella borsa e consolarsi pensando alla felicità degli smemorati, dimentichi del mondo, di loro stessi, 
e poi vanì
del mondo, di loro stessi, dei loro errori.


lunedì 16 marzo 2015

Ci si spoglia, si leva l'àncora

Forse nasce tutto dalla mia paura del buio, disse al tizio che, se n'era accorto, lo guardava di sghimbescio dallo specchio mentre si preparava a fare il quotidiano nodo alla cravatta. Con la coda dell'occhio osservava quella pioggia di fine inverno, quasi un post scriptum, dalla finestra gli ombrelli si lasciavano ammirare come da un acquario, fluttuanti come meduse che si gonfino e sgonfino al ritmo del cammino di chi li teneva in mano.
Incrociare, scivolare, riportare la gamba sulla gambetta, che nomi ridicoli si danno agli indumenti, pensava mentre le mani si muovevano meccanicamente, e poi ancora infilare nell'anello, tirare, aggiustare fino all'ultimo bottone del collo.
La sera, finalmente, la sera l'avrebbe tolta.

martedì 10 marzo 2015

Il mio amico George (12)

"Ti ricordi l'ultima volta che abbiamo visto il mare?", mi ha chiesto George stasera, davanti a una birra imprevista.
Se me ne ricordo!, pensavo che qualcosa di cui non mi ero resa conto gli avesse fatto prendere un colpo, era immobile da un pezzo, e invece era solo che stava pensando a...
"...come potrei mai descriverlo?, è questo il pensiero che mi blocca, come fai a spiegare cos'è la pasta a qualcuno che non sa nemmeno cosa sia la farina?"
Ho dovuto ammettere che non lo stavo seguendo, non capivo a chi e perché dovesse descrivere cosa.
"Oh, è semplice, è estremamente semplice, basta che provi a riflettere su quale sia la differenza tra un poeta, o insomma tra uno che sa usare le parole, e uno che non ne sia in grado, hai presente quei patetici tentativi da parte di dilettanti che ti fanno solo pensare Amico mio, è meglio se parli come mangi? Vorrei avere questo, vorrei saper trasformare il pensiero in sentimento e il sentimento in pensiero, senza scivolare nel ridicolmente penoso, ma non saprei da che parte iniziare".
Forse cominciavo a capirlo, o almeno così credevo. Solo non vedevo cosa c'entrassero il mare e la farina.
"Credimi, è semplice, lo è davvero. Me ne parlasti tu, anni fa, citando il prodigio austriaco: "Non so scrivere in modo poetico: non sono un poeta. Non so distribuire le frasi con tanta arte da far loro gettare ombra e luce: non sono un pittore". E poi continuava, lui. "Non so nemmeno esprimere i miei sentimenti e i miei pensieri con i gesti e con la pantomima: non sono un ballerino". Fin qui potremmo dirlo anche tu e io, no? Nè tu né io siamo pittori, poeti o ballerini. Il finale però ci allontana. "Ma posso farlo con i suoni: sono un musicista".
Noi no, io no. E in verità non è poi tanto un problema di descrivere il mare, o il brusio dell'aria al crepuscolo, o il via vai di volti, piuttosto il nodo è in come descrivere... In come scegliere le parole senza poi pensarne Mio dio, cos'è questo orrore!, capisci ora? Trovare la valvola, senza avere quella sensazione di montagne russe che salgono, salgono, salgono, e più salgono e più ti aspetti una discesa paurosa, e vorresti che la salita non finisse più perché ormai è troppo tardi per affrontare la discesa, fa troppa paura, ma continuare a salire è da folli".
Sì, adesso avevo capito. Riesce sempre a spiegarsi, George.

lunedì 9 marzo 2015

Miopia a colori

Ero la persona più miope che conoscessi. Magari dipendeva dal fatto che non mi preoccupavo, come prima cosa, di chiedere la capacità visiva di tutti coloro che incontravo, forse se mi fossi interessata di più alla questione avrei scoperto che ero in realtà circondata da gente messa ben peggio di me.
Fatto sta, ero la persona più miope che conoscessi.
Non che ne facessi un motivo di vanto, anzi, devo riconoscere che gli svantaggi erano parecchi. Potrei farne un breve (?) elenco, ma mi basta ripensare a quando, tipicamente nei bagni delle camere di albergo, dovevo prima controllare dove fossero rubinetti e portasapone. Capito questo, e solo allora, potevo togliermi gli occhiali e farmi la doccia.
Solo una cosa mi divertiva, in tutto il mio essere così tanto miope: a natale, le luci colorate degli alberi. A casa, al buio, la sera, lasciavo accese solo le luci dell'albero, che guardavo senza occhiali. Ciascuna di quelle piccole lampadine diventava un cerchio molto più grande, e molto più sfocato, di quanto in realtà non fosse, talmente più grande che ogni luce si sovrapponeva a quelle vicine, creando macchie e colori che vedevo solo io.

venerdì 6 marzo 2015

Il mio amico George (11)

Ieri, una di notte, e Morfeo non ne voleva sapere. Non mi innervosisco, in questi casi, niente lotte tra me e le lenzuola, prendo la cosa come viene, e penso alla teoria di caffè che popoleranno la mia giornata successiva. Se me ne ricordo, magari, provo a chiamare George, in genere siamo sincronizzati, nelle nostre sporadiche notti insonni.
Ieri, manco a dirlo, lo eravamo. Nel giro di un paio di squilli già mi aveva risposto.
"Dammi un secondo che recupero gli auricolari, ti dispiace?, così riesco a continuare a montare la scarpiera nuova". All'una di notte. Sta messo peggio di me. Sento che si allontana, canticchiando distratto ...ho bisogno di gelarmi e poi bruciare... e intanto penso che io ho bisogno di dormire, anche se c'è più fascino nel gelarsi e bruciare.
In quella mi accorgo che ho quasi esaurito la batteria del telefono, che adopero anche come sveglia, e che ho dimenticato in ufficio il caricabatterie.
"Non vedo dove sia il problema, domattina passo sotto casa tua e ti tiro sassi alla finestra. Alle sette e mezza va bene? Tanto, il pensiero a cui ti allacci sarà già sveglio da un paio d'ore. Per quello temo di non averne, di sassi".

martedì 3 marzo 2015

Pane, amore e burocrazia

R: ed io condividiamo, per ammissione comune, un pesante handicap: l'incapacità di gestire in modo ordinato e rintracciabile qualsiasi documento cartaceo che abbia anche lontanamente a che fare con la burocrazia, dalle ricevute delle bollette agli esami medici, passando per le carte della revisione della macchina, quelle della banca e per... Insomma, qualsiasi cosa.
L'altro giorno ragionavamo sul fatto che probabilmente finiremo sotto un ponte perché tra una ventina d'anni un diligente funzionario statale ci verrà a chiedere se nel 2004 avevamo pagato quella risibile imposta allora ammontante a euro 12, e noi ci chiederemo di cosa starà parlando, e nel frattempo il Paese tutto intorno a noi si affaccerà dalle finestre sventolando con fare saccente le ricevute diligentemente conservate nel faldone blu sullo scaffale a destra, mentre noi due ci ritroveremo con tanti di quegli interessi e more maturati nel corso dei decenni che ci verranno pignorati la casa, l'auto, il diritto di cittadinanza e il conto in banca.

Perdo carteÈ frustrante. Voglio dire, non sono una persona particolarmente stupida, so completare un Bartezzaghi in relativa scioltezza e fare un sacco di altre cose degne di un essere umano mediamente dotato, eppure con ciò che riguarda la documentazione cartacea di un qualcosa a caso è come se una bordata di totale stupidità mi si scaraventasse addosso, e rimango segretamente convinta che Colei che ormai da qualche anno riesce ad occuparsi, nonostante me, della mia dichiarazione dei redditi possa essere considerata a pieno titolo in odore di santità.

Eppure basterebbe così poco, alcuni faldoni colorati, uno per i documenti relativi al lavoro, uno per le ricevute mediche, ... E lo so, lo so, sarebbe una tecnica efficacissima, nella sua semplicità, ed è quella che avevo adottato dopo il primo trasloco. Proposito e tecnica andati ahimè perduti dopo il trasloco successivo, quando nello spostare e riorganizzare masserizie e suppellettili ho ben pensato di unire tutte le cartelle in un unico raccoglitore, che si è in seguito rivelato completamente inutile. O meglio, la buona volontà c'era, solo che l'utilità risultante era paragonabile a quella di certe prove di evacuazione che si facevano al liceo, fatte per testare la capacità di gestire l'imprevisto, ma in realtà organizzate nei minimi dettagli "suoneremo la campanella di allarme alle 10.40, così poi state direttamente in cortile per la ricreazione". Gente che si attardava per recuperare i cracker con cui uscire, per evitare la noia di dover rientrare in aula a prenderli, professori che trattenevano classi intere perché tanto è solo la simulazione, scene senza senso, e in quanto tali adorabili.
Ma tornando alla frustrazione del mio perdere costantemente i pezzi... L'ultima volta in cui ho creduto di aver perso un documento (non dico cos'era per salvaguardare quel minimo di dignità a cui mi aggrappo ostinatamente) è stato venerdì scorso, e attendo con rassegnazione la prossima volta, come se nulla potessi contro l'entropia che tanto si accanisce con le mie scartoffie.
La breve antologia imprecatoria che in genere accompagna questi momenti può essere appesantita da un'ulteriore circostanza aggravante, che consiste nel perdere il documento in questione a casa dei miei genitori. Con tempi di reazione degni di un centometrista, mia madre fa il proprio ingresso a gamba tesa con la domanda di rito: "Hai perso qualcosa?"
Sì, santo cielo, sì, sì, ho perso qualcosa, sennò perché continuerei ad aprire e chiudere cassetti in modo compulsivo?
Ovviamente questa non è la risposta che esce dalle mie labbra. La tecnica che adotto in genere prevede invece un nebuloso "Bah, sì, più o meno", evidentemente volto a guadagnare tempo. Come se una cosa la si potesse perdere più o meno.
Con spietata puntualità, arriva la solita sconsolata constatazione materna: "E pensare che da piccola eri così ordinata..." Sì, da piccola ero così ordinata, però da piccola non dovevo compilare il 730, né pagare l'assicurazione dell'auto, né tenere le ricevute della farmacia o...
Errore. Inspirare. Espirare. Cambiare tattica. Impianto di fonazione chiama circuiti cerebrali, stiamo interagendo con esemplare materno, urge l'adozione di un avvilito tono di autocommiserazione: "Sì, beh, accidenti, certo che aver cambiato casa tre volte in un anno non mi aiuta..." Perfetto, ha funzionato. Non è stato nemmeno necessario aggiungere in coda un "povera me!", bloccato sul nascere dal mio dannato senso del pudore.
Arrivati a questo punto in genere mia madre, come peraltro fa la madre di R:, comincia a snocciolare tutta una serie di improbabili anfratti in cui dovrei senz'altro cercare, dalla libreria in camera da letto a sopra il frigorifero (luogo magico in cui si nascondono chiavi, monetine, accendini e, toh!, cosa ci fa qua la fotocopia della patente?) a, chi può dire?, il vaso dei biscotti.

Mentre scrivo è rientrata R:. Ha perso dieci euro.
Ci salvi chi può

lunedì 2 marzo 2015

Dulcis in fundo

Stava camminando, Francesco, verso il solito ristorante dove aveva preso l'abitudine di cenare ogni giovedì. All'appuntamento settimanale andavano aggiunte tutte le volte che gli capitava di invitare qualcuno a cena. Forse perché troppo poco sicuro che le proprie abilità ai fornelli sarebbero state all'altezza di un qualsiasi ospite, preferiva affidarsi alla cucina di quel bonario perfezionista che era il proprietario, e ai consigli di Angelo, il cameriere, con il quale condivideva un'amicizia che durava dai tempi delle superiori. Il giovedì era il giorno in cui, ogni settimana, doveva allungare la strada del ritorno per passare a consegnare i soliti documenti firmati e controfirmati nella filiale che era stata aperta l'anno prima; questo significava una sessantina di chilometri in più, quel tanto che bastava per farlo arrivare a casa privo di qualsiasi voglia di mettersi a cucinare qualcosa. Se si aggiungeva poi che nella sede distaccata gli toccava puntualmente sorbirsi le inutili e tediose chiacchiere della segretaria, si può facilmente comprendere perché Francesco vedesse nella cena al ristorante una sorta di piccolo risarcimento danni.
Mentre si dirigeva, dunque, verso la proprio ricompensa settimanale, incrociò sotto i portici il signor Oreste, il proprietario del locale. Lo riconobbe appena, tanto camminava infagottato nel cappotto e nella sciarpa che aveva avvolto coprendosi quasi completamente il viso. Il passo deciso da soldato era però inconfondibile, e quando furono vicini fu Oreste il primo a salutare, fermandosi per spiegargli che se rincasava prima del solito era solo perché la febbre stava avendo la meglio su di lui (a giudicare dagli occhi, quegli occhi vagamente impenetrabili che non si staccavano mai dal volto di chi stava loro di fronte, avrà avuto per lo meno trentanove, forse di più), ma si raccomandava "di farsi portare il dolce che prendi di solito. Francesco, penso che qualcuno dei ragazzi in cucina abbia sbagliato qualche dose, qualche ingrediente, una proporzione, non lo so, ma... Credimi, non riusciremo mai più a fare una cosa del genere. Ho raccomandato ad Angelo di tenertene da parte una porzione, non deve succedere che tu te lo possa perdere".

E poi, a cena ultimata, accadde l'inspiegabile.
Francesco chiese ad Angelo quella che gli era stata preannunciata come una irripetibile meraviglia, ma con sua dolorosa sorpresa il cameriere si fece improvvisamente distaccato: "Questa sera non ce l'abbiamo. Ti posso portare qualsiasi altro dolce, ma oggi questo non siamo riusciti a farlo".
Non fu il tono categorico a far morire in gola a Francesco qualsiasi domanda. Avrebbe potuto raccontare ad Angelo l'incontro che aveva avuto con Oreste, dirgli che sapeva che il dolce non solo era stato preparato, ma che era stato anche messo da parte apposta per lui. Avrebbe voluto chiedergli il motivo di quel gelo, avrebbe saputo... Ma si fece solo portare il conto, e se ne andò a casa, a sfinirsi di musica.

lunedì 23 febbraio 2015

Va tutto bene

Pensavo, evidentemente sbagliandomi, che fosse un'arte difficile quella di saper stupire il proprio interlocutore. Insomma, via, pare quasi che ci siamo già immaginati tutto l'inimmaginabile, dal tasto destro del mouse, che tanti e tanti problemi risolve quotidianamente, al teletrasporto, passando per draghi e ippogrifi; da cose reali ad altre che magari non esistono, non ancora, però le abbiamo immaginate.
E invece, massimo risultato col minimo sforzo, ho ottenuto l'effetto di stupore e incredulità rispondendo con un semplice e sorridente e convinto bene a un come stai?
Sbigottimento e meraviglia a secchi, quasi che una risposta non possa in alcun modo essere così semplice, e che dietro quel bene si debba necessariamente nascondere qualcos'altro. Ma maledizione, perché ci deve essere sempre il non detto? Mica sto rincorrendo la favola bella come un'Ermione di turno, solo ci sta ogni tanto un periodo di va tutto bene, va proprio tutto bene. Niente di straordinario, solo un bene tranquillo, come l'acqua calda della doccia che cade sulla testa.

A questo proposito Thelma mi chiede di cambiare il titolo del blog. Cosa che, dopo quattro anni e rotti, ci può anche stare.

giovedì 19 febbraio 2015

So how do I do normal

Se fossi un'abile sognatrice, sarei affascinata, la sera, da Venere che fa da unica luce, un puntolino che sembra invitarmi a rotolare verso sud mentre torno verso casa.
E infatti lo sono, affascinata. Ma non mi riesce di sognare, mentre guido: la smart di turno che si infila da tutte le parti, il SUV che non sa bene se sorpassare o meno e intanto mi abbaglia da dietro, me lo impediscono.

lunedì 16 febbraio 2015

Dove si parla del pan di via

Mi scrive, LP, chiedendomi “Mi scriverai di te?”.
È la medesima richiesta che mi viene spontanea quando ho bisogno di rifugiarmi in una realtà altra. In alcune situazioni preferisco starmene nella mia tristezza, nel mio pianto inconsolabile (perché, per prassi letteraria, il pianto ha da essere inconsolabile) e andare giù giù fino a prendere la spinta, fulcro sull’avampiede, come in piscina. Ma in altre sale da dentro un “Raccontami di te, distraimi, parlami di cose che esulino da me, raccontami le storie che ami inventare”.
Mia cara, raccontarti di me, di questi giorni? Dell’eterno brindisi che perpetuo di attimo in attimo all’idea della sliding door presa e di quella persa? O preferisci che ti intrattenga scrivendoti della mia altrettanto quotidiana battaglia personale per cercare di capire cosa ci sia dietro le dinamiche del traffico, la mattina? Perché oggi in tangenziale non c’era nessuno? Tutti in settimana bianca? Qualcuno mormora di vacanze di carnevale. Ma esistono davvero? Insomma, dov’erano tutti? A volte ho la sensazione che loro sappiano qualcosa che io ignoro, e che quel qualcosa faccia oscillare i tempi di percorrenza di quei pochi chilometri che faccio la mattina dai 10 minuti di oggi, tutti lisci ai 90 all’ora, alla mezz’ora di, chissà?, domani, contemplando tutte le possibili gradazioni temporali. Ricordi quando Pennac diceva che non siamo noi a portare il cane a fare pipì fuori, due volte al giorno, ma che è il cane a invitarci a cinque minuti di riflessioni quotidiane? Ecco, forse loro sono come il cane che non ho, mi obbligano a un intervallo tutto mio ogni mattina. Ma non capisco, loro, dove si nascondano in giorni come questo, mentre di solito mi circondano come… Ricordi il racconto di Calvino? Te ne avevo parlato? Quello del tizio in auto, inseguito da un killer armato di pistola e incolonnato come lui nel traffico, a poche auto di distanza? E nell’alienazione del traffico, l’inseguito comincia a ragionare sul rapporto tra spazio e velocità, e poi è tutta una discesa di pensieri sempre più articolati che lo portano a convincersi che anche le altre auto si stiano inseguendo, o stiano scappando, e che egli stesso pure sia non solo inseguito, ma anche inseguitore, e così proietta fuori di sé la paura che lo perseguita, e tutti, tutti, lui compreso, diventano parte di una catena senza inizio fatta di innumerevoli coppie inseguitore-inseguito.

Perché ti sto parlando delle macchine in coda, quando invece ti volevo proporre una teoria? Ieri ho assaggiato per la prima volta un dolce sardo. Da ieri non ho fame. Non sto mica male, eh, anzi!, solo non ho fame. Zero. E stasera in palestra ho corso come credo di non aver fatto mai. Correvo e correvo, e più correvo e più pensavo che avevo voglia di correre. Ricordi il pane degli elfi? Il pan di via? Forse no, il fantasy non è il tuo genere, e non è nemmeno il mio, ma fa lo stesso. Noi le chiamiamo lembas, o pan di via, e sono più nutrienti di qualsiasi cibo fatto dagli uomini, e senza dubbio di gran lunga più gradevoli delle gallette, dicono gli elfi nel libro di Tolkien. Chiunque mangiasse un pezzetto di quelle lembas poteva intraprendere viaggi lunghissimi, senza soffrire fame o stanchezza. Lembas. Non ti pare un suono più sardo che elfico? O forse i sardi sono elfi? O forse i dolci sardi danno alla testa?

Perché ti sto parlando del pan di via quando invece ti volevo dire che… Come in ogni palestra, anche in questa nuova ci sono personaggi degni di attenzione, ma riderne da soli non fa lo stesso effetto. Ricordi (ricordi, ricordi, ricordi, quante volte ti sto chiedendo se ricordi?) i nostri eroi? Ecco, qui ora non c’è L’Ultimo dei Mohicani (così da noi soprannominato per una vaga somiglianza, ma in realtà era rumeno), non c’è neanche Jenny (così da noi soprannominato per una terribile maglietta con Jennifer Lopez in posizione neanche tanto ambigua) che spaccava le macchine con la sua forza sovrumana, però c’è Jimmy (così da me soprannominato perché così si fa chiamare), e anche lui ti strapperebbe più di una risata, col suo modo di ammirarsi i bicipiti ipertrofici, paiono prosciutti, Sono due chili e tre, che faccio, lascio?

Perché ti sto parlando di narcisi ridicolmente gonfiati quando in realtà ti volevo chiedere quando andiamo a ballare? C’mon, baby, come quella sera al Tunnel, facendo mattina senza neanche passare dal via. C’est la vie, cherie.

Balliamo.