venerdì 24 gennaio 2014

Parlavo con te dentro la mia testa

Fino a un paio di settimane fa, il meteo si era bloccato su uno stato di pioggia permanente, quella pioggia che cade dritta e inesorabile e che, nel guardar fuori dalla finestra a qualsiasi ora del giorno, mi faceva temere di essere finita dentro a Blade runner. In effetti, a onor di precisione, mancherebbero solo cinque anni al 2019, tant'è, l'idea di dover uscire sotto quell'incessante riversarsi di acqua mi faceva quasi desiderare di essere un replicante. E, dopo questo, o forse contemporaneamente, il secondo pensiero che mi partiva era una malinconia che in fondo è come l'umidità, ti entra nelle ossa, e ce ne vuole di sole per asciugarla via. Così, in questo stato saturnino di bile nera, pensavo che una delle cose che più mi annichilisce, nel confrontarmi con qualcuno, è il non poter condividere parole: frasi, libri, brani, racconti. Star lì con una successione di vocaboli di fronte, che il demiurgo di turno ha scelto e ordinato in modo tale da far stringere lo stomaco per la meraviglia. Condividerla con qualcuno. Incontrare in quel qualcuno l'indifferenza olimpica. E desiderare di urlare
That is not what I meant at all;
  That is not it, at all
possibilmente sotto la pioggia.

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