sabato 26 aprile 2014

Il mio amico George (6)

Ero in compagnia di George. Fortunatamente negli ultimi tempi riusciamo a vederci spesso di persona, cosa che ci permette di intavolare quelle conversazioni che al telefono non sarebbero immaginabili. Come prima cosa, George mi chiese di cambiare il nome (George, per l'appunto) che uso per lui nel blog, dal momento che a suo avviso lo farebbe sembrare una vergognosa via di mezzo tra un infante rampollo reale e il fratello di "quell'orribile maiale in 2D con cui si stanno facendo crescere pletore di marmocchi". Per fargli cambiare opinione provai a toccare diversi tasti, fino a raggiungere quello giusto: la vanità. Gli spiegai che non mi interessava chi e come usasse questo nome, a me faceva venire in mente una persona (e qui mi profusi in un ragguardevole elenco di aggettivi elogianti), quindi non potevo che associarlo a lui.
Accusò il colpo, e dietro un imbarazzo forse neanche tanto finto, finì con l'accettare il nome. E mi propose di berci su qualcosa. Voleva raccontarmi di un nuovo ("...ma neanche tanto nuovo, ormai saranno tre-quattro mesi che gira") acquisto nell'azienda in cui lavora, una tizia "carina eh, credo tra le gambe più belle che mi sia mai capitato di vedere, ma intelligenza sociale non pervenuta, noiosa come le tasse, sai di quelli che quando pare che stiano per cominciare un ragionamento, finisce che poi lasciano le frasi a metà, come se fosse chiaro ciò che avrebbero voluto dire? E non dicono mai nulla. Dio, se odio questo genere di cose...". Insomma, ce l'aveva su perché pochi giorni prima lei gli aveva detto qualcosa del tipo "se ti capita di prendere un caffè, dimmi, che ti faccio compagnia". Ora, è chiaro che voglio molto bene a George, ma sono la prima a riconoscere che a volte con lui bisogna andarci coi piedi di piombo, soprattutto nell'uso delle parole. "Lei pensa di far compagnia a me? Ma ti pare? Fa la stessa compagnia di una radio rotta, di quelle che a sprazzi riescono a sintonizzarsi su qualcosa a caso, per poi riperderlo immediatamente. E non lo sa, non se ne rende conto. Come la invidio, riesci a immaginare come e quanto io la invidi? Sì, lo so che lo immagini benissimo. No, senta, ripensandoci (stava passando la cameriera, che aveva preso le ordinazioni ma non aveva ancora portato nulla), vorrei qualcosa di forte, mi porti un Manhattan, credo sia meglio. Mi dispiace (la cameriera era intanto andata via), sto facendo un discorso da abietto e insensibile, lo so, ma lei non può farmi compagnia". Gli feci notare che la cosa poteva avere dei risvolti inaspettatamente positivi, ma prima che potessi elencarglieli aveva già ripreso il proprio fiume: "Ma sì, hai ragione, ci ho pensato pure io, non è male sapere che si tratta di qualcuno di cui non sentirò mai la mancanza. Infatti pensavo a quanto potrebbe mancarmi la tua, di compagnia. Anche se non ho ancora capito cosa mi mancherebbe".
In quella, grazie al cielo, arrivò il Manhattan, io mi presi la ciliegia e me la mangiai, assieme alle mie ipotesi.

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