lunedì 25 giugno 2012

It's a shame (such a shame)

O sono sbagliata io, e sto parlando del mio lato comportamentale, oppure l'alternativa è che faccio un uso erroneo delle parole. Di due sostantivi, in particolare: imbarazzo e vergogna. Secondo un'autorevole scienziata dell'Università della California a San Francisco (erano anni che sognavo di dire una frase da giornalista come questa), l'imbarazzo, così come il senso di colpa, coinvolgerebbe un elemento sociale che lo distinguerebbe da sentimenti come invece la rabbia o la tristezza, e si presenterebbe quindi solo in presenza di altre persone, derivando in gran parte da come pensiamo ci vedano gli altri.
La cosa non mi tornava, e quindi mi son messa a indagare. Maledizione, continuo a trovare gente (sempre autorevoli scienziati di qualche autorevole università di qualche california a caso) che conferma che ci si imbarazza di fronte a una persona, meglio ancora, l'imbarazzo rivelerebbe le grandi considerazione e importanza che questo individuo assume ai nostri occhi, talmente grandi da farci sentire inadeguati. Una sorta di sbilanciamento tra la nostra autostima e la stima verso l'altro, che genererebbe il conseguente disagio.
Insomma, tutti sono concordi nel dirmi che l'imbarazzo è sempre pubblico. Fine. La vergogna, per esempio, no, perché ha senso che ci si possa vergognare anche per motivazioni che nessun altro conosce, ma questo discorso non può essere fatto per l'imbarazzo, che mi piaccia o no.
E quindi forse basta che io inverta le parole che uso, perché se le cose stanno così non ci siamo mica. O meglio, non ci sono mica. Io mi vergogno in pubblico, non in privato, ma per imbarazzarmi posso benissimo essere da sola. E' il motivo per cui, anche se da sola, non riesco a vedere certi film, a leggere certi libri, ad ascoltare certa musica. Non devono essere cose brutte, per quelle brutte non c'è problema, non mi piacciono e fine. Anzi, talvolta non nascondo un certo gusto trash nell'approcciare, per esempio, libri che meriterebbero il macero. Ma qui si tratta di altro, si tratta di provare imbarazzo (o qualsiasi cosa esso sia, ho quasi l'impressione di essere affetta da daltonismo emozionale: ho imparato che questa disposizione d'animo di chiama imbarazzo, che questo giallo si chiama rosso, e continuo a chiamarlo imbarazzo anche se è giallo), di una cosa così viscerale e dipendente solo da I, me and myself che il libro non lo finisco, il film nemmeno, la canzone resta là, evito di partecipare a certe conversazioni. In quest'ultimo caso sì l'imbarazzo mi assume connotazioni pubbliche e sociali, ma non certo per uno sbilanciamento tra la mia autostima e la stima che provo per i presenti-parlanti. Per lo meno non uno sbilanciamento a favore di questi ultimi. E non è perché voglia fare la snob, è che proprio non ce la faccio, e quindi non dico la mia, mi va bene la loro, benché non la condivida.
Forse il problema è che in fondo sospetto che nessuno condivida quel certo modo di ragionare, che sia un simpatico teatrino dove ognuno recita, abbracciandola tacitamente, la propria parte. Non avrebbe quindi senso intromettersi, anzi, farei la figura dell'ingenua e della guastafeste se prendessi alla lettera come vero quello che invece è conveniente dire per una finzione collettiva supinamente accettata dai più.

1 commento:

Anonimo ha detto...

bellissimo spunto di riflessione :)