domenica 19 maggio 2013

Ermete, o delle ombre

Si chiamerebbe Ermete.
Non Ismaele, né Toby, e nemmeno Pietro.
Si chiamerebbe Ermete se esistesse, e se esistesse sarebbe un cane, di media grandezza, il garrese le arriverebbe poco più in alto del ginocchio. Si porterebbero fuori a passeggiare e lui le farebbe la guardia, ma non nel senso di fare in modo che nessuno si avvicini a lei o alla loro casa. Farebbe la guardia perché ringhierebbe ogniqualvolta vedesse lei avvicinarsi a qualcosa. Ermete di Shalott.
E portandosi fuori a camminare, il mattino presto o poco prima del tramonto, lei non avrebbe motivi di preoccupazione, circondata dalla sola compagnia del cane, dell'ombra di lui, e infine della propria, di ombra, quella che lei amava osservare, così alta, sinuosa e assurdamente magra, con quelle mani che, ad aprirle, mostravano dita affusolate e lunghe.
Sarebbe Ermete a riconoscere in lei l'odore della paura tutte le volte in cui il dolore, quello fisico, tornasse di notte a farle silente visita, e le si avvicinerebbe giusto qualche istante prima che lei si prenda la mano nella mano, fingendo a se stessa che una delle due sia del padre, o della madre, o di Morfeo.
Il problema, tuttavia, non sta nella non esistenza di Ermete, ma piuttosto in quella di lei.

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