mercoledì 10 aprile 2013

Più carisma e sintomatico mistero

Qualche anno fa mi capitò di essere, in compagnia di una mia amica, a uno sportello di non ricordo bene che esercizio, non erano le poste, non era la banca, era qualcosa di burocratico e avevamo entrambe bisogno di un'informazione. Per pigrizia mia, nell'entrare all'interno dell'edificio che ospitava lo sportello non mi ero tolta gli occhiali da sole, tanto non c'era fila e immaginavo avremmo fatto alla svelta. Successe che la signora alla quale chiedemmo l'informazione rispose con particolare maleducazione, e vabbe', sono cose che capitano e che non dovrebbero nemmeno meritare uno spazio nella mia memoria male organizzata. Invece il motivo per cui ricordo l'episodio è perché quella volta ebbi la prontezza di spirito di rispondere a tono all'arroganza di chi mi stava di fronte tanto che, una volta uscite, la mia amica mi espresse la propria sorpresa e il proprio apprezzamento. Per amor di precisione ricordo che ammisi che tanta sicurezza derivava tristemente dagli occhiali da sole: non era che mi sentissi Paperinik o qualcuno di quel ramo, solo mi sentivo più anonima, e in quanto tale meno associabile a ricordi altrui. E di conseguenza più sicura.
Passeggiare in un paese che non ti conosce ha di questi vantaggi. Non voglio dire che l'occorrenza di girare l'angolo e di trovare qualcuno che mi saluta mi dia noia, anzi, tutt'altro, solo che mi rendo conto che se ho la certezza che questo non può succedere, beh, mi sento più a mio agio, credo sempre per il motivo di cui sopra, ossia che mi sento più anonima, meno riconoscibile, quindi meno giudicabile. 
A mio agio, dicevo. Vero, tranne domenica scorsa: gironzolavo distratta verso il centro, passando attorno alla piazza dove da qualche giorno erano state sistemate una quindicina di giostre. Alla presa di coscienza di tutti i colori, delle canzoni (una diversa per ogni giostra, con inevitabili effetti cacofonici da sovrapposizioni casuali) a volume inutilmente alto, delle pedane degli autoscontri, delle voci dei gestori che, uguali in ogni sagra, invitavano all'ennesimo imperdibile giro emozionante come nessun'altro mai, ho provato un sentimento forte e viscerale di disagio. Nell'accelerare il passo per allontanarmi, mi chiedevo quale ne fosse la causa: la conclusione a mio parere più plausibile a cui sono arrivata è che per le sagre ho sempre avuto l'età sbagliata. Mi spiego meglio: quand'ero piccola e ci andavo con i miei genitori mi sentivo a disagio perché vedevo i ragazzini più grandi (leggasi: insulsi adolescenti che però ai miei occhi sembravano persone adulte, navigate, indipendenti e giudicanti) che ci andavano per conto loro, e al loro confronto mi sentivo troppo piccola. Quando poi, più grande, mi è capitato di andarci non con i miei, ma con amici più o meno coetanei, per un qualche motivo, mi sentivo sempre sbagliata, quello era un posto per bambini, e ben sapendo che non era necessariamente così, io lo vivevo come tale.
La cosa bizzarra è che credo tutto possa dipendere dal rumore, perché se provo a immaginare la stessa situazione, però calata in un silenzio surreale, beh, ho il presentimento che non mi sentirei troppo - qualcosa di cui non ho piena consapevolezza.

Nessun commento: