mercoledì 18 aprile 2012

Il tutto è più della somma delle singole parti (a meno che non manchi un pezzo).

Non mi accontento che una cosa mi piaccia o non mi piaccia; devo necessariamente chiedermene la ragione. Beninteso, si tratta il più delle volte di predilezioni apparentemente immotivate, per cui la soluzione non è sempre immediata.
In questi giorni mi chiedevo, per esempio, se ci sia una giustificazione dietro la mia passione per i puzzle, che credo essere una delle più longeve che mi caratterizzi. E nel pensarci mi è tornato in mente il mattone di Perec, La vita, istruzioni per l'uso che, appunto, inizia parlando in modo sottilmente consapevole di puzzle e di chi li costruisce. Il buon Georges ragiona e scrive come un dio, e riesce a interpretare l'oggetto in chiave quasi gnoseologica, argomentando che "...la conoscenza del tutto e delle sue leggi, dell'insieme e della sua struttura, non è deducibile dalla conoscenza delle singole parti che lo compongono: la qual cosa significa che si può guardare il pezzo di un puzzle per tre giorni di seguito credendo di sapere tutto della sua configurazione e del suo colore, senza aver fatto il minimo passo avanti: conta solo la possibilità di collegare quel pezzo ad altri pezzi". Per poi arrivare a qualcosa di meravigliosamente definitivo: "isolato, il pezzo di un puzzle non significa niente; è semplicemente domanda impossibile, sfida opaca".
Onestamente non sarei mai riuscita a spingermi così in là. Tant'è, non mi lascio intimidire dalla mia relativa mediocrità di pensiero, e provo a ragionarci per conto mio.
I puzzle sono come i cani di Pennac: non siamo noi a portarli fuori a fare pipì mattina e sera, ma sono loro che ogni giorno ci invitano a un paio di pause di meditazione. Il puzzle, in modo simile, forse meno affettuoso, forse meno insistente, invita a pensare in solitudine. Invita, ma non costringe, perché fin che sei lì che rigiri i pezzetti (che poi alla fine son sempre quelli) tra le mani, se càpita che passi qualcuno è praticamente inevitabile che quel qualcuno si lasci invischiare e si unisca all'opera.
Con i puzzle quindi si può stare in compagnia, ma si può pure evitarla con classe, magari adducendo la scusa che siamo terribilmente concentrati, perché ci ricordiamo chiaramente di aver visto poco fa un pezzo con questa sfumatura qui di grigio, è proprio quello che serve per chiudere questo buco, dove sarà stato appoggiato, sssssh, taci un secondo che perdo il filo, ho tutti i pezzi in testa.
Un giocatore (come si chiama uno che ricostruisce puzzle? Giocatore? Puzzler? Demiurgo?) esperto capirà certamente il nostro stato mentale, e ci lascerà rispettosamente in pace. Uno non esperto, a maggior ragione, ci guarderà con deferente riguardo e, così inibito, ammutolirà.
Ma non sono certo tutte rose e fiori: a esaltanti momenti di prodigiosa ispirazione, in cui i pezzi sembrano chiamarsi a vicenda e attaccarsi da soli, seguono lunghissimi momenti di stallo. A un certo punto l'insofferenza fa capolino e comincia a crescere. E qui, crepi la modestia, mi lancio anch'io in un parallelo da cui non so se uscirò viva.
Ci sono persone a cui teniamo particolarmente, che per motivi i più svariati càpita che ci amareggino un po'. Dimenticanze, frasi poco felici, assenze, giudizi affrettati... Il tutto senza la minima intenzione, sia chiaro. Solo che gli epsilon di amarezza tendono a sommarsi.
Fortunatamente sono persone a cui teniamo, per cui non ha importanza che per due pomeriggi non si sia riusciti ad attaccare neanche due pezzetti della cornice (della cornice!). Non appena si trova un incastro giusto, si riparte da zero.
Ecco, il pezzetto attaccato è il puzzle che ti dice: "Mica mi ero dimenticato, di volerti bene".

E comunque è meglio leggersi Perec.

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