mercoledì 12 agosto 2015

In un click

Realizzo di essere tutto fuorché lungimirante quando vedo i turisti girare con il selfie-stick e ricordo le risate che mi feci la prima volta che sentii parlare di quell'aggeggio, che erroneamente giudicai destinato a una facile e ingloriosa fine.

(Pausa di un paio di minuti per recuperare le forze dopo aver scritto selfie-stick. Non ho il fisico per certe cose).

E invece, in barba alle mie miopi previsioni, le città d'arte sono invase da orde di barbari armati di bacchette, quasi a sembrare branchi di rabdomanti alla ricerca, anziché dell'acqua, dello scorcio, del dettaglio, e poco importa se si tratta di un piccione, di un affresco, di un monumento, di un tramonto o di un paracarro. Scatto, ergo sum.
Osservavo con malcelato fastidio la gente dentro ai musei: c'erano quelli che fotografavano a tappeto, ogni opera un click, dalla prima all'ultima, forse nella foga avranno fotografato anche le sedie dei sorveglianti, non ha importanza, purché si scatti. C'erano quelli che fotografavano a campione, ogni tanto, svogliatamente, giusto perché di sì, controllando come fosse venuta l'ultima foto fatta, e intanto camminando e perdendo l'occasione di vedere tutto ciò che stava realmente loro attorno. C'erano quelli che cedevano all'ebbrezza del proibito, fotografando e filmando solo là dov'era vietato farlo. Tutti con lo sguardo all'altezza del display, tutti inconsapevoli dei soffitti, degli stucchi, dei vicini con i quali andavano inevitabilmente a scontrarsi.
Una volta, nel camminare, facevo attenzione a non passare davanti a qualcuno che stesse fotografando qualcosa. Bene, ora ho detto addio a questo tipo di attenzioni, anche perché altrimenti certi luoghi diventerebbero un gigantesco uno-due-tre-stella.
La tentazione, mio dio, la tentazione di scuotere qualcuno di questi pretesi Steve McCurry, e di chiedergli se si rende conto che sta facendo centinaia, letteralmente, centinaia di foto non solo brutte, ma anche inutili, perché nessuno le vedrà mai, chi vuoi che si metta a guardare il pezzo di affresco che hai fotografato male, tagliandone inevitabilmente più parti, prendendo di schiena quei due americani che non si spostavano, con una luce orribile e con mano malferma? Nemmeno tu, imperdonabile autore, ci perderai più tempo, ma intanto avrai perso l'occasione di guardare dal vivo, senza interposto smartphone, opere che non vedrai più, e che tanto valeva che sfogliassi su un qualche libro di storia dell'arte. Ripenso a Calvino, non posso farne a meno, al suo siete sul terreno di chi pensa che tutto ciò che non è fotografato è perduto, e che quindi per vivere veramente bisogna fotografare quanto più si può, e per fotografare quanto più si può bisogna: o vivere in modo quanto più fotografabile possibile, oppure considerare fotografabile ogni momento della propria vita. La prima via porta alla stupidità, la seconda alla pazzia.

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