lunedì 15 giugno 2015

L'operaio sardo, mio padre e io

Oggi mi sono resa conto che sono poche le sensazioni fisiche di cui ho memoria. Tra queste, una risale a un giorno di primavera inoltrata di qualche (ehm...) anno fa, un giorno di primavera poche settimane dopo la mia laurea.
Era stato allestito un cantiere vicino a casa mia, e mio padre mi aveva descritto la perizia con cui veniva eseguita da alcuni operai, uno in particolare, la saldatura dei blocchi che avrebbero alla fine composto la conduttura complessiva. Nonostante questo tipo di attività non fosse, e non sia tutt'ora, il mio pane quotidiano, mi aveva proposto di andare con lui a vedere l'accuratezza che accompagnava lo svolgimento di questo lavoro. Così facemmo, tanto il cantiere era aperto e si potevano avvicinare anche due non addetti ai lavori quali noi eravamo. Arrivati, capii subito che nei giorni precedenti mio papà aveva avuto modo di attaccar bottone con i tre uomini che stavano lavorando, dato che tutti ormai si davano del tu. Dei tre, due avranno avuto poco meno di quarant'anni, mentre il terzo, che aveva da tempo passato la cinquantina, era evidentemente non solo il più esperto, ma anche quello che veniva chiamato per rifinire passaggi e punti particolarmente delicati. Il maestro. Un ometto minuto, dall'incarnato olivastro e dallo sguardo simpatico, sveglio, sicuro. Non ricordo il suo nome, ricordo solo che mi disse da dove venivano, e che erano stati chiamati apposta per fare quel lavoro. L'imperscrutabilità delle frasi che si rivolgevano tra di loro era una prova evidente della loro terra d'origine.
Non avevo e non ho tutt'ora le competenze per poter davvero afferrare se e quanta e quale dovesse essere l'abilità di quell'uomo; ciononostante vedere come muoveva le mani, più che a una saldatura faceva pensare a un cesello, o a quei rammendi invisibili fatti da certe ricamatrici degne eredi di Aracne. Era come vedere un pianista senza ascoltarne la musica, che importanza hanno le note quando già solo i movimenti delle dita sui tasti sanno essere arte?
Mi spiegò che stava usando un elettrodo in tungsteno che permetteva di portare a fusione i pezzi da unire, mentre un soffio di argon contrastava l'ossidazione; mi disse che il procedimento si sarebbe potuto fare apportando o meno del metallo, e che se avessi preso la maschera di uno degli altri due suoi colleghi avrei potuto vedere come si svolgeva il tutto. Mi diedero una maschera e osservai questo piccolo pianista al lavoro. Quando si fermò, mio papà gli disse che mi ero appena laureata in ingegneria.
Quello.
Quello fu il preciso momento in cui avrei voluto sparire. Fisicamente, smaterializzarmi, il mio corpo mi era di troppo, ma è impossibile spiegarlo, non si può.
Forse perché, come una signorina Vinrace, invidio tutti, tutti coloro che fanno le cose, anche se perfettamente assurde, meglio di me, o forse perché sapevo già quale sarebbe stata la reazione dell'uomo che avevo di fronte, sempre la stessa, come infatti fu, però io non la volevo sentire, non volevo esserci, non di nuovo.
Ma era solo primavera, e non c'è che una stagione, ed è l'estate.

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