domenica 8 febbraio 2015

Una Vestale con la lingua in giova

Potrei sfruttare la leggerezza e il disimpegno del quotidiano, per riempire questo spazio virtuale. Potrei raccontare piccoli episodi simil-buffi come più di una volta mi sono proposta di fare, arricchendoli di quelle iperboli e metafore che sanno rendere divertente quasi qualsiasi circostanza, per quanto insignificante. Sarebbe tutto sommato facile.
Potrei, per esempio, raccontare l’episodio occorsomi la settimana scorsa, in un negozio della Tim dove, alla mia domanda su quali fossero le opzioni di traffico Internet che avrei potuto attivare sulla mia chiavetta il cui abbonamento era scaduto il giorno precedente, il commesso per tutta risposta se ne uscì con un definitivo “Boh!”
Voleva essere simpatico, il ragazzo; sottintendeva, come mi avrebbe spiegato dopo, che dipendeva dal mio precedente tipo di contratto. Voleva fare il simpatico, forse, ma di fronte al mio sguardo asettico (Mi dispiace, ragazzo, avrei voluto dirgli, mi dispiace, non voglio mortificarti, ma un Boh! non mi fa ridere, e anzi mi spiazza in un modo che non amo) credo abbia intuito che far ridere è un’arte ben più sottile, c’è chi ne ha il dono innato, c’è chi studia il mestiere non facile della risata, ma evidentemente lui non apparteneva ad alcuno dei due gruppi. E come regola aurea, non si cerchi di far ridere senza aver sondato il terreno dell’interlocutore.
Non era cosa, ragazzo, non lo era. Un pensiero mi girava per la testa, e non era cosa.

Non ho mai tenuto un diario, se non a otto anni per un paio di settimane, costante nella mia scostanza, ma dove potrei allora scrivere ciò che da alcuni giorni mi accompagna mio malgrado? Sfruttare lo spazio bianco che trovo qui, è l’idea. A costo di raccogliere giudizi che svelino la noia che sottende i sentimenti grigi e gli argomenti tristi e il già sentito dire e il dovevi arrivare a trentun anni per accorgertene?, per accorgermene, dell’inguaribile odore di marcio. Ma non mi ripiego su un’adolescenziale cupezza onnicomprensiva, il periodo jacopo ortis è arrivato e passato più di una decina d’anni fa. Ora è la nausea, certamente temporanea, ma è la nausea, e con lei l’orrore.

Mi accorgo che il nome del filosofo Bruno compare, in veste di aggettivo, sui giornali che parlano del tale che ne ha recentemente condiviso la disumana e spettacolare ed esemplare fine.
Suonala in minore, Sam, perché la musica è ancora la stessa, dopo secoli, siamo ancora quelli che andavano in piazza apposta per vederle, le fiamme, e l’endemico puzzo di marcio copriva e copre nei secoli il pungente e acre odore di carne bruciata, di vita in fumo, di morte aleggiante.
Disumana. Spettacolare. Esemplare.
Ma la morte del singolo disumanizza di un pesantissimo infinitesimo anche me, filosofia da bar sport forse, il tat tvam asi che si ripresenta, mors tua mors mea.
Qui, sul singolo, la differenza, qui la risposta alle obiezioni che, in un processo già perduto da tutte le parti e in tutti i gradi di giudizio, chiamano come testimoni tutti gli altri milioni di vittime sacrificali, sei ingenua?, sei cieca?, o per una volta non ti è bastata la sabbia, per nascondertici?, o forse questa volta, come il colonnello Kurtz, ho raggiunto il punto di rottura, e l’orrore è diventato un volto. Il singolo mi fa la differenza, l’accanimento sul singolo, cosa ti fecero in quei palazzi romani?, ricordo la nausea e l’orrore nel mio stomaco e nel libro di storia.

Come tante Lady Macbeth reincarnate nei decenni, che però a differenza della prima e vera, non si accorgano che tutti i profumi dell’Arabia non basteranno, né basterà tutto l’oceano del grande Nettuno per toglierlo, l’odore di marcio.

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